Starnone e il mare

10 Aprile 2024

Cosa accade a un vecchio signore solo, ma non solitario, in una casa di mare a fine stagione? A un tipo al quale ormai anche il piacere di vivere zoppica un po’? Di tutto, e niente, nel racconto lungo di Domenico Starnone, cronaca interna di una vicenda comune, e al contempo fuori dall’ordinario, di una persona comune. Il contrario rispetto a quanto accade al vecchio Santiago di Hemingway che nel mare trova la propria epica: qui, semmai, nel titolo – Il vecchio al mare (Einaudi, 2024) – affiora una nota ironica.
Non ci stupiremmo se un vecchio di ottantadue anni fantasticasse di avventure con una giovane: da tempo abbiamo letto le lettere innamorate di Ungaretti alla Bruna, di cinquantadue anni più giovane. Qui non si tratta di questo, ma del subitaneo manifestarsi al protagonista, ormai avanti negli anni, di un’assenza che, al mattino di un ottobre caldissimo, vede per la prima volta balenare tra i gradini di legno e la spiaggia: una figurina dai contorni d’oro, una presenza sfuggente che il vecchio sa esattamente cos’è, ma non riesce a dire, a descrivere. Ed è in quest’area del so e non so che si muove tutto il racconto.
Il vecchio è uno scrittore, ma già al primo casuale incontro in spiaggia con una giovanile sessantenne, mattiniera come lui, sceglie di essere quello che ad Evelina, la disinvolta sconosciuta, pare evidente: un alto magistrato. In pensione, aggiunge lui, e da dodici anni, dichiarando così un’età che l’interlocutrice, molto ammirata, giudica impossibile. D’altra parte, anche se ogni mattina si siede in riva al mare con quaderno e matite, il vecchio pare ormai aver smarrito la soddisfazione nel suo mestiere (“Ho scritto e recitato cose per ridere, ma da molto tempo non mi diverto più”, p. 39). Da quel momento, nel corso del racconto, sarà per tutti un consigliere di corte d’appello ritiratosi per qualche motivo misterioso agli inizi dell’autunno in una villetta sulle dune, sulla bassa costa laziale, un punto da cui si può scorgere Ponza, come Sabaudia.
L’attenzione di Nico viene stimolata anche da un’ulteriore presenza femminile, una ventenne dall’aria atletica, scurita dalla stagione non ancora finita, padrona di un kayak rosso col quale padroneggia le onde. Una bellezza che a Nico fa venire in mente sua madre Rosa, morta sessant’anni prima, amatissima e desiderata. Forse per questo gli capiterà di seguire la giovane in paese e poi in un negozio d’abbigliamento – che scoprirà essere di Evelina – dove la ragazza, che scopre chiamarsi Lu, fa la commessa: ha una sessantina d’anni di meno, ma Nico è curioso “di cosa potrebbe riuscirgli di far succedere”. E infatti entra nel negozio, mostra interesse per un paio d’abiti, ne sceglie uno verde a fiorellini gialli che chiede la cortesia alla giovane d’indossare per prova, senza ottenerlo. Lo acquista lo stesso, e se ne esce, lasciando il pacchetto alla giovane commessa: “per il suo disturbo”.
Ma né Evelina e le sue amiche conosciute nei giorni che seguono – che dall’interesse mostrato da Nico nei loro confronti deducono sbrigativamente “a questo signore piacciono ancora le donne” –, né la giovane prorompente Lu, scalzano dalla mente del vecchio l’accavallarsi dei ricordi di quella madre morta troppo presto, continuamente reinventata da una fantasia capace di scavare nella memoria, tanto da diventare la presenza più costante nei pensieri del suo tempo ultimo, più delle due ex mogli, dei figli e dei nipoti. Sua madre era sarta, capace di cucire, per sé prima che per le clienti, abiti bellissimi di ogni tipo e di ogni tessuto, tra i quali Nico aveva trascorso l’infanzia: motivo per cui è attratto da Evelina e Lu, anch’esse alle prese con stoffe e modelli. Proprio come Rosa, così sfuggente ai ricordi, e al tentativo del figlio ormai vecchio di “irraggiarla e confonderla” nel giovane organismo vivo di Lu che pure in nulla somiglia alla madre, zona segreta di sé ma forse, per tentativi, dicibile.

