Tradurre mestiere impossibile

31 Gennaio 2016

L’artefice aggiunto, a cura di Angela Albanese e Franco Nasi, non è solo un libro molto utile, perché attraverso la teoria della traduzione ci offre un quadro ricchissimo del Novecento italiano, che coinvolge filosofia, linguistica, critica letteraria, estetica, teatro, editoria. È anche un libro bello e appassionante, a partire dal titolo. Alla fine del lungo itinerario si ha l’impressione che molti dei punti che animano la sterminata bibliografia sulla traduzione (ormai una scienza autonoma: la traduttologia) siano stati già trattati da autori oggi trascurati o del tutto dimenticati; o che comunque tutto ruoti da sempre attorno ad alcuni nodi fondamentali.

 

Il titolo proviene da un saggio di Renato Poggioli, figura di antifascista (ma anche antistalinista) che lasciò l’Italia negli anni Trenta per trasferirsi prima nell’Europa orientale e poi negli Stati Uniti, dove svolse fra l’altro un’importante attività di mediazione culturale (sua è l’introduzione all’edizione americana della Coscienza di Zeno). The Added Artificer è nato come contributo per un volume collettivo sulla traduzione pubblicato da Harvard University Press nel 1959, che ospita anche saggi di Nabokov e Jakobson. Poggioli sviluppa un parallelismo con la recitazione teatrale, con la direzione d’orchestra, con l’illustrazione di libri, e in genere con tutte le pratiche di adattamento e di performance, ma ci tiene anche a sottolineare un importante discrimine: solo nella traduzione il medium è allo stesso tempo uguale e diverso, il che preclude ai traduttori di diventare creatori assolutamente originali, e rende particolarmente adatto a loro la definizione classica di artifex additus artifici. Come scriveva Novalis la traduzione non può che essere metamorfica, e mai letterale: attraverso l’affinità elettiva e l’empatia, deve trasformare bellezza in bellezza, come un alchimista con le monete d’oro. Per mostrare l’universalità del procedimento traduttivo, Poggioli si richiama alla visione dei simbolisti, per cui «anche la poesia originale è una forma di traduzione, un tentativo di riprodurre con parole diverse una musica celestiale» (p. 222). Spogliato di un certo misticismo, questo brano richiama alla mente la posizione di Michael Cunningham, che in varie occasioni pubbliche (ad esempio il Festival di cinema e letteratura di Capri organizzato da Antonio Monda) ha dichiarato di non accusare mai i suoi traduttori e i suoi adattatori di scarsa fedeltà, perché sa bene che anche la sua stessa scrittura non è che una traduzione vaga e approssimativa di quello che aveva in mente. Una battuta, certo. Ma è una battuta che svela un meccanismo profondo, su cui la psicanalisi ha da sempre lavorato: l’inconscio e le emozioni, da cui gli scrittori attingono più di altri, hanno una logica diversa e perciò hanno continuamente bisogno di essere tradotte in una forma comprensibile e comunicabile.

 

Siamo arrivati così a un punto chiave, su cui il libro torna a più riprese: la traduzione è un’operazione ardua e impossibile, ma allo stesso tempo onnipresente: sta dappertutto, in ogni attività umana. Già Croce ci presenta un esempio pregnante di quest’oscillazione fra tutto e nulla: da un lato il suo diktat contro la traduzione avrà un grande influsso direi nefasto sulla cultura italiana, come quelli contro la comparatistica e contro la critica tematica; dall’altro Croce pratica la traduzione con risultati interessanti (Ibsen), e scrive osservazioni significative sulla personalità del traduttore e sulla capacità di risonanza del testo originale; in un saggio scritto per una scelta di poesie di Goethe, ad esempio, critica l’idea che ci sia da una parte il testo originale «ritto come un segno di bersaglio», e dall’altra tutte le traduzioni che cercano di colpirlo al meglio; la traduzione è invece un «”trasferimento” di quell’essere vivente, che è una poesia, in altro ambiente e tra condizioni di vita che non possono non renderlo simile e diverso da quello che prima era» (p. 44). Anche Giovanni Gentile, richiamandosi alla filosofia del linguaggio di Humboldt, giunge alla doppia paradossale conclusione che noi non traduciamo mai, perché in fondo la lingua è unica, e nello stesso tempo traduciamo sempre, perché la lingua si trasforma di continuo, deducendo così una visione della critica letteraria come continua rilettura e ritraduzione (pp. 66 e 71).

