Speciale

Spazio, linguaggio e creatività in Africa

24 Febbraio 2017

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L'articolo qui di seguito è scritto da Hanna Shybuna e si ispira alla sua partecipazione alla sesta tappa di AtWork ad Addis Abeba. Il workshop intensivo di 5 giorni, condotto da Simon Njami, si è svolto a dicembre 2016 in partnership con Aida Muluneh e Addis Foto Fest e ha coinvolto 21 giovani fotografi, scrittori, designer, artisti visivi e filmmaker etiopi. Il tema "What is home?" ha evocato sentimenti forti e contrastanti, emozioni, atmosfere... questo il racconto di Hanna. 

 

Hanna Shybuna at work, ph Raffaele Bellezza.

 

Una mattina ho deciso di fare una passeggiata fino all’attrazione principale del mio quartiere ad Addis Abeba: una pasticceria che esiste ormai da 50 anni, nota con il nome di Enrico. Avevo assaggiato le loro millefoglie centinaia di volte, ma non le avevo mai acquistate personalmente. Insieme ad alcuni amici, mi sono unita alla coda di gente che si estendeva lungo la strada. “Quando sono pronti i dolci, lo capisci dal profumo”, disse scherzando un anziano signore dietro di noi. Lo stesso signore mi aveva sentito raccontare in inglese ai miei amici la storia di un gatto. E mi aveva interrotto, dicendo in amarico: “Lei non è una che ama stare in mezzo alla gente, vero?”. Aveva poi approfittato di quel momento di silenzio per dire che i giovani di Addis Abeba che parlavano l’inglese gli sembravano più colti, intelligenti e capaci degli altri. Poi aveva aggiunto: “È una mia impressione? È un’idea che mi è stata inculcata o è un dato di fatto?”. Lo abbiamo rassicurato sul fatto che si trattasse di un’idea infondata. E lui ci ha invitato a considerare che, a prescindere dal luogo di provenienza, ogni individuo ha delle conoscenze e – per quanto l’istruzione formale sia il modo più sicuro per fare qualcosa di utile, e conoscere le lingue sia importante – è solo in un contesto che consente a ciascuno di crescere che si può dare il meglio di sé. Da questo confronto è emersa una considerazione importante: la lingua inglese e le ideologie insite in essa producono una pericolosa aura di elitarismo che sembra proiettare un’ombra pesante. 

 

L’inglese, nella sua aggressiva ubiquità, si è dimostrato una moneta di scambio, un simbolo di potere e talvolta un’arma; un’arma di cui io stessa mi sono dotata in tenera età, spinta dall’insistenza di mio padre nel rimarcare il valore di una formazione in lingua inglese. La scelta dei miei genitori di mandarmi a una scuola privata (dettata, in questo contesto, dal fatto che potevano permetterselo), anziché a una scuola pubblica, mi ha sia arricchita che privata di qualcosa. Ho studiato ciò che studiano gli inglesi, sono stata incoraggiata a dire la mia e a partecipare, a pensare in maniera critica e al di fuori dagli schemi in ogni mia attività. Ho imparato la storia e la lingua dell’Occidente, ma conosco poco la mia. A casa mi sono dedicata allo studio della filosofia, dell’arte, della cultura e dei media stranieri, grazie a strumenti importati dall’estero e a un’assidua frequentazione di Internet.

 

Naod Lemma, Ordinary existence. 

 

A quel tempo non ero in grado di capire ciò a cui stavo rinunciando, aderendo mentalmente alle attrattive esterne, cosa che mi ha portato in seguito ad associare il posto da cui provengo a una condizione di mancanza. Tutto ciò che mi circondava sembrava importato dall’esterno, fuorché le persone che tipicamente incontravo e con le quali sentivo di avere sempre meno in comune. Quando mi sono trasferita a Charlotte, nel North Carolina, per frequentare l’università, la gente non sapeva nulla del mio Paese d’origine. Passavo tutto il tempo a descrivere, spiegare e difendere l’Etiopia/l’Africa (cosa che facevo con gran difficoltà, dal momento che conoscevo bene solo la città di Addis Abeba e ignoravo quasi tutto il resto). Adoperavo il mio accento inglese per descrivere il luogo da cui aveva origine la mia identità. Ma l’unica cosa che gli altri riuscivano a percepire era il mio accento e questo, dal loro punto di vista, sembrava rendere superfluo, non necessario, ogni sforzo di conoscere più a fondo la mia identità.

