Quattro cose immersive che non farò mai più (tranne una)

18 Novembre 2023

1. Image MAXimum.
Spendo 27 sterline inglesi + prevendita per un posto decente ma di lunedì mattina al BFI IMAX di Londra per vedere questo filmino proiettato molto in grande in cui i personaggi non stanno zitti un momento. Ho amato Dunkirk perché non sembrava un film di Woody Allen solo meno sagace, senza clarinetto e titoli in Windsor ma con gigantesche facce parlanti. Sono stato educato, evidentemente in modo troppo reazionario, soprattutto a vedere i film, e a valutarli anche per la loro capacità di prescindere dalla parola e privilegiare l’azione, il gesto, la capacità espressiva dei volti e dei corpi, la potenza delle immagini, il coraggio del movimento, l’arditezza del montaggio come mezzi per comunicare il senso del dramma, la permanenza esistenziale di una storia, la spettacolarità della vita emanata da uno schermo. Un film come questo ti fa venir voglia di tornare a rivendicare certi discorsi conservatori radicali e apparentemente superati sulla specificità visiva del cinema: «È colpa del cinema sonoro se in avvenire sarà molto difficile rappresentare il linguaggio senza parlare», profetizzava Rudolf Arnheim un secolo fa (Il film come arte, il Saggiatore, Milano 1960 [1932])). «Se infatti si sente uno parlare, i suoi gesti e l’espressione del suo volto si riducono a un accompagnamento che sottolinea il senso di quel che dice. Se invece quello che dice non si sente, il significato diviene solo indirettamente chiaro ed è interpretato artisticamente dai muscoli del volto, dalle membra, dal corpo. [...] L’assenza della parola induce lo spettatore a concentrar meglio la propria attenzione sull’aspetto visibile del comportamento, e l’intero avvenimento acquista così un interesse particolare». Per questo ho l’abitudine di chiedermi sempre: capirei lo stesso questo film senza i dialoghi e i monologhi?

IMAX

Per Oppenheimer si trattava di verificare se l’estetica in 70mm, che è parte della reputazione di Nolan ed è stata ostentata nel battage pubblicitario (va visto in IMAX), producesse davvero un’esperienza immersiva. Ma pur visto nel più grande e immersivo IMAX d’Europa, non mi è parso un film grande, ma solo grosso. Il valore specificamente cinematografico di quest’opera sta tutto nei lunghi secondi di silenzio che il rombo dell’esplosione del progetto Manhattan impiega per raggiungere gli occhi degli scienziati che l’hanno realizzato e che si dispongono, come veri spettatori, alla dovuta distanza e con improbabili protezioni, a godersi le radiazioni dell’immagine. Quel silenzio visivo è certamente cinema, il resto è un romanzo che parla ad alta voce.

2. Frameless.

Per confutare questa ipotesi (l’immersività non funziona perché l’opera parla troppo) vado in un posto dove la proposta di immersione totale dei sensi e nel senso è prodotta da immagini che per loro natura non parlano. Qualche piano sotto Marble Arch, nella pancia della città, ci sono quattro enormi sale vuote dove alcuni dei quadri più famosi della storia dell’arte sono proiettati in formato gigante e animato (sic!) sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento, secondo un modello di realtà virtuale detto CAVE (Cave Automatic Virtual Environment). La distanza è azzerata, le proporzioni rinnegate: l’osservatore abita l’opera, la percorre, la calpesta, calato in un brodo audiovisivo che lo discioglie nell’immagine. Nella sala “Oltre la realtà” L’urlo di Munch, L’albero della vita di Klimt, Il sogno di Rousseau, La persistenza della memoria di Dalì e altre opere pop della pittura novecentesca prendono letteralmente vita attraverso rudimentali transizioni: i rami si attorcigliano, gli animali esplorano il bosco, i pesci fluttuano, gli orologi roteano. Rumori didascalici accompagnano le animazioni, mentre una musica avvolgente e assordante crea ambienti sonori potenti ma altrettanto elementari. Non so se è l’imbarazzo per queste deturpazioni, per le arbitrarie associazioni, per l’introduzione forzata di una narrazione cinematica che rompono l’immobile eternità della pittura o se è per un rigetto più fisiologico e naturale che comincio a sudare freddo, mi manca il fiato, ho le vertigini, mi devo sdraiare un momento (e mi ritrovo sul naso di un Arcimboldo). Mi trascino nella seconda sala, intitolata “Colore in movimento”, dove i colpi di pennello dell’autoritratto di Van Gogh si scompongono in petali multicolore e si posano in cumuli sul pavimento. I petali si spostano frusciando al mio passaggio, mentre fasci di luce colorata mi investono. La ridicolizzazione ludica e interattiva dell’elemento cromatico e la sua movimentazione e sonorizzazione producono – con buona pace di Seurat, Monet, Signac e altri scompositori del colore – una decomposizione dell’opera. Prima che anche La notte stellata si putrefaccia, mi sposto nel “Mondo attorno a noi”, una sala grande quasi il doppio delle altre in cui mi affaccio sul mare di nebbia assieme al Viandante di Friedrich o sul mare della Galilea in tempesta di Rembrandt, mi ritrovo nella piazza San Marco del Canaletto o ai piedi del Vesuvio in eruzione secondo Wright of Derby e in mezzo altri magnificenti e dirompenti spettacoli della Natura e della Cultura umane.

