Sull’orlo dello schermo
Che cosa accomuna l’atto di assistere a uno spettacolo di Fantasmagoria (nell’Ottocento), la visione di un film al cinema (dal Novecento) e la partecipazione a una videoconferenza su Zoom (nel Duemila)? Niente, ma tutto. Cambia ovviamente la materialità degli apparati che supportano tali esperienze, la composizione della chimica che le sostanzia, le geometrie degli spazi che le ospitano, la tipologia e la consistenza degli schermi che le rendono possibili. Ma restano costanti le pulsioni più profonde che le hanno generate e le motivazioni psicologiche che le hanno elevate a paradigmi del loro rispettivo tempo. La presenza di uno schermo in uno spazio chiuso produce sempre una situazione paradossale: essere altrove, restando lì; essere un altro, restando sé stessi; essere vicino, restando a distanza; sentire intensamente, senza rischiare di rimanere invischiati... Insomma, una proiezione (etimologicamente: gettarsi in avanti) verso mondi ed esperienze alle quali nella vita reale non avremmo accesso, costitutivamente legata a una protezione (coprire ponendosi davanti) che garantisce la nostra incolumità nonostante l’azzardo di mettersi in pericolo ed esporsi a stimoli ed emozioni eccessivi.
In fondo è la duplice funzione di ogni schermo, e anche in questo caso la polisemia del termine aiuta a inquadrare la questione: in un senso, una finestra luminosa che, oltre a mostrare delle immagini proiettandole su una superficie visibile, “proietta” l’osservatore in quella luce; ma nell’altro anche un dispositivo che ci scherma dagli effetti potenzialmente dirompenti di un’esposizione diretta. Un po’ come per gli scienziati del progetto Manhattan di cui racconta Oppenheimer di Nolan, spettatori della deflagrazione a debita distanza e protetti da occhiali o dal vetro di un’automobile, quasi come in un drive-in. I media sono al contempo giostre vertiginose e filtri regolatori, radiazioni nucleari e rifugi sicuri. Nel suo Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione (edito in versione italiana da Bompiani), Francesco Casetti, docente alla Yale University e uno dei più lucidi interpreti del ruolo dei media nella società contemporanea, mette a sistema due facce di un medesimo “complesso”, dimostrandone l’inestricabile interdipendenza.
Nella Fantasmagoria, uno spettacolo di lanterne magiche in cui scheletri, fantasmi, demoni erano retroproiettati su schermi semi-trasparenti, sui muri o sul fumo, lo spavento serviva a esorcizzare la paura e aveva effetti tranquillizzanti. Equipaggiate di una serie di comfort multisensoriali (non solo immagini e suoni, ma anche poltrone comode, ambienti salubri e controllati, aria condizionata, ecc.), le sale cinematografiche garantiscono uno spazio in cui godere del pericolo rappresentato nei film senza alcun rischio reale. Le bolle digitali, che la pandemia da COVID-19 ha imposto come unico modo per garantire la sopravvivenza relazionale della specie umana, riplasmano la prossemica creando zone di intimità personale mantenendoci isolati ermeticamente dai virus e consentendoci di interagire senza esporci al contagio. Tre dispositivi molto diversi tra loro ma caratterizzati da una costante essenziale: la riposta al desiderio di protendersi al di là dei limiti umani pur restando al sicuro dalle insidie di quell’azzardo. Come scrive l’autore: «la stessa struttura di base – un luogo delimitato e uno schermo – risponde alle pressioni del suo tempo grazie a un insieme avanzato di strumenti tecnologici che modificano il modo in cui ci confrontiamo col mondo. Il risultato è il progressivo emergere di una tecno-sensibilità che consente agli individui di gestire una realtà sempre più complessa» (pp. 193-4). Nonostante la loro distanza temporale e le loro caratteristiche specifiche, i tre media funzionano con la medesima logica: rendere tollerabile attraverso una “immediatezza mediata” le ansie e le paure della condizione moderna.
