Tutti i segreti del Presidente
Dicono che un tempo (durante la prima Repubblica? durante la seconda? Nell’intervello tra le due o nei tempi supplementari dell’ultima?) le cose funzionassero grosso modo così.
Il Presidente, qualche giorno prima della riunione del Consiglio, riceveva i più influenti dei suoi ministri che gli sottoponevano i decreti e le misure che avrebbero dovuto essere adottate.
Poi c’era il giro delle udienze concesse a una mezza dozzina di grand commis dello Stato che facevano sentire la voce dell’alta burocrazia e delle istituzioni nodali. Su cosa? Essenzialmente sulle modalità e sui tempi con cui queste decisioni avrebbero dovuto “impattarsi” sullo status quo esistente. Il parere di queste voci non era sul “cosa” ma sul “come”.
In effetti, dato che ognuno stava a guardia dei confini della propria nomenklatura di appartenenza, la soluzione era inevitabilmente quella di sterilizzare ogni provvedimento. Così che interferisse il meno possibile su interessi piuttosto muscolosi, su realtà particolarmente permalose. Soggetti, insomma, pronti a reagire piuttosto ruvidamente nei confronti di ogni possibile significativo mutamento.
Di solito l’ultimo a essere ricevuto dal Presidente – ma forse il Presidente potrebbe anche essere al vertice di una Regione, di altre potenti istituzioni – era l’omino della zona grigia. Così lo chiamavano – dismettendo per un attimo il sussiego con cui scrutavano i visitatori che arrivavano sotto i loro occhi – i commessi del Palazzo. Di fatto era il delegato alle faccende segrete – non tanto quello ufficialmente in carica come capo dei servizi segreti, quanto quello che da tutti coloro che erano interni alle delicate cose era riconosciuto come il referente sulle dinamiche e transazioni sotterranee del Palazzo.
Per tradizione l’udienza durava mezz’ora. L’uomo dei segreti e delle rogne, di una cortesia formale quasi imbarazzante, si sedeva sul bordo della sedia davanti alla scrivania del Presidente che sembrava la plancia di comando di una portaerei. Il ripiano della scrivania era non solo di una vastità impressionante, ma così vuoto da dare un senso di vertigine. Sopra questo spazio – neppure un foglio, né un blocco d’appunti, nessuna pratica, dossier, memorandum riservato, niente di niente – l’uomo deponeva i fascicoli. Quelli che aveva estratto dalla valigetta nera che portava sempre con sé.
Dieci, dodici fascicoli, ognuno con ben stampigliato sopra, in caratteri eleganti, l’argomento che vi era racchiuso e documentato.
Sulla scrivania i fascicoli erano deposti in una pila che l’omino metteva in ordine, squadrava con cura maniacale. Ci teneva a che ogni fascicolo fosse esattamente sopra l’altro e solo il titolo dell’argomento trattato si porgesse con immediata evidenza allo sguardo del Presidente. Poiché le questioni, gli “issue” dicevano le assistenti, seguivano la concatenazione dettata dall’ordine dei fascicoli. L’uno sovrapposto all’altro.
Scandito il titolo del fascicolo da esaminare in pochi minuti tutto veniva riassunto e affrontato: lo stato delle cose maturato sino a quel punto, gli interessi in gioco, le evoluzioni e le possibili soluzioni e i tempi e le modalità d’azione che ne conseguivano. Tutto illustrato con didascalica semplicità così da consentire al Presidente di decidere subito. E infatti il presidente soppesava. Chiedeva delucidazioni. Taceva. Alla fine pronunciava il suo sì, a volte il suo no, e si proseguiva.
I temi spinosi arrivavano di solito verso la metà dello spoglio dei fascicoli. Lì il Presidente spesso tendeva a distrarsi. Oppure si impuntava. Dopotutto si trattava di rimangiarsi decisioni già annunciate, promozioni rilevanti in ruoli cruciali già comunicate ai diretti interessati. Talvolta erano per lui imposizioni fuori da ogni giustificazione. Autolesionistiche, rospi inaccettabili da ingoiare. Resisteva. Sarebbero stati necessari – avrebbe detto un politologo o uno studioso di meccanismi decisionali – schiere di grand commis e argomenti forti per convincere il Presidente a cedere.
L’omino della zona grigia pareva quanto mai partecipe delle accalorate resistenze del Presidente. La testa china sul ripiano lo ascoltava con deferenza mentre con le mani lisciava i fascicoli. Nel riordinarli ecco che, pressoché casualmente, ne sfila uno dal fondo. È proprio l’ultimo dei fascicoli. Il titolo, ora che il fascicolo è lì a lato, separato dagli altri, lo si legge con un solo colpo d’occhio. Può essere un banale indirizzo. Il recapito di una fondazione. Il nome di un fondo fiduciario svizzero. A volte è un nomignolo. Un soprannome, di quelli che si usano solo nell’intimità: che so? “Pesciotto”, “Cutrettola” e cose simili. Il presidente, pur tutto preso dalle sue argomentazioni, non può evitare di gettare uno sguardo su quella intestazione.
Non spegne il suo parlare ma la voce si è incrinata di un poco, un poco appena. Si interrompe. Guarda il suo interlocutore.
“E questo cosa vuol dire? Chi si permette di…”, ha detto la prima volta che gli è capitato. E poche altre volte ancora. La prima volta con voce tagliente. Fissando l’omino che pare voler scomparire e retrocedere sempre di più su quella sedia su cui sta in bilico.
Questo succedeva le prime volte. Ai primi incontri con un ogni nuovo Presidente. Poi le parole non sono più servite, dicono quelli che sanno come sono andate le cose. Buona parte degli incontri hanno ripreso a filare via veloci fino alla fine, senza nessun intoppo.
Qualche volta, certo, c’era ancora, in fondo al mucchio, un fascicolo finale con un nome, la sigla di una società, un pacco di resoconti di versamenti, delle fotografie. Suggerivano al Presidente quello che doveva decidere. Così da non far affiorare quello che, su di lui, era preferibile rimanesse sul fondo.
“Devi essere ricattabile, per fare politica. Devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo con cui si selezionano le classi dirigenti.”
Lo ha spiegato tempo fa Giuliano Ferrara, uno che di politica e potere se ne intende, in un dibattito con Piercamillo Davigo. E la citazione viene ripresa sul Corriere della Sera da Gian Antonio Stella, a commento dell’esplodere del Laziogate con le seconde e terze file dell’assemblea regionale del Lazio che si sono divorate tutto quanto era divorabile.
Non sarà consolante ma perché non ammettere che le cose sono andate, stanno andando esattamente così? “Devi essere ricattabile, per fare politica…”
Il che non significa giustificare le cose così come vanno ma, perlomeno, cominciare a vederle e a ricostruirle dall’angolazione giusta. Non più incollati alle veline delle indagini e ai tam tam che escono dalle Procure ma con uno sguardo dall’orizzonte più vasto che consenta di non trasformarci tutti in tifosi delle manette o in ultras dell’antipolitica.
La ricostruzione necessaria – del Paese e della sua classe dirigente – passa da una rivisitazione obbligata e a ciglio asciutto della situazione esistente.
C’è una narrazione da recuperare che non si esaurisce con la cronaca giudiziaria. C’è uno sguardo freddo e staccato da gettare su come anche a livello locale si sono snodate carriere, formate cordate, cristallizