Ritirarsi dall'Ucraina nel 1943

2 Novembre 2024

È una lunga lettera, più di 250 pagine, in cui si avvicendano memorie familiari di ieri e di oggi. La bellezza di questo Piedi freddi (Bompiani, 2024) sta nell’individuale che si confonde con l’universale. Un percorso biografico, molto femminile, perché senza alcun dubbio la scrittura è anche un fatto di genere. Questa è la cifra di quasi tutti i libri di Francesca Melandri. Iniziamo dal titolo, tanto è detto in quelle due semplici parole: la geografia, le sensazioni fisiche, la vita, i ricordi, ci si sente di entrare in un luogo ostile, almeno sensorialmente, poi capiamo che ostile lo è per davvero. Piedi freddi inizia parlando di donne, e finisce con la firma dell’autrice, che giustamente, visto che è una lettera senza data, si firma, con i suoi ben sei nomi di battesimo, di cui il più bello è l’ultimo, Felicissima, che scopriamo il padre aver dato a tutte le figlie. Tra i protagonisti ci sono i racconti di Franco Melandri, un reduce dalla Russia, che poi era per lo più Ucraina.

Una guerra raccontata da chi è in tempo di pace, Francesca, e da chi invece la guerra l’ha fatta e ne è stato testimone, Franco. Melandri, giornalista della Rai e inviato agli esteri, l’ha vissuta con Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, Giulio Bedeschi e troppi altri: nomi famosi le cui narrazioni sono tutt’ora long seller nell’editoria. Ognuno si è confrontato a proprio modo con la gelida Ritirata, Rigoni Stern annotando taccuini durante la prigionia in un lager della Stiria anticipando Il sergente della neve, Melandri scrivendo quasi di nascosto, con il manoscritto celato nel cassetto per molti anni, per averne in seguito uno sfortunato riscontro editoriale. Ma si sa, i libri non sempre hanno fortuna, lo stesso Rigoni Stern faticherà nella pubblicazione, e che dire di Primo Levi il cui Se questo è un uomo verrà rifiutato nel 1946 da Einaudi? Ritorno col matto, il libro di Melandri, è un’opera dimenticata, dal titolo assurdo, fuori stampa da 54 anni, Francesca con questo suo libro spera di svegliarlo dall’oblio. In effetti è stato omesso dalla storia, arrivato male in un’editoria disattenta: pochissime copie stampate, sebbene fosse stato ben recensito da Alberto Moravia. Ritorno col matto diventa invece per la famiglia “il libro sacro delle memorie”. Da cui partire, a cui arrivare. Piedi freddi, parte e arriva da questo libro paterno, una vasta narrazione scandita dagli attuali anni della guerra tra Russia e Ucraina, alla quale la cronaca mediatica ci sta assuefacendo come puntate di una fiction. 

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Franco Melandri, Ritorno col matto, Le Monnier 1970.

