Robin Morgan: la politica dell’eros
“Un rumore di passi alle spalle. Pesanti, rapidi. Passi maschili. Lei lo sa subito, come sa che non deve guardarsi intorno. Il cuore le batte più in fretta. Accelera, ha paura. Potrebbe essere uno stupratore, un soldato, un molestatore, un rapinatore, un assassino. Ha paura. Potrebbe non essere niente di tutto questo. Potrebbe essere un uomo che ha fretta. Potrebbe essere un uomo che va al suo passo normale. Ma lei ha paura di lui. Ha paura di lui perché è un uomo. Ha ragione ad avere paura”.
Ecco, rileggo, sono passati anni e mi chiedo, mi ritrovo alle spalle ancora lo stesso uomo? Fa paura, in effetti, che sia sempre lì, a fare paura.
Il demone amante di Robin Morgan, uscito in Italia nel 1998 per la Tartaruga, nove anni dopo la pubblicazione americana, è oggi di nuovo in libreria sempre a cura di Maria Nadotti per VandA edizioni.
È un libro pieno di storie e di Storia, denso di episodi, nomi, dati, di un tempo in cui Morgan, poeta, teorica politica, giornalista, faceva parte di movimenti per i diritti civili, si apriva alla svolta femminista, fondava Witch (Women’s International Terrorist Conspiracy from Hell), prima di dirigere il celebre bimestrale “Ms”, fondare nel 1984 con Simone de Beauvoir Sisterhood Global e il Women’s Media Center insieme a Jane Fonda e Gloria Steinem.
Diviso in capitoli che sono come i movimenti di un romanzo, questo mirabile saggio pone al centro il mito dell’eroe, la fascinazione per quel genere di uomo che più della vita ama la morte, eccitante e eccitato a sua volta dalla potenza distruttiva del suo agire e del suo sentire. Forte, retto o semplicemente eretto, armato, è quello dei pericoli, della fratellanza, dell’onore, della conquista, della presa del potere, delle danze di guerra, delle lotte fratricide, della caccia agli animali, della leva militare, lo conosciamo, terrorizza. E piace. È intelligente, forte, potente, dominante, virile.
È quello che occupa con forza lo spazio, rivolge sicuro o non rivolge più senza motivo la parola, quello che sta dove tutti vorrebbero, è il capo, il boss, è il padre, il padrone, quello che sta alle riunioni, alle assemblee, che dorme accanto, è lo Stato, è il terrorista, è il liberatore, è quello che ha fatto della violenza la sua forza. Quello che ha raccontato e ancora racconta che senza violenza non c’è sopravvivenza, anzi, non c’è vita. È l’uomo comune, dice Morgan, che nasce maschio, in un regime patriarcale. Che disgrazia!
Che mancanza di immaginazione. Sottomette ma si sottomette, anche, al destino che gli hanno cucito addosso, a cui corrisponde, che non viola, semmai protegge, custodisce, salva per rinchiudere di nuovo. Anziché vivere per una causa, ci muore. Il mito dell’eroe con la passione per la morte la chiamano virilità. Che può anche assumere il corpo dello Stato, con il controllo dell’informazione, il rafforzamento legale della legge, la coercizione economica, la minaccia diretta alla vita, approcci legati alla dinamica patriarcale.
Morgan passa in rassegna epoche e Stati, personaggi della scena pubblica e politica, rivoluzioni e liberazioni e molto della sua stessa esperienza di attivista e di femminista in anni in cui non era difficile essere schierati ma anche schedati, controllati dalla Cia, anni in cui abbracciare la lotta armata aveva l’aria di essere la scelta più capace di rivoluzionare il sistema. Lo chiama sessualità del terrorismo, Morgan, il sistema che lega la sessualità alla virilità come violenza, senza cedere alla retorica lusinghiera di un essenzialismo che vede le donne pacifiche accoglienti incapaci di rabbia e bellicosità. Come sarebbe, sostiene l’autrice già quarant’anni fa, che le donne non sono anche così, visto il contesto storico, esistenziale, psicologico in cui da sempre donne e uomini sono costretti, sì, costretti, a vivere? Perché dovrebbero essere diverse, se non per scelta, per consapevolezza? Ostaggio per tutta la vita, profughe, clandestine, pazze, soggetto oggettivato di una narrazione in cui la paura è eccitante e il terrore orgasmico.
Morgan è tra le prime a dire che non è un’accusa, ma una conseguenza, che non è da tutte essere antagoniste a questo ordine, che per tradire una narrazione ci vuole consapevolezza, ci vuole sapere, ci vuole una presa d’atto politica, come direbbe bell hooks, ci vuole una rivoluzione, femminista. Le donne non sono diverse per natura, sono così perché il sistema patriarcale ha dato loro un ruolo preciso e funzionale al sistema stesso quello morbido e accuditivo della cura che passa dall’ascolto, dal consenso, dalla riproduttività, che allevia la malattia, che accompagna alla morte. La narrazione le vuole in secondo piano, personaggi minori, senza il potere di fare la storia.
Sono state escluse dal potere quindi dalla violenza come azione legittimata dal ruolo. Ma tra loro le donne sanno benissimo che non sono affatto incapaci di bellicosità, di rabbia, di violenza, cresciute come sono in un contesto materiale, culturale, politico, educativo, sociale, psicologico che il maschio lo crea e lo vuole violento, in cui il potere se è, è violento, è su e non di, è quello di un eroe che ama e uccide, uccide mentre ama donne che sono la madre da ripudiare, la tentatrice da conquistare, la moglie che con amore vuole sottomettere.
Così che se vuole il potere una donna deve imparare che potere è potere dell’uomo. Deve entrare nell’harem del demone amante. Così, una donna al potere senza consapevolezza a che serve? A ripiegare il linguaggio femminista alle logiche maschiliste. Non solo in una stanza del potere, ma in ogni casa, in ogni letto, in ogni manifestazione di piazza, in ogni azienda, e accademia, tra cacciatori di teste, mariti stupratori, docenti abusanti, ovunque dove il potere sia dominio. La politica eiaculatoria, come la chiama Morgan, si manifesta con chiarezza nel linguaggio delle relazioni.
Morgan analizza a fondo questo nemico di uomo che non sa inventarsi un’altra politica, ne studia i tratti, gli atteggiamenti, le pratiche, ne capisce la forza, la potenza seduttiva. Non fa critica, cattura la forza della narrazione, la sbriciola da dentro, la fa sua. Non entra in ogni piega con occhi giudicanti, disprezzanti, demonizzanti, ne adotta le forme e le pratiche come a volerne onorare l’intelligenza. E qui sta la grandezza, e l’attualità di questo libro, prima di proporre la rivoluzione, Morgan studia bene chi le cammina davanti, anzi, dietro. Sa tutto di lui, della sua storia, della sua fragilissima forza, sa che non vale la pena provare a batterlo, che a usare le sue armi si diventa come lui.
Ci vuole altro, ci vuole un’altra politica, al di là del terrore, ci vuole l’eros che sostituisca l’eroe, una educazione all’amore che racconti un’altra narrazione, quella di un potere di e non su, quella di un’umanità che si inventa una tecnica della conservazione e non dell’eliminazione, che non abusa ma condivide, che non distrugge ma espande legami, che si sente parte, non a capo, di un mondo, che imbraccia la sacca, come dice Ursula Le Guin, per raccogliere, prendere, conservare, mettere dentro, non fare fuori.
Liberarsi dal demone amante significherebbe liberarsi del terrorismo, dei suoi effetti, dice Morgan, farla finita con la sua sessualità, quella che ha dato alla violenza il potere di distruggere e alla paura il potere di tornare ogni volta a restaurare lo stesso sistema.
La scelta non sarebbe tra violenza e nonviolenza, come se per diventare soggetti inattesi fosse necessario assumere l’ideologia dell’altro, ribaltando prospettiva e quindi vincendo sul dominante diventando dominanti, la scelta è dire NO all’esistente, e SÌ a una rivoluzione che racconti di un potere che non ha bisogno di dominio.
Guardala da vicino, attraversa una strada cittadina o cammina lungo una strada polverosa.
È la donna di casa che “non si è mai occupata di politica”, che all’improvviso organizza la sua intera città nella lotta contro le scorie tossiche che si depositano nel cortile, è la contadina del Kenya che pianta alberi per creare una cintura verde, è una donna che insegna alla figlia a difendersi, che toglie gentilmente la mano del figlio dal grilletto, è la donna che dice “No” all’esistente e “Sì” a ciò che sa possibile. Si è presentata dove nessuno l’aspettava e dove nessuno l’avrebbe presa sul serio, come sostituto dell’insindacabile arbitro che appiana da sempre le questioni internazionali: la violenza.