Venice Immersive, l’isola che non c’è

6 Ottobre 2022

C’è un’isola di un’isola di un’isola dove un branco di meduse luminose ti cattura e immerge in altri mondi di percezioni e pensieri. Gli oculi singolari e avvolgenti della realtà virtuale a Venezia sono tende circolari sospese nei tesoni del Lazzeretto Vecchio, a pochi metri d’acqua dai grandi schermi dei concorsi canonici della Mostra d’arte cinematografica. Ci si arriva dalla Riva di Corinto del Lido con un barcone che fa la spola tuttodì, unendo e dispartendo quei mondi da una lingua di terra comunque non ferma. In ognuna di quelle tende semilucenti c’è un visore, e dentro ogni visore un ambiente artificiale persino più vivido di quelli del Cinema, tanto ti circonda sfericamente ed è popolato da personaggi plastici, come sculture d’immagine in un paesaggio illimitato in cui anche tu – in soggettiva o interagendo con le mani o anche solo osservando dall’interno – ti senti più presente

“Venice Immersive”, la sezione extended reality della Mostra, comprendeva quest’anno oltre quaranta opere tra video a 360°, esperienze stand-alone, istallazioni e mondi virtuali. Fra le trenta in concorso non ha vinto un videogame immersivo in cui si salta e si spara agli zombie o si è alla ricerca di un introvabile easter egg, ma un video a 360° da fruire seduti, un documentario sui generis non interattivo, incentrato su un tema pesante e politico (e sempre attuale) come la prigionia, la tortura, la dittatura – il Terrore Bianco a Taiwan negli anni Cinquanta. Finanziato dal National Human Rights Museum, The Man Who Couldn’t Leave di Chen Singing mette magistralmente in scena una VR teatrale che dimostra come anche il nuovo medium sia in grado di visitare la storia e tematizzare la memoria con efficacia emotiva.

Anche il gran premio della giuria a From the Main Square di Pedro Harres attesta la vocazione politica della VR, se dalla piazza principale si può assistere all’incontro e allo scontro tra culture diverse, fino alla distruzione sociale e ambientale. Ma più che guardare, il fruitore qui è chiamato letteralmente a montare la successione delle sequenze, scegliendo dove rivolgersi e quali situazioni attivare, partecipando interattivamente allo storytelling. Anche il premio speciale della giuria, conferito al gioco in mixed reality Eggscape di German Heller, segnala che persino il ludico può essere utilizzato come strumento critico, se si tratta di sfuggire da una minaccia e combattere contro le avversità della vita, anche se nei panni di un semplice fragile uovo. 

Al di fuori della terna delle opere premiate, Fight Back di Céline Tricart (che a Venezia aveva vinto nel 2019 con The Key) insiste sullo stesso concetto e in forma di gioco VR, con tutt’altra eleganza estetica e una valenza profondamente politica, com’è tipico dei suoi lavori. Qui si combattono ombre inquietanti e violente che ti assalgono, performando mosse di autodifesa da apprendere durante l’esperienza stessa (che sfrutta appieno le potenzialità dell’hand tracking implementate nel dispositivo). Non è solo training, ma anche presa di coscienza e conoscenza storica, quando alla fine si scopre che i personaggi che ti hanno guidato contro le ombre sono donne che, in epoche diverse, hanno lottato per l’emancipazione e la conquista di diritti negati.

Non mancano le riflessioni sull’estinzione della specie umana a causa della guerra e della catastrofe naturale (All Unsaved Progress Will be Lost, On the Morning you Wake [at the End of the World]), il genocidio (Tu vivras, mon fils, Sorella’s Story), le difficoltà della disabilità (Thank you for sharing your world) e della genitorialità (Rock paper scissors, Kindred), il lutto (Chroma 11), la paura e la crescita (Nyssa, Red tail), la depressione (Darkening) e l’isolamento sociale (Typeman), ma anche giochi di scala (Acenders) e di vertigine (Eurydice), la contemplazione e lo stupore (Namuanki), la moda (Dazzle: A Re-Assembly of Bodies, (R)encontres).

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Spendo una parola in più per solo per l’installazione Elele, in cui si possono far danzare le proprie mani per comporre coreografie psichedeliche e alla fine, quando ci si toglie il visore e una tenda nera viene rimossa, si scopre di aver interagito non con un computer, ma con un’altra persona reale. Guardi negli occhi questo sconosciuto e ti senti nudo, lo saluti con un sorriso imbarazzato e tocchi con mano la potenza della realtà, della fisicità, della relazione umana e della presenza bel al di sopra di quella suscitata da un avatar digitale.

Non riesco a citare altre opere, non c’è spazio, né è poi così necessario (e altri le hanno acutamente recensite a caldo). Sfrutto piuttosto l’occasione per una riflessione più ampia sullo stato attuale della realtà virtuale come territorio di estensione del cinema – ma anche, come si è visto, del teatro, della musica, del videogame). Se nel più antico dei festival cinematografici regge ancora l’idea di affiancare la VR (e le tecnologie immersive sue sorelle) ai film tradizionali, è perché la bolla non è esplosa e forse nei mondi che questi kinetoscopi portatili spalancano di fronte agli occhi c’è un pezzo del futuro – parallelo, non alternativo – del cinema, una sua evoluzione multimediale e multimodale, un pozzo di brulicante creatività e innovazione stilistica, come per ogni medium nella sua aurora.

La VR riformula i confini e i processi del visibile, divaricando il campo visivo, invitando il fruitore a esplorarlo e persino a muoversi dentro di esso. Queste immagini-ambienti interamente abitabili, senza cornice, senza inquadrature, negano la propria stessa natura di immagini – sono aniconiche. L’attenzione dell’osservatore, così direzionata, controllata, prevedibile di fronte a uno schermo quadrangolare, cerca altre forme di richiamo e aggancio: nel movimento del personaggio, nella sorgente sonora, nelle didascalie di testo. In ogni istante è in atto un continuo ricentramento dello sguardo, perché è proprio il fatto che al fruitore è dato di vedere e toccare il mondo in prima persona che sospende i principi di organizzazione esogena e immodificabile tipici del cinema.

Anche senza alcuna interazione esplicita siamo costretti a mobilitare le nostre risorse cognitive per individuare le zone di salienza, magari alle nostre spalle, alla ricerca del punto in cui le cose accadono (o semplicemente esistono), per interpretare e dare un senso a ciò che accade. Ma quest’anno a Venezia mi è parso che la VR si sia accorta del potenziale che deriva da questo “difetto di fabbrica”, e che talvolta decida di lasciare al fruitore la libertà di distrarsi. A volte è l’immagine a sfuggire e nascondersi e per invitarci sornionamente a cercarla.

La VR riscrive le forme della narrazione, moltiplicando e ramificando le linee evolutive delle vicende che racconta, concedendo al fruitore il montaggio dell’opera: una storia è un’opzione in un campo di possibilità. Mutuando dal gioco più che dal cinema questa illusione di apertura testuale, essa accorda al fruitore il brivido (reale) dell’autorialità (illusoria). Ma il cerchio si chiude sempre, quando ti accorgi che puoi anche scegliere quale strada percorrere, ma tutte le strade portano alla Morale della favola, all’impatto sociale, al messaggio politico, a un’ideologia da inculcare o alla contemplazione del nulla: la VR salverà il mondo. Il Metaverso è tanto grande e si può persino contribuire a costruirlo, ma poi non ci si perde mai davvero. Quando anche la VR entrerà nella sua modernità, verremo abbandonati nel deserto. Avvisatemi quel giorno e tornerò a indossare un visore.

La VR riplasma il rapporto tra corpo e tecnologia, nel tentativo impossibile di renderla trasparente e inavvertita, di cancellarne la presenza e il peso, di incorporarla nei nostri occhi, testa, cuore, pancia. Come una camera obscura a diretto contatto con le orbite, per spalancare i mondi più vasti i visori ci isolano dall’esterno, ci abbozzolano in una solitudine percettiva. Un giorno magari queste protesi diventeranno impianti endocorporei e basterà uno stimolo nervoso a espandere la nostra percezione delle immagini. Ma nel frattempo la nostra mente ha già cominciato a incorporare le funzioni della tecnologia, estendendosi nell’ambiente circostante per acquisire le risorse necessarie a sopravvivere, decifrare i desideri degli altri, acquisire potere.

Se si percorrono i corridoi del Lazzaretto Vecchio, osservati dall’esterno gli utenti impegnati nelle diverse postazioni VR appaiono individui lobomotizzati, incapsulati e ridotti a uno stato primordiale da una protuberanza di plastica che gli attanaglia la testa, mentre cercano di compiere i propri primi goffi passi su un pianeta sconosciuto. Ma dall’interno del Metaverso le nostre facoltà visive, cognitive, emotive, riflessive ci sembrano potenziate e la nostra mente incarnata dotata di un’efficacia trasformativa impensabile nel mondo reale. 

La VR riconfigura l’estetica, ovvero la nostra relazione affettiva con le opere d’arte, creando spazialità e temporalità che prescindono dalle leggi della fisica per obbedire piuttosto a quelle dell’emozione spasmodica, del sussulto, dell’azione, dell’intensità, della vertigine, della pulsione di morte, ma senza ucciderci. Eppure non rinunciano alla meraviglia e alla contemplazione di un sublime artificiale che è venuto il tempo di studiare meglio anche nel campo della storia dell’arte.

La VR rimodula il senso della società, consegnando ai miti dell’immediatezza e dell’empatia le forme della socialità umana, della comprensione reciproca, della pena per le disgrazie altrui, della miseria della storia e degli obbrobri del presente. È solo un’altra delle sue illusioni: un contatto a distanza che, sfumando i confini tra identità e alterità e regalandoci l’impressione di vivere in prima persona le difficoltà dell’altro o di sensibilizzarci alla catastrofe naturale, riduce il nostro senso di colpa. Ma poi incide davvero sulla nostra etica?

Potrei continuare, ma basta così. La VR non è più – non lo è mai stata – un medium triviale. Anzi il Metaverso è proprio il luogo tra i non-luoghi contemporanei in cui meglio emergono alcune tensioni emblematiche del tempo che viviamo: tra realtà e finzione, tra figurazione e astrazione, tra passività e interattività, tra azione e contemplazione, tra ludico e critico, tra individualità e condivisione… Consiglio, una volta, di fare un giro su quest’isola che non c’è. 

Consigli di lettura

Andrea Pinotti, Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale, Einaudi, Torino 2021.

Ruggero Eugeni, Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno), Scholé, Brescia 2021.

Elisabetta Modena, Nelle storie. Arte, cinema e media immersivi, Carocci, Roma 2022.

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