Il tenentino fascista di complemento Melandri ha 23 anni quando è sulle rive ucraine del Don con 12 uomini sotto di lui, molti dei quali con il doppio della sua età. Anni dopo riceverà la medaglia d’argento al valor militare per il suo coraggio in guerra. Essere fascisti: oggi si dice, ma sì, lo erano tutti, un grande inganno nel quale caddero in molti, soprattutto i giovani sbattuti nei fronti di guerra. Sì, eravamo fascisti, anche quelli meno sospettabili: come Gigi Meneghello, come altri “bravi giovani” che il fascismo ha esaltato per la brillantezza letteraria e la vivacità intellettuale premiandoli ai Littoriali della Cultura tra il 1932 e il 1940. Meneghello, Massimo Rendina e, appunto, Franco Melandri. Una diabolica fabbrica del consenso dalla cui rete Meneghello e Rendina si divincoleranno, entrando nella Resistenza, Melandri invece no, rimane educatamente fascista. Giovani che, come membri del GUF e vincitori dei Littoriali, vivevano della promessa di poter essere assunti nelle redazioni dei giornali, quello che accadrà a tutti e tre. Melandri è da lì che costruirà la sua professione. Quel fascismo che Francesca Melandri ben sintetizza in sole 15 righe verso l’inizio del suo libro, poche, dure parole. In sintesi: idolatria violenta e miserevole, prepotenza e prevaricazione, servile opportunismo, apoteosi gretta del conformismo. Quelle caratteristiche sembravano piacere: “In fondo è per questo che avete accettato Mussolini: volevate un duro, un lottatore, e lui, che non lo era ma neanche era stupido, ha recitato la parte finché ha potuto”. Così scrive Primo Levi nel 1966 in Storie naturali, una recita condivisa. Eppure, Franco Melandri da giovane fascistello, redento con affetto attraverso le pagine del libro della figlia, oggi ha il grande merito di avere formato la generazione delle sue figlie, consapevoli, come scrive Francesca, che “essere di sinistra è compatibile con la solidarietà a un paese invaso da un imperialismo diverso da quello Usa”. A dimostrazione che il fascismo non è una tara ereditaria, né l'aderirvi una sorta di dovere di fedeltà a presunti "valori" familiari: basta conoscere la Storia per immunizzarsene. 

È scontato chiederci quando una guerra si combatte dalla parte sbagliata, come sicuramente quella combattuta dagli italiani sul fronte orientale al fianco dei nazisti dal 1941. Soprattutto è sbagliato raccontarne una parte, ad esempio solo la ritirata degli alpini nella campagna di Russia e non l’invasione: Nikolaevka, la sua tragedia umana, è stata la parte meno scomoda da raccontare. Chi ha parlato invece dell’invasione? Pochi, gli storici e meno gli scrittori. Inopportuna, complicata, sgradita. Così accade oggi nella cronaca della guerra Russia-Ucraina, con un flusso costante di disinformazione. Storie fatte certo di strategie, tattica e politica (e sempre meno diplomazia) ma soprattutto di territori e vicende personali, raccontati per luoghi da Francesca. Luoghi che legge con una leggerezza da geografa innamorata, pur essendo lei tutt’altro, descrivendoci con vero affetto una fotografia del padre soldato che le rimane dall’Ucraina: sorridente in un campo estivo di girasoli, sotto un cielo terso. Una foto in bianco e nero che ci fa percepire i colori della bandiera ucraina. Per la guerra il paesaggio non è importante, funzionale solo per l’arte bellica: le pianure si distruggono, i boschi si bombardano o si tagliano, le vie d’acqua si interrompono, come se i territori dovessero servire solo agli uomini e non a un sistema più vasto. Viene riscattato nella scrittura visiva del libro, mentre ti leggevo papà sappi che ti ho visto, una sceneggiatura tra le steppe gelate orientali.

Un libro intimo, fortemente politico, nel senso che dà David Grossman all’amore, quando scrive “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui scavo dentro me stesso”, che garbatamente in ogni pagina grida il bisogno di pace, continua correspondance tra passato e presente, parafrasi di ricordi paterni, scritti o raccontati, alcuni taciuti, con tante glosse dall’attuale guerra tra Russia e Ucraina e piccole cronistorie di puro dramma, collezionate dalla Melandri tra notiziari e giornali o racconti di testimoni. Storie diventate inevitabilmente anche sue. Che si declinano in domande. A noi lettori e al padre. Domande che solitamente i figli fanno ai genitori, diverse nel tempo: da bambina – “papà tu hai mai ucciso in guerra?” –, da adolescente, da adulta – “ma cos’accidenti avevi in testa?” –, in aggiunta a esse quelle che proprio non riusciamo a pronunciare, per rispetto di noi adulti verso i nostri vecchi. Ciò che è accaduto al padre serve alla Melandri per cercare di sopravvivere a quello che sta avvenendo oggi, e che, come molti di noi, riesce a fatica ad affrontare.