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Nico sente che il rischio è cominciare con il ricordo di Rosa per poi volere “sempre più Rosa, troppa Rosa”, perdendosi quel poco di vero e scivolando, con la scrittura, nel falso. Lu, allora, diviene un’esca preziosa per la memoria, al punto da richiamargli i versi malinconici e veri di Giorgio Caproni: “tu sai cosa darei | se la incontrassi per strada”. Rosa, la donna dagli occhi accesi che aveva intriso la sua infanzia, colei che gli piaceva “più di ogni altro essere vivente mai comparso in questo mondo”, ora saltava fuori “aggrappata al corpo vivo di Lu” (p. 57), anche se con la ragazza la quarantenne morente che Nico fantastica non ha nulla a che fare: “ho sbagliato tempo – scrivo –, ho sbagliato madre, ho sbagliato Rosa, ho sbagliato ombra”.
Ma, e questa è forse una chiave per vivere gli anni residui senza che l’angoscia ci sopraffaccia, Nico accetta l’inesorabile trascorrere del tempo, dimostrandosi aperto a ogni incontro la nuova vita marina gli proponga, con una scanzonata disponibilità alla novità e al domani, qualsiasi cosa questo gli riservi, di modo che la vecchiaia cessi di essere soltanto “un balcone sull’insignificanza”. Non prendendosi mai del tutto sul serio, ma senza arrivare al punto da rifiutarsi da solo prima che gli altri lo rifiutino. Acquisterà perfino un kayak per farsi insegnare da Lu – a 82 anni – a pagaiare dalla spiaggia al pontile, e per accompagnare in mare Lu e suo figlio bambino; prenderà in prestito un improbabile metal detector, quando gli basta frugare con il piede nella sabbia perché escan fuori carte da 100 euro; infine, si presterà quando Evelina, una sera, confidando le proprie tristezze, gli chiederà: “Vorrei essere baciata”.

Anche allora, di fronte al desiderio della nuova amica, Nico all’inizio si schermirà: “Sono vecchio, Evelina. Se alzo un braccio mi fa male un ginocchio, se mi giro su un fianco mi viene un crampo alla caviglia…”, prima di baciarla a lungo, ritrovando nella sua bocca la memoria di altri baci. Parchi, tutto sommato, nell’arco della vita ormai lunga; per scelta, per essersi via via imposto di evitare di “puntare in alto senza rassegnarsi però mai del tutto al basso. […] Tutte le volte, per esempio, che mi sono innamorato, ho raffreddato scientemente la smania e la passione” (p. 94), intiepidendosi ad arte. Resta un lampo il ricordo dell’amore dai tratti infantili, fatto di pura gioia: da gustare per poco, sembrandogli la felicità, se prolungata troppo, uno sciupìo.
Peccato: si direbbe che per il vecchio Nico la vita, più che una galleria di felicità intraviste, sia stata una collezione di preventive rinunce.
Ma a suo avviso esiste ancora un modo, sopra ogni altro, per attraversare con dignità e una qualche soddisfazione l’ultima fase della vita e anche per dare uno straccio di significato alle precedenti: saper scrivere, “trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera” (p. 86). È questo il prodigio della scrittura: poter riordinare il mondo di modo che il vissuto assuma forma e senso. Solo che Nico sente di aver smarrito da tempo quel filo di parole che, da giovane, gli veniva facile, fino a scoprire, ormai col fiato corto, che per quanto si affatichi non sarebbe stato che “epigono di epigoni”. E tuttavia, ogni mattina, eccolo aprire sul bagnasciuga la seggiola, apparecchiandosi per una nuova mattinata di svogliate annotazioni e cancellature, scrivendo di gigli selvatici, donne, alici agonizzanti nella risacca sottoriva, “della morte che pare argento” (p. 41), ripassandosi per sommi capi la vita.

Immagine di anziano sulla spiaggia
Sì, certo, scrivere forse ci illude che le cose abbiano un senso, che le si possa mettere in forma. Ma le occasioni decisive per accorgersi che si è ancora vivi sono gli incontri, anche se si è vecchi e magari pure malati, come infine scopre Nico. Lu, con il suo bimbo Ninì, il suo kayak rosso, il corpo prestato al ricordo della madre; è lei al dunque il vero portento che lo tiene vivo, Lu, “una commistione di polietilenekevlarcarnevecchiacarnegiovanefigliofigliamadremarevitamorte”: tutto il senso compendiato in una sola persona, la giovane commessa per nulla sprovveduta, titolata quindi a porre nel finale a Nico la domanda esiziale: “Quando si finisce di desiderare?”
Domanda non promossa dalla curiosità nei confronti di quel vecchio così attivo e misterioso, ma dal peso che lei, solo ventiquattrenne, già avverte nel proprio desiderare. “Ci vuole tempo, e non per non avere più desideri ma solo per sentirne meno la forza”, le risponde lo scrittore.
Non si finisce mai di desiderare. L’inconscio, e il sogno, continuano a proporci situazioni aperte, figurette dorate che svicolano via trascinandosi ricordi e le nostre intimità più segnate e segrete che non smettiamo mai di rincorrere e interpretare. Forse la vecchiaia diminuisce l’intensità della soddisfazione, ma non attenua la forza del desiderio. E se avesse ragione Ezra Pound, quando scriveva a Madame Lullin: “You’ll wonder that an old man of eighty | Can go on writing you verses …”? Con la decisiva aggiunta in traduzione di Vittorio Sereni: “Stupirete che un vecchio di ottant’anni | Séguiti a scrivere versi d’amore...”.

 

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