Casetti sembra individuare nel complesso proiezione/protezione una soluzione all’opposizione tra Eros e Thanatos, tra gli istinti vitali e libidinosi che le immagini in movimento hanno liberato e l’autodistruttiva pulsione di morte che esse impietosamente e impetuosamente riflettono. Al di là del principio di piacere di Freud è citato direttamente quando l’autore accenna allo “scudo protettivo” che l’organismo crea per rendere gli strati profondi impenetrabili ai colpi provenienti dall’esterno. Forse implicitamente, Casetti arroga ai media schermici non tanto una funzione mediatica, quanto piuttosto una natura medianica. Capitolo dopo capitolo emerge progressivamente come, nel vorticoso avvicendarsi delle tecnologie negli ultimi due secoli e mezzo, la modernità abbia piegato i media visuali al proprio bisogno più recondito: sconfiggere la paura della morte con la potenza vitale delle immagini. Gli schermi non sono solo soglie tra il mondo reale e un mondo immaginario, ma portali tra il regno dei vivi (che possono morire) e il regno dei morti (riportati alla vita). E dunque specchi nel nostro futuro.
Questo nuovo lavoro di Casetti raccoglie e rilancia l’eredità dei precedenti. Non più solo la permanenza di un’essenza cinematotipica a fronte della variabilità della forma delle immagini in movimento, degli schermi che le veicolano e delle pratiche sociali che le caratterizzano (La Galassia Lumière, 2015); e non più solo la negoziazione tra monotonie ed eccessi della vita moderna operata del cinema quale medium principe del XX secolo (L’occhio del Novecento, 2005). Ora è più chiaro come i media siano una sorta di “esoscheletro” che integra i supporti interni dell’individuo e della società e ne estende il raggio d’azione. Ma anche come ciò sia possibile esclusivamente come nell’inoculazione di un vaccino: cioè l’assunzione di una forma meno intensa e tollerabile della malattia che ci renda immuni agli inevitabili pericoli del mondo.
Ma la lezione di questo volume si connette alle precedenti e le innova anche per altre e più ampie ragioni. Anzitutto perché adotta una prospettiva archeologica. Anzitutto nei confronti dei dispositivi, di cui analizza le caratteristiche tecnologiche e il modo in cui erano percepiti e fruiti al tempo della loro affermazione, attraverso il reperimento e l’attenta lettura di un vasto corpus di documenti coevi. Ma anche rispetto ai discorsi – critici e teorici – che hanno contribuito a conformare il perimetro e il potenziale epistemologico della riflessione sui media visuali. Ecco allora che Schermare le paure crea un solco in cui possono inserirsi perfettamente anche ragionamenti su altri media schermici (e post-schermici) contemporanei, come per esempio la realtà virtuale, la cui matrice è chiaramente da ricostruire attraverso un’archeologia della logica immersiva.
In secondo luogo, perché dimostra una sensibilità ecologica e ne conclama l’imprescindibilità per l’analisi dell’evoluzione e delle funzioni dei media schermici, insistendo sistematicamente non tanto sui loro aspetti estetici, quanto sul loro funzionamento e sul loro ruolo in un più vasto e complesso contesto. Gli autori convocati per sostenere l’argomentazione sono molti e rappresentano approcci tra loro apparentemente estranei, ma tutti partecipano a un assemblage concettuale in cui la filosofia (Simondon: tecno-estetica, Foucault: disciplina, De Certeau: quotidiano) si unisce a una biologia non completamente metaforica (Benjamin: innervazione; von Uexküll: Umwelt; Gallese: simulazione incarnata) per leggere l’impatto delle tecnologie di mediazione e descrivere le affordance sociali.
In terzo luogo, perché evidenzia un’attitudine strategica nel descrivere i media come un campo di battaglia sul quale devono essere adottate alcune tattiche, senza pretendere di vincere la guerra: «Assemblando componenti che trafiggono e componenti che riparano, il complesso [proiezione/protezione] trasforma l’esposizione alle minacce nella possibilità di resistere a esse. Lo sguardo, come una spada in un duello, passa da arma di attacco ad arma di difesa. Gli spettatori vedono e imparano a resistere; e riacquistano potere contro gli shock che li mettono a dura prova» (p. 85).
Con questo triplice guadagno, Schermare le paure illumina il lettore sulla centralità e sulla rilevanza dei media visuali nella società contemporanea: sono oracoli del passato, perché disvelano retroattivamente i desideri che hanno determinato la loro insorgenza; sono mappe cangianti, perché ci orientano nel tumulto del mondo permettendoci di sopravvivere in un ambiente ostile e perfino di plasmarlo; sono amuleti razionali che ci proteggono dal male dandoci il coraggio di affrontarlo.