Ricordi di bambina, storie della buonanotte come quella delle galline e dei lupi e dei valenki, gli stivali di feltro salvifichi che qui non sveliamo, tutto declinato in una ironia buzzatiana, ma ancor meglio da accostare alle frottole degne del migliore Meneghello. Saranno infatti vere le storie di Melandri in udienza a New York da Kruchev a parlare di lupi, ululati e galline? Famoso il discorso del Segretario comunista sovietico e della sua scarpa sbattuta con forza sul tavolo delle Nazioni Unite nell’aprile del 1960, ma sarà vera anche la storiella del suo surreale incontro con Melandri? E sarà vero il racconto dello zio di Meneghello in Libera nos a Malo? Lo zio che vuole partecipare alla Marcia su Roma ma si ferma a Vicenza, dice però di conoscere personalmente Mussolini, da lui riconosciuto durante l’ultimo comizio a cui ha partecipato! Buffe vicinanze letterarie che umanizzano il nostro cupo Novecento tra fascismo e guerra fredda.

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Il Teatro di arte drammatica di Mariupol bombardato il 16 marzo 2022 ©HumanRightWatch (free copyright).

In effetti non ci dobbiamo turbare troppo per queste panzane: siamo già dentro un’immensa falsificazione della Storia, degna delle migliori analisi di Eric Hobsbawm. Quindi quanto possano nuocere queste infantili bugie a proselitismi di ieri e di oggi importa poi poco. Meno pericoloso questo che la retorica di Bedeschi di allora. Realtà raccontate attraverso la propaganda. Ieri, l’assurdità di pensare che le guerre fossero brevi, così si diceva ai popoli ariani e italiani: gli ucraini sarebbero caduti in poche settimane, quindi non servivano dotazioni, divise e scarpe invernali. Ugualmente oggi con Putin che nel febbraio 2022 enunciava che Kiev sarebbe caduta in tre giorni. Fantasmi di allora che ritornano oggi, negli stessi luoghi, come se fossero loro a tornare a baita. La casa è il Don. Per questo Francesca chiama la Seconda guerra di Ucraina, quella che stiamo vivendo oggi. Una “matassa aggrovigliata”, tra storia e presente, che si ripresenta con gli stessi intrecci e nodi diabolici. Le terre sono quelle di allora: Irpin’, Sumy, Kharkiv, Nikolaevka, Lviv, il fiume Dnipro, stesse geografie, medesime stagioni. Analogie inimmaginabili per noi che viviamo e siamo cresciuti in pace.

Sono domande scomode quelle che vengono fatte dalla scrittrice al padre: conoscendo l’uomo non comprende alcune perduranze di ieri, come il suo scottante articolo sulla Gazzetta del Popolo a fine marzo ’45. Un pezzo che lo metterà alla gogna; lo salverà per ben due volte il partigiano Max il giornalista, Massimo Rendina, il quale come una sliding door nella vita di Melandri ne ha capovolto una possibile fine crudele. Le guerre non si vogliono vedere, anche se sono dietro l’angolo, poi accade che l’attualità te le porti in casa, allora si urla al crimine. Realtà di questa epoca, in cui sembra in pericolo l’orto sotto casa, mentre invece come scriveva Kafka si dovrebbe Im Kampf zwischen dir und der Welt sekundiere der Welt (nella lotta tra te e il mondo stare dalla parte del mondo), rendersi partecipi di una responsabilità comune e individuale, dello stato di diritto come delle colpe collettive, “tutti siamo responsabili di come trattiamo la memoria”, questo è ciò che risponde la Melandri davanti all’attualità, cercandovi la verità nel profondo e Piedi freddi tratta il tema della colpa e della responsabilità. Come dice l’autrice, pensavo di scrivere un libro sulla guerra invece mi è venuto un libro sulla democrazia. Sulla giustizia e sulla libertà, aggiungiamo. Per molti di noi l’attualità è ancora cronaca, non abbiamo gli strumenti per collocarla in una precisa fase storica, da questo derivano molte inesattezze sul conflitto russo-ucraino, stessa cosa per l’eterno conflitto israeliano-palestinese. 

