Sfuggire al capitalismo neo-liberale
Con una piccola esagerazione (tale solo a causa dei giganti che ci accingiamo a portare come pietre di paragone) si potrebbe sostenere che uno dei più interessanti eredi del pensiero critico francese, dopo la morte di Deleuze, Debord e Baudrillard, sia un italiano, Maurizio Lazzarato.
Dopo La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013), Lazzarato continua la sua indagine sui modelli filosofici e antropologici sottesi alla nostra attuale condizione di “uomini indebitati”. Il lavoro precedente del filosofo e sociologo post-operaista da anni emigrato in Francia, era incentrato – a partire da Nietzsche e Deleuze – sulla ricostruzione di un modello antropologico che potrebbe essere definito come quello dell’ “uomo indebitato”: di quel particolare tipo di soggettività che gli apparati mediatici e di potere promulgano a viva voce quotidianamente a partire dallo scoppio della bolla economica degli immobili negli USA.
Rispetto a quel testo i saggi che formano Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista /DeriveApprodi, 2013) rappresentano sicuramente un passo in avanti, per lo meno dal punto di vista filosofico. Sostanziando le analisi fortemente sociologiche del volume precedente con un continuo e diretto uso di alcuni autori classici del panorama filosofico-politico del Novecento, come ad esempio Carl Schmitt e Felix Guattari (che, secondo l’autore, dai due estremi opposti dello spettro politico ci dicono qualcosa sulla “condizione neoliberista” a cui tutti soggiaciamo nell’epoca del capitale trionfante), Lazzarato scrive un libro a tratti – ci sentiamo di sostenere – autenticamente foucaultiano.
Se infatti Foucault è, sicuramente, uno degli autori-chiave del testo, non è lo è tanto per le citazioni dirette (pur presenti), ma per l’eredità che il suo metodo svolge nel libro di Lazzarato. L’analisi della seconda “bolla” economica per grandezza, dopo quella immobiliare, vale a dire quella del debito degli studenti americani, che si ritrovano per il 32% fino ai 40 anni compiuti a restituire i prestiti per lo studio universitario (e nel 5% oltre i 60 anni) rappresenta – ad esempio – un ottimo modo di applicazione delle indagini archeologiche foucaultiane a problemi economici attuali.
Ma ancor più di Foucault è Deleuze ad animare dall’interno il testo di Lazzarato: questo infatti assurge, ed è evidente che vuole essere, un’“arma” («Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi» [p. 74] sostiene in conclusione del secondo saggio della raccolta l’autore, citando proprio Deleuze), come avrebbe voluto proprio Deleuze da un testo.
L’arma di Lazzarato, come tutte le armi efficaci, è semplice. Rifiutando sia il modello antropologico propugnato dal neoliberismo (l’uomo come capitale umano e imprenditore di se stesso) che quello economico delle attuali società capitalistiche (le quali, tutte, comprese quelle gravate – per non dire oppresse – dal debito, propugnano un ideale di crescita e sviluppo che sarebbe da perseguire contro e nonostante la crisi e l’indebitamento), Lazzarato pone tre presupposti alternativi, da cui ripartire.
Maurizio Lazzarato
Il primo – stupefacente nella sua semplicità – è che non è affatto logico (né conseguente, né giusto) che i cittadini paghino per dei debiti che non hanno contratto. Non esiste principio di responsabilità che tenga di fronte a un debito causato dalle speculazioni di pochi (pochi i quali, ai vertici della finanza mondiale e degli Stati Nazionali, sono coloro che meno vengono toccati dalle misure tassative a cui vengono sottoposti i comuni cittadini). Pagare, e accettare di pagare, è un atto di rassegnazione politica, non di buon senso e responsabilità sostiene Lazzarato.
Il secondo è che la crisi non è un caso eccezionale di un normalmente regolare funzionamento del meccanismo capitalistico, ma la sua intrinseca legge: il capitalismo è crisi. Il debito è impossibile da saldare, non perché ontologico o antropologico (Lazzarato si scaglia contro i teorici che cercano di sostanzializzare il fenomeno-debito incarnandolo nei rituali o nella costituzione esistenziale dell’essere umano), ma perché un sistema economico di indebitamento costante è lo strumento con cui il capitalismo si perpetua, appropriandosi non solo del tempo di lavoro dei soggetti, ma anche del loro tempo “libero”, nonché delle loro possibilità future.
Il terzo è che la crisi non è un momento di dissestamento economico a cui la politica sta tentando di far fronte, ma che essa è direttamente un momento della politica. Detto più concisamente: nel capitalismo l’economico è direttamente politico. I governi tecnici sono governi politici. Le manovre economiche (che decidono quanto, a chi, quando, dove e in che misura applicare misure tassative, disoccupazione, erogare o non erogare fondi e dilazioni dei pagamenti, ecc.) sono politiche. Il capitalismo neoliberista – è questo ciò che in sintesi sostiene Lazzarato – è una politica che ha di mira, come tutte le politiche, un determinato ideale di essere umano: un uomo che si sente “colpevole” (nel doppio senso, economico e morale, che ha la parola “Schuld” [debito-colpa] in tedesco), che non dispone del suo tempo, un soggetto-di-consumo (nel senso attivo e passivo dell’espressione), privato di tutti i meccanismi di welfare e degli ammortizzatori sociali che avevano caratterizzato gli stati sociali delle democrazie occidentali a partire dal Secondo Dopoguerra.
Qual è la proposta di Lazzarato, all’interno del quadro a tinte fosche che egli stesso è cosciente di dipingere (cfr. p. 74)? Il rifiuto del lavoro. Una certa qual rivalutazione dell’ozio, a partire da quell’incrociare le braccia che fu il grande strumento di rivendicazione del movimento operaio. È su questa fase construens che l’ottimo lavoro di Lazzarato si conclude, forse, un po’ strozzato. L’autore stesso riconosce le difficoltà di far divenire pratiche, azioni, direzioni concrete queste indicazioni:
«La mia ultima esperienza politica nel Coordinamento degli intermittenti e dei precari dell’Ile de France mi ha insegnato che un processo costruito a partire dal blocco di un’attività richiede tempo, molto tempo affinché la scoperta delle forze soggettive, la loro produzione, organizzazione e ricomposizione sia possibile. Non sono le velocità e le semplificazioni del centralismo democratico né quelle delle reti sociali quotate in borsa che risolveranno questo problema. […] Occorre restare sul rifiuto soggettivo e sul suo potenziale politico, sviscerando tutti i possibili che il rifiuto del lavoro operaio richiudeva nel politico e in un’antropologia, comunque, del lavoro». (pp. 213-214)
Paradossalmente, qui Lazzarato forse senza rendersene conto si trova in un momento di estrema vicinanza con un autore – Giorgio Agamben – che (seppure non violentemente) nel testo egli stesso critica (cfr. pp. 177-178) come “logocentrico”. In particolare ci viene in mente l’Agamben commentatore dello scrivano Bartebly di Melville e della Metafisica di Aristotele (1046a): il “potere di non”, la potentia negativa, il «I would prefer not to» è l’equivalente ontologico del dispositivo politico (ci chiediamo a questo punto se privo però di implicazioni antropologiche, ontologiche e metafisiche) che viene ritrovato da Lazzarato per sfuggire al meccanismo del capitalismo neo-liberale.
Descrivere le modalità di questa potenza negativa, di questo attivo non-fare, è forse il compito filosofico e politico che si deve porre chi, come Lazzarato, ha di mira un modello alternativo a quello socio-antropologico dominante.