Centre d’art contemporain di Ginevra (22 febbraio - 30 aprile) / Roberto Cuoghi, il pozzo di Babele
È un segno del destino che la parabola ricca e strana di Roberto Cuoghi inizi sotto il segno dell’equivoco. Fra il 1996 e il ’98, quando frequenta l’Accademia di Brera, Cuoghi si sottopone a una serie di prove iniziatiche alle quali resta ancor oggi legata la sua fama. Nell’arco di sette anni, a partire dal ’98, trasforma artificialmente il proprio aspetto, appesantendosi e invecchiandosi sino a far coincidere la propria immagine con quella di suo padre. L’anno prima, per undici mesi, aveva smesso di tagliarsi le unghie delle mani. Ma ogni volta che ne ha occasione Cuoghi nega a questi gesti lo statuto di “opere”: né performance né “sculture viventi”. Non si tratta (solo) di un vezzo d’artista, in fuga da un mitobiografema a rischio di stereotipo. Credo davvero non siano opere bensì, semmai, loro preliminari: esercizi spirituali che (come nella tradizione fondata da Ignazio di Loyola o in quella antica dell’esicasmo) si fondano su un allenamento del corpo, una sua predisposizione «antropotecnica» (come Peter Sloterdijk ha rideclinato, in Devi cambiare la tua vita, Cortina 2009, questa tradizione di lungo periodo).
La prima opera matura di Cuoghi aveva già “lavorato” il proprio corpo al fine di modificare la propria «grammatica della visione» (per dirla con Maria Corti). Nell’autunno del ’97 aveva indossato occhiali da saldatore con montati, al posto delle lenti, prismi di Schmidt-Pechan che ribaltano l’immagine di 180°, rovesciando la destra e la sinistra. Alla nausea e al disorientamento, Cuoghi resiste solo cinque giorni. Nei quali però fa in tempo a realizzare una settantina di autoritratti e una serie di testi dalla grafia deforme, “a zampe di gallina”, che intitola Il Coccodeista (come in un immaginario movimento artistico fondato sul verso appunto della gallina). Fra gli autoritratti ce ne sono diversi nei quali indossa, oltre ai visori, una bandana col simbolo tradizionale del Sol Levante, come impersonando un kamikaze. Era in effetti «un lavoro da kamikaze», dirà in seguito Cuoghi, ma non solo per la sua componente autodistruttiva; a loro volta i piloti suicidi impiegati dall’aeronautica giapponese sul finire della Seconda guerra mondiale sono una sopravvivenza moderna della tradizione ascetica discussa da Sloterdijk: la fascia di cotone indossata attorno alle tempie, l’hachimaki, è simbolo d’impegno diffuso nelle cerimonie scintoiste (ma anche nel mondo dello sport; oggi la indossa Takeru Kobayashi, incontrastato campione di alimentazione agonistica).
Anche i lavori in apparenza più tradizionali di Cuoghi sono a loro volta boîtes-à-méprendre. Belinda per esempio, la scultura colossale che accoglieva i visitatori all’ingresso della Biennale di Venezia del 2013, è fatta di una materia plastica leggerissima che simula però un peso mostruoso e la patina “vulcanica” che la ricopre, facendola sembrare una concrezione lavica, è ottenuta – spiega Cuoghi – mediante «cenere da pizzeria». Allo stesso modo, la trasvalutazione del demone Pazuzu è stata ottenuta, nel 2008, realizzando al laser una scansione tridimensionale di un amuleto di bronzo «grande come una sorpresina delle patatine», proveniente dall’antica Mesopotamia e conservato al Louvre; l’immagine digitale è stata poi modellata su scala gigante (alto quasi sei metri, con un’apertura alare di tre) e collocata sul terrazzo del Castello di Rivoli.
Fa spesso riferimento, Cuoghi, al mito della Torre di Babele: ricordandone l’interpretazione che ne aveva dato in uno dei suoi ultimi scritti Giorgio Manganelli, per il quale quella hybris «non nacque da tracotanza d’orgoglio ma dalla disperazione». Prima della Caduta, «gli uomini parlavano un’unica lingua, […] ma non avevano un nome». Il nome ritrovato da Cuoghi, davvero nomen omen, coincide con la sua sorte. Le pratiche autopoietiche giovanili si ritrovano nell’attitudine fabbrile a forgiare in proprio i suoi strumenti (gli strumenti musicali – realizzati colla consulenza di organologi archeologi – impiegati per incidere il coro tragico degli assiri sterminati a Ninive in Šullaiku, 2008; i forni per creare i granchi meccanici di ceramica che invadono l’isola di Hydra in Putiferio, 2016): così va inteso il suo particolare deskilling.
Il mito di Babele è illustrato da un’opera nella quale Cuoghi ha voluto interrogare le insolubili aporie del linguaggio verbale. Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā s’intitola – con una formula medica dell’antica India – un libro d’artista pubblicato nel 2014, nel quale un breve quanto enigmatico testo scritto da Cuoghi in italiano viene sottoposto a una catena di ventuno traduzioni in dodici lingue diverse: retro-tradotto in italiano, nel testo d’arrivo, come prevedibile pressoché nulla resta di quello di partenza. Qualcosa del genere aveva già fatto Eugenio Montale, prescrivendo alla complice Maria Corti di sottoporre a un simile trattamento una delle poesie più memorabili delle Occasioni, Nuove stanze. Che infine vide la luce, col titolo Poesia travestita, molto dopo la sua morte, nel 1999. Si trattava di un testo completamente nuovo; basti pensare che Clizia, severa alleata metafisica, sparisce: sostituita da un implacabile avversario di sesso maschile. Ma succede pure che, lungo la trafila, parole e immagini già cancellate tornino in sedi impreviste: non meno inquietanti, alla lettera, revênants.
Così, nel “gioco del telefono” di Cuoghi, l’immagine iniziale del suo testo («Gli angeli mettono il pane in forno»), presa dall’inno di San Tommaso Panis angelicus, alla fine del percorso riappare stravolta: «Sembra che per fare il pane stia cercando una farina che non esiste». Un’immagine che pare alludere alla sostanza irridente dell’intero progetto: la farina che non esiste è la materia verbale spuria, irreparabilmente corrotta, che sostanzia il «pane» dell’opera.
Quando alla periferia di Milano si perviene nello studio-fornace-athanor nel quale sono sprofondati Roberto, Alessandra e Nicoletta colpisce subito – scritta a caratteri cubitali sopra l’ingresso – la scritta LOTTA: un anagramma, mi dicono con un sorriso, dell’insegna TOTAL di un benzinaio. Mentre Cuoghi mi spiega come realizzerà i granchi di Putiferio, mi distraggo chiedendomi se sia più importante riconoscere la pubblicità dietro quella professione di antagonismo, oppure svelare il potenziale antagonista della pubblicità… del resto anche quella marca di carburante trasvaluta in termini mercantili un concetto metafisico come la totalità…
Quella scritta dantesca, infernale, richiama le immagini di demoni che infestano l’opera più recente di Cuoghi. Come il già incontrato Pazuzu, demone dei venti della mitologia mesopotamica. Ricordando come dalla sua immagine fosse stata elaborata nel 1973 quella del Diavolo nel blockbuster cinematografico L’esorcista, con un certo ottimismo Cuoghi si dice convinto che Pazuzu, demone doppio, sarebbe piuttosto lo strumento perfetto dell’esorcista. Ma era un altro film la sua favola d’identità, nell’adolescenza nella Modena in cui è nato (proprio nel ’73…): Simon del deserto di Luis Buñuel (1964). E davvero nessuno meglio di Cuoghi incarna oggi una funzione antica, ma oggi più attuale che mai: quella dell’artista come eremita. Che si raccoglie in un più o meno accigliato isolamento, in più o meno implicita polemica nei confronti della mondanità sempre più esteriore, pubblicitaria appunto, che regola il «sistema dell’arte» nel tempo della sua turbo-finanziarizzazione. Ispirato alla figura di Simeone Stilita, che nel V secolo d.C. visse per 37 anni in cima a una colonna nei pressi di Aleppo, il Simon di Buñuel rifiuta il sacerdozio che gli viene offerto dai monaci, ma è evidente la superbia di questa e altre sue professioni di umiltà.