Un racconto che non eleva a mito nessuno, anzi prende le nostre memorie e le deposita ai piedi dei loro piedistalli: così Lenin e il suo crudele comportamento con i contadini ucraini, così Hitler che vedeva nel grano ucraino uno spreco se solo usato per sfamare quel popolo. Il grano, il grande tema a cui Francesca Melandri ritorna. Il grano è sempre stata materia di propaganda, basti pensare alla cosiddetta Battaglia del Grano o alla difesa della moneta nazionale con la "quota 90" contro la sterlina, alle maschie foto del dittatore a torso nudo tra i campi dell’Agro Pontino pronto a mimare il taglio delle spighe, ma soprattutto a quel termine dimenticato, “la Guerra del Pane”, mira colonialista italiana verso le fertili campagne di Ucraina, altro che disperata ritirata o compiacimento italiano verso Hitler! Guerra e pane. Responsabilità e colpe. Oggi la nostra democrazia “da divano” è fiacca e silenziosa su ciò che avviene lì di nuovo, a nemmeno duemila chilometri da noi.  

Che bello ritrovarsi con Francesca nella cucina di casa tra i gesti affettuosi del padre che le faceva capire il valore di un cibo non scontato, oggi superfluo complemento per alimentarsi, “il Pane, bene assoluto contro la Fame”. La dolcezza domestica, a cominciare da nonna Bianca, la quotidianità: questo libro è un vissuto al femminile di relazioni; si percepisce in ogni pagina l’attaccamento familiare, per analogia che ho trovato solo in Natalia Ginsburg o in Clara Sereni. Non c’è epica, come forse troviamo tra le pagine di quest’ultime, ma, qua e là, la stessa ironia. Mi spingo a dire che tutte e tre cavalcano il Novecento e Francesca lo travalica fino agli anni a noi più prossimi. “Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia”, scrive la Ginsburg. Tra quelle frasi si riconoscono le parole consuete del padre di Francesca, con le quali è cresciuta e che l’hanno portata a scrivere questo libro che con realismo si discosta dal genere letterario dell’autofiction che individuiamo invece nel Gioco dei Regni della Sereni. Frammenti di memorie e istantanee cinematografiche, i racconti di Francesca continuano a essere per immagini, con una lucidità storica che proviene dalla conoscenza, è inutile negarlo. Ecco la ragione per cui qui intreccio le tre storie seppur diverse perché, come scrive Clara, trovo in tutte e tre “la speranza di un mondo diverso, più giusto e umano”. 

Piedi freddi è una lettera d’amore, di una figlia per un padre, per trovare una via di salvezza: “l’amore ci salverà” scriveva James Baldwin di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Un lessico parentale complesso, denso di non detto, di rimosso tipico dei reduci di guerra da un lato e la complessità terapeutica nel racconto dell’autrice. Un’appassionata difesa della pace. Un sentimento per sfatare i miti di allora sulla battaglia di Russia e l’aborrita retorica di afflati imperialistici, per aprire lo sguardo di noi occidentali sull’Europa e su quella sua parte a Est che conosciamo molto poco. Un atto di personale coraggio che ci viene affidato come racconto pubblico, c’è il pudore della “vita privata” che potrebbe risultare fastidiosa: ma insomma, era o non era fascista Franco Melandri?

Si capisce che chi lo scrive è legata all’esattezza della Storia, si evince dalle note di ringraziamento. Ho sempre pensato i ringraziamenti essere importanti nei libri: lì gli autori ci indicano chi è stato loro vicino nella solitudine della scrittura, possono essere libri, ricerche, studiosi, amori, confidenti o collaboratori, fatto sta che con questi compagni i libri si sviluppano e crescono. È il padre Franco che accompagna Francesca e con lui grandi e giovani teste pensanti di storia e geopolitica del nostro contemporaneo, tra America, Ucraina, Italia e mondo anglosassone, e poi amici e testimoni. Scelte condivise, sguardi e visioni per una ripartenza senza autoassoluzione.

In copertina, Francesca Melandri, Piedi Freddi, Bompiani 2024.

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