 

Rientrata in Etiopia, sono stata sopraffatta dal risentimento. Una sensazione a volte paralizzante. Detestavo la combinazione di fattori che mi avevano spinta a perseguire all’esterno obiettivi che avrei dovuto conquistare e apprezzare qui a casa. Non volevo più gli avanzi dell’Occidente. È stato difficile trovare una via di mezzo tra le cose da tenere e quelle da abbandonare per tornare a sentirmi bene a casa mia. Ho capito che volevo continuare a circondarmi di idee e cose creative. L’artigianato etiope, con i suoi motivi alfabetici, le illustrazioni con gli angeli e le croci, non incontrava i miei gusti. Volevo indossare pendenti con immagini di artiste che fossero il corrispettivo africano di Frida Kahlo, avere sottobicchieri con immagini della mia città e ridere guardando i meme in amarico su Internet. Volevo ascoltare i podcast finanziati, prodotti, registrati e diffusi a livello locale, e in maniera professionale, da e per gli africani. Volevo le espressioni contemporanee locali, e non imitazioni prive di valore, e che l’inglese servisse soltanto al fine secondario di trasferire dei contenuti. Mi chiedo da dove arriverà tutto questo o – se è già qui – mi dispiace non riuscire a riscontrarlo diffusamente.

 

Naod Lemma, Ordinary existence. 

 

Il problema della mia percezione ha a che fare con il tentativo di portare in Africa ciò che è già qui. Qualunque siano le influenze concettuali esterne penetrate nella nostra vita individuale e collettiva, la creatività non è inquadrabile all’interno di questo modello. Se l’Africa è la superficie esterna, la creatività è una sconfinata rete di elementi che avanzano lentamente attraverso un immenso tessuto permeabile, rendendo letteralmente possibile la vita. La vita quotidiana è un atto di resilienza che si manifesta attraverso un processo creativo. Quando, in vari ambiti, siamo invitati a confrontarci con spazi e stili stranieri alla ricerca di un’espressione creativa (spazi all’interno dei quali raramente possiamo avere un impatto), andiamo nella direzione sbagliata. L’invito a parlare – sia simbolicamente che letteralmente – la lingua dell’altro dev’essere quindi finalizzato a scambiarci degli esempi. A guardarsi allo specchio e a proiettare al di fuori dell’Africa le forme espressive che le appartengono.

 

Durante il workshop AtWork organizzato da lettera27 e condotto da Simon Njami – sul tema, per l’appunto, “What is Home?” – abbiamo fatto delle cose importanti: abbiamo avuto il supporto di persone che condividono un interesse vero per l’arte e il linguaggio espressivo; abbiamo vissuto un momento di scambio estremamente ricco e produttivo, confrontandoci in maniera costruttiva e parlando liberamente. Abbiamo avuto a disposizione uno spazio privo di segreti e barriere. Uno spazio dove le battute e il sarcasmo in inglese potevano essere futili, ma in amarico funzionavano alla perfezione. Ci è stata data l’opportunità di stare in un bellissimo giardino, senza che nessuno ci disturbasse o controllasse, avendo accanto persone che condividevano il mio stesso sogno. Uno spazio dedicato unicamente all’espressione creativa. Un luogo che ci ha ricordato il dovere fondamentale di dar vita a creazioni che partano dall’interno, aiutando la nostra comunità a fare altrettanto. Riconoscendo le finalità e i limiti della collaborazione, del supporto e dell’influenza reciproca. E tenendo bene in mente che gli africani devono in imparare dalle altre culture, ma lavorare per arricchire la propria e mostrare tutto ciò che abbiamo da offrire. Per noi stessi.

 

Traduzione di Laura Giacalone. Fotografie: Naod Lemma.

 

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