La dicotomia più famosa e famigerata, quella fra traduzione letterale e traduzione libera, espressa in genere con la dizione misogina di bella e infedele, appare superata in numerose delle proposte critiche che L’artefice aggiunto sintetizza e antologizza: dal programma di Cesarotti di far gustare e allo stesso tempo far conoscere Omero, citato da Sabbadini, alle riflessioni di Pirandello sul traduttore che, come l’attore, dà una consistenza nuova al testo, anche se gli fa perdere verità universali; dalle pagine di Pareyson sulla natura ermeneutica della traduzione e di ogni riproduzione (anche quella cinematografica di un’opera architettonica, ad esempio) alla teoria di Fortini sull’interferenza fra poeta e traduttore, fra memoria e presente; dalle belle pagine di Luciano Bianciardi, che esalta i rarissimi momenti in cui fra traduttore e autore c’è una tale consonanza che sembra di inventare, non di tradurre, alla posizione provocatoria di Beniamino dal Fabbro, secondo il quale l’unica lingua che il traduttore deve veramente possedere è la propria.

 

La posizione tradizionalista e filologica, per me particolarmente inaccettabile, della letteralità pura, che molto spesso è una non traduzione (con buona pace di Benjamin), viene qui rappresentata da Gabriele Baldini, anglista geniale e autore di un bellissimo saggio su Verdi, Abitare la battaglia, la cui traduzione di Shakespeare, per voler rendere il maggior numero di dettagli possibile, risulta però pesante, e poco adatta alla recitazione. La scheda introduttiva rievoca la polemica con Gerardo Guerrieri, traduttore dell’Amleto di Zeffirelli, aspramente criticato da Baldini per aver fatto violenza al testo in nome della recitabilità, riducendolo a una parafrasi. Guerrieri si difende citando un brano della traduzione di Baldini, che per rendere l’aggettivo questionable, riferito all’aspetto, impiega ben 11 parole: «Tu vieni in un aspetto che par così di buon grado offrirsi di rispondere alle domande», frase credo difficilmente recitabile anche dall’attore più bravo e dotato di straniamento. Nonostante tutto, è difficile non dare ragione a Guerrieri, che ribalta l’accusa di parafrasi in accusa di perifrasi. La figura di Baldini ritorna in un altro contributo di Elio Chinol sul ritmo e l’oscurità nelle traduzioni di Shakespeare. Chinol cita il bel verso potente ma poco chiaro del Macbeth, in cui la Lady esorta così il protagonista: «But screw your courage to the sticking place, / and we’ll not fail». Baldini traduce: «Ma avvita il tuo coraggio a un valido sostegno, e riusciremo»; una frase pesante, senza alcun ritmo, poco recitabile e poco chiara, ripresa e solo un po’ abbellita da Quasimodo: «Ma fissate il vostro coraggio a un saldo sostegno e riusciremo». La soluzione di Chinol è invece bellissima ed efficace: «Ma tendi l’arco del tuo coraggio, e certo riusciremo»; lo è anche dal punto di vista fonico (l’allitterazione in s dell’originale è compensata, come direbbe Fortini, dalla ripresa e dall’assonanza in co), e dal punto di vista ritmico, anche grazie a quel «certo», snodo che aggiunge una sfumatura asseverativa. La traduzione di Chinol è l’unica che possa essere considerata una traduzione, nel senso pieno di passaggio fra linguaggi, codici, poetiche.

 

Concluderei ricordando come molti autori antologizzati nel libro scrivano pagine affascinanti sull’ethos del traduttore, che secondo Poggioli fonde umiltà e orgoglio: ne parlano a lungo Bianciardi, e Natalia Ginzburg, che ricorda la gioia nervosa con cui ha alimentato la sua traduzione di Proust, fatta di laboriosità ed entusiasmo, di maniacalità e innamoramento. La traduzione è un viaggio nell’alterità testuale, che alterna frustrazioni e slanci, sfide impossibili e sfibranti calibrature: senza tutto ciò la letteratura non circolerebbe, non si rinnoverebbe, e soprattutto perderebbe la sua vitalità metamorfica.

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