L’isolamento di Simon, le sue forme estremistiche di penitenza (come lo stare in piedi, sulla colonna, su un piede solo), sono all’origine del lavoro di Cuoghi su di sé. Prima che venisse autorizzata la scansione digitale dell’originale conservato al Louvre, nel 2007 Cuoghi aveva realizzato, di Pazuzu, una coloratissima versione “fumettistica” nella quale questo cartoon fosforescente è appollaiato, come un Gargoyle su una cattedrale gotica, in cima a una specie di colonna che riproduce il logo del Castello di Rivoli: l’artista-eremita si raffigura in stato di isolamento sul ciglio, alla sommità dell’istituzione-arte.
L’unicità della figura di Cuoghi nel panorama dell’arte italiana di oggi – sostiene Andrea Bellini – consiste nel suo nichilismo di marca romantica, demonica: antitetico rispetto alla dominante anti-tragica della nostra cultura (come ha mostrato Giorgio Agamben), ironica o comunque tesa alla ricomposizione di tensioni e conflitti sul piano dell’equilibrio. Invece di estendersi sulla superficie, su un piano, è come se Cuoghi scavasse alla ricerca di un fondo remoto quanto elusivo: e colla sua erudizione sorprendente (che per molti versi lo avvicina a uno scismatico per antonomasia come Emilio Villa) è davvero un pozzo di scienza. Del resto già Kafka aveva rideclinato l’immagine della Torre in quella della Fossa di Babele: perché la confusione delle lingue, cioè quella tra i vari piani della conoscenza e i diversi piani temporali, non avviene elevandosi, come una torre o uno stilita nel deserto, ma sprofondando in un deposito remoto che poi è forse l’immaginario collettivo. Dal suo pozzo Cuoghi fa emergere, ha scritto Bellini, una componente «oscura e febbricitante».
E infatti, dalla leggenda di Simon non poteva mancare l’Avversario: la mitobiografia del suo scisma dal Secolo (come quella – dalla sterminata fortuna artistica e letteraria – di Sant’Antonio abate, che lo precede di circa un secolo) è la storia delle tentazioni nelle quali lo induce Satana per porvi termine. Nel film di Buñuel il diavolo si presenta nelle vesti ingannevoli, travisate, prima di una bambina all’apparenza innocente, poi d’una donna lussuriosa (è Silvia Pinal, già protagonista di Viridiana e dell’Angelo sterminatore). Simon in un primo momento riesce a scacciarla (al che la splendida donna si rivela un’orribile vecchia), ma alla fine Satana si ripresenta per trascinarlo, a bordo di un aereo, nel mondo contemporaneo: in un locale notturno di New York dove Simon è costretto ad assistere alla danza sfrenata di giovani che, ai suoi tempi, avrebbe invece probabilmente contato fra i suoi seguaci. Il rapporto fra Simon e il Diavolo è chiaramente improntato all’ambivalenza; lo dimostra il finale che Buñuel (come dirà una volta a Georges Sadoul) aveva immaginato per il suo film, senza riuscire a realizzarlo: morto Simon sulla sua colonna, il suo posto sarebbe stato usurpato proprio da Satana che, prese le sue vesti, avrebbe condotto l’umanità alla perdizione.
Ispirata al principio dei desideri – ai loro oscuri oggetti – è l’opera tutta di un artista come Buñuel, fatta per essere fraintesa, infinitamente travisata; e se Simon del deserto ne appare la quintessenza è in quanto opera strutturalmente, ancorché preterintenzionalmente, “aperta” (il film non venne completato, e restò allo stadio di mediometraggio, perché durante il lavoro fallì la produzione…). L’eremita di Buñuel viene frainteso da coloro dai quali ha scelto di separarsi; ma lui stesso, a ben vedere, non può che fraintendere, travisare la propria esperienza. Alla fine Satana al reiterato, e sempre meno convinto, «Vade retro» di Simon risponde, con gesto di sfida e tono di trionfo, con quelle che sono le ultime parole del film: «Vade ultra!... è la vita, ubriacone, devi sopportarla… devi sopportarla fino in fondo!»
Dal 22 febbraio al 30 aprile, al Centre d’art contemporain di Ginevra, si espone a cura di Andrea Bellini Perla Pollina, 1996-2016, la prima grande retrospettiva di Roberto Cuoghi. Dal catalogo della mostra, edito da Hatje Cantz, si riproduce una versione ridotta del contributo di Andrea Cortellessa.