Sergio Peter. Dettato

29 Agosto 2014

Dei personaggi robusti e induriti nella Marsica di Silone, dei taciturni protagonisti di Pavese, delle atmosfere neorealiste più dimesse e più autentiche si sentono gli echi in Dettato di Sergio Peter. Un romanzo breve che emette verità e autobiografia senza mai diventare autoreferenziale. Il fluire spontaneo dalla coscienza dell’autore, mai ammiccante è, per fortuna, non perfettamente orchestrato come in molti bestseller, di quelli, per intenderci, che vincono i premi glamour. Ed è molto meglio così.

 

Qui prevale il tempo del racconto: una narrazione franta e intima da parte del protagonista, che poi è anche il narratore e autore, Sergio. Con tecnica cinematografica riesce a “stringere” come con una telecamera sui personaggi della sua famiglia, per poi “allargare” sui paesaggi del suo piccolissimo mondo antico. In questo andirivieni della memoria le persone sembrano incastonate in un ecosistema senza via d’uscita: la Lombardia di confine, il profondo nord contadino e distante.

 

Si parte dal trisavolo Santino Peter, passando per il bisnonno Domenico Peter, fino alla generazione del protagonista. Un secolo e più di storia, il ‘900, scivola fino alla ‘crisi’ dei nostri giorni, alla mancanza di lavoro, alla povertà moderna. Che in fondo non è molto diversa da quella del passato: per i vinti della storia, insomma, poco è cambiato, sembra suggerire l’autore. Nemmeno le due guerre, che si sentono come un brusio lontano, i rastrellamenti, citati solo una volta e poi talvolta riaccennati nelle lettere zoppicanti dell’ultima parte del romanzo, sembrano in fondo peggiorare l’esistenza di questa famiglia in cui la fame è sempre stato il vero nemico da combattere.

 

Nonostante il volontario schiacciamento sulle difficoltà quotidiane, accentuato dall’uso del dialetto, il linguaggio di Peter riesce ad esser vario: semplice e paratattico quando parla coi pensieri del bambino, più poetico con la voce dell’adulto. Lo stacco fra i due tempi, talvolta repentino, esemplifica una frattura sostanziale della vita: la morte del padre, improvvisa, come la caduta dal ponteggio che l’ha causata.

 

Le case e la chiesa assumono, nel racconto, lo status di personaggi veri e propri, centri e creatori di vita. Per qualche pagina ad un certo punto ci si dilunga inspiegabilmente sull’idea del campanile. Un’ovvietà per chiunque abbia familiarità con i piccoli paesi. Scorrendo le righe si scorge però un rimpianto più vasto: “oggi le campane che suonano non si muovono più (al loro posto un disco simula i rintocchi): che se le campane smettono di muoversi un giorno smetteranno anche di suonare (…) e ci credo che la gente non dà più retta nemmeno al prete”.

 

Finirà, insomma, che gli occhi si abitueranno a veder suonare campane che non si muovono. Rintocchi simulati di un tempo vissuto senza verità . “I paesi son nati intorno alle chiese e adesso non voglion più sentire nemmeno le campane! Lasciano le corde ferme e poi dicono che la gente si impicca” lamenta. E se il padre, campanaro, era morto accidentalmente, ora le corde sono agli occhi di Sergio simbolo di morte. La morte, collettiva, di quella civiltà contadina.

 

In queta sintassi emozionale talvolta volutamente approssimata si delinea la personalità del protagonista: “ovunque io vada – pensavo – mi sembra di essere fuori luogo, invece qui sto bene”. Un bambino introverso e diverso: “perché non studiano? a me piace prendere i bei voti”, isolato fino a porsi una dolente domanda esistenziale: “cosa devo fare per esser meno solo?”

A chiudere il libro è un personaggio, L’Ermanno: il poeta contadino, in cui si può leggere un omaggio dell’autore ad un altro grande scrittore lombardo ‘delle piccole cosÈ, Piero Chiara. L’Ermanno prova ad alzarsi sugli altri ma in fondo nella storia non può che rimanere schiacciato in un vocabolario di proverbi popolari: “senza l’acqua non si fanno neanche i miracoli” dirà d’altra parte egli stesso con crudo realismo.

 

Le pagine finali scivolano in un groviglio di voci mescolate in cui non si riconoscono più le coordinate spazio temporali ed emerge la lacerante malinconia. Come nella prima parte torna la forma del prosimetro disordinato, con punte liriche cui sfugge un considerazione amara: “Scorre l’ora, tramonta il giorno, passano gli anni e in tempo così breve passa la vita!”.

Mentre questo accade l’autore manifesta la necessità di fermarsi, che è poi forse il vero stimolo a scrivere ciò che stiamo leggendo: “Presi il via…per star fermo […] dagli asini imparai la permanenza nel luogo”. Perché in fondo non si può mai veramente fuggire da se stessi e dalla propria storia.

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