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Ph Benjamin Davies

La stereoscopia e il movimento di alcune aree delle immagini aumentano l’impressione di coinvolgimento, e i rumori violenti e improvvisi delle ambientazioni sonore fanno letteralmente vibrare le viscere, tanto che in effetti la contemplazione impotente del sublime diviene totale immersione. Contemplo la rovina altrui in una posizione di sicurezza (Lucrezio), di fronte al mare (e al male) che inghiotte, per continuare a vivere sereni (Epicureo), come sottolineava Blumenberg nella sua riflessione sul naufragio come metafora dell’esistenza (Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, il Mulino, Bologna 1985 [1979]). Mi pare però che oggi, con il supporto della tecnologia, abbiamo accesso (a pagamento) a naufragi surrogati che ci consentono di esperire esteticamente, per immersione ed empatia, tanto la bellezza del mondo quanto la sua concomitante e brutale bruttezza: il naufragio è una condizione che ricerchiamo volontariamente proprio per provare a comprendere l’incomprensibile non più a distanza di sicurezza ma a contatto di sicurezza, immersi nel mare in tempesta per provare il brivido del rischio senza pagarne alcuna reale conseguenza e continuare a vivere spensierati. Una metafora sempre meno figura e sempre più retorica. Mi faccio passare il magone con due salti nella quarta sala, dedicata all’“Arte dell’astrazione”, in cui gli elementi geometrici di Malevich, Kandinskij, Mondrian, Klee, Delaunay, proiettati su schermi di tessuto semitrasparente posti in verticale ovunque nello spazio, danzano al ritmo di musica jazz e blues. Lo spirituale nell’arte di Kandinskij (SE, Milano 1989 [1910] in pratica. Peccato che la molecolarizzazione delle opere e, di nuovo, la loro messa in moto e in musica, rendendoli letterali, annullino totalmente il loro movimento implicito, la loro narratività, la loro potenziale sinestesia. Riemergo in superficie con poche certezze: i quadri non si guardano più con circospezione nei musei, si attraversano abitando temporaneamente delle opere-ambiente in cui l’originale è solo l’input di un’esperienza in cui il quadro si è vaporizzato digitalmente. Hanno chiamato Frameless questa mostra-monstre, ma a mancare non è la cornice: i margini del quadro sono infranti, l’opera è ovunque, ma di fatto non c’è.

twist

3 Twist

Audiovisivamente gonfio, fluttuo fin dalle parti di Piccadilly Circus per visitare il museo delle illusioni e fugare il dubbio che per imparare qualcosa dell’arte moderna e contemporanea si debbano per forza chiudere i libri e abbandonare i musei tradizionali per frequentare invece questi nuovi spazi di immersione radicale nelle opere in cui la conoscenza e il piacere si possano direttamente ap-prendere senza fastidiose mediazioni intellettuali. Qui imparo di nuovo che per la fisiologia umana i colori sono un’illusione della luce, che i sensi si lasciano ingannare da qualsiasi stimolo, che cose immobili nella realtà si muovono sulla retina, che tutto è una questione di prospettiva. Capire che la percezione non è semplice recezione di stimoli ma potenziale creazione di idee può essere più divertente se il “museo” offre un’esperienza didattica ludica e interattiva: «Enter a playground for your perceptions», scrivono sul sito web; «Explore the joy and wonder of illusion», postano su Instagram. La sperimentazione diretta dell’illusione attraverso il coinvolgimento del corpo del visitatore e la variabilità della sua collocazione spaziale è più efficace di qualsiasi spiegazione o riflessione sulle implicazioni filosofiche dello scollamento tra realtà e percezione. La torsione (twist) a cui il museo tributa il proprio nome è anzitutto concettuale.

4. Tranne una.

Mi arrendo: non è più possibile opporsi davvero alla moda del museo-esperienza, della mostra-esperienza, del film-esperienza: l’interazione psicologica è diventata interattività giocosa, la tecnologia è un mezzo di spettacolarizzazione dell’arte, l’apprezzamento estetico esige un’immersione radicale nell’opera – liquefatta in molecole binarie. Non bisogna scandalizzarsi troppo: che l’impressione di realtà offerta dalle arti figurative (e poi soprattutto dal cinema) sia merce da intrattenimento non è certo una novità. Almeno dal panorama di fine Settecento (il primo, poi, riguardava proprio Londra…) e fino alla contemporanea realtà virtuale, le tecnologie mediano l’accesso a un mondo massimamente più ampio e interessante di quello in cui la vita quotidiana ci costringe, fornendo ai sensi illusioni di grandezza pervasive e persuasive. L’esigenza non solo di osservare, ma anche di sentirsi parte della rappresentazione, travalicando i confini dello schermo e del quadro, è radicata nel profondo del desiderio umano. Non stupisce che questa forma di coinvolgimento costituisca il gancio commerciale e la leva promozionale delle attrazioni immersive contemporanee (ma mi rincuora che sui dock del Tamigi ci siano ancora gli imbonitori che fanno a gara a chi urla più forte per convincere i passanti a entrare in questa o quest’altra attrazione, come di fronte alle sale nei primi anni del cinematografo). Per rispondere in modo sempre più efficace alla massificazione del turismo culturale e dei consumi, l’immersività – venduta a caro prezzo in spazi istituzionalizzati che rimpiazzano i musei tradizionali – è divenuta il valore aggiunto di un’arte la cui presenza tuttavia non è più strettamente necessaria. È molto più attrattiva e accessibile una mostra che offre al visitatore un’esperienza aumentata, anche se l’oggetto aumentato non è presente e viene giudicato “in contumacia”. Allora fuggo dalla città verso il mare, quello vero. Alle bianche scogliere di Dover la giornata è tersa, e lungo il sentiero tra il Castello e il faro superiore di South Foreland (dove Marconi fece qualche esperimento sulla radio…), si spalancano panorami mozzafiato sulla Manica e si scorge la costa settentrionale della Francia (a proposito di Dunkerque). Dove le nuvole e le onde si infrangono sulla roccia e gli elementi si incontrano, constato l’originaria potenza immersiva della Natura che i media tecnologici cercano di emulare. Mi pare così più chiaro che non si tratta di una questione di realismo e neppure della capacità oggettiva di un mezzo di offrire un’esperienza avvolgente. Piuttosto, è in gioco l’esperienza soggettiva dello spettatore o del visitatore di sentirsi coinvolto nel mondo che lo circonda, e questa può persino prescindere dal grado di definizione del mezzo, ma non dalle modalità in cui un contenuto è messo nelle condizioni di esercitare il proprio potenziale psicologico e suscitare l’illusione della presenza. E così sentire di esserci, in quello spazio e in quel tempo, presenti al mondo e a sé stessi, nell’orizzonte infinito dello sguardo e della storia.

In copertina, una fotografia di Lachlan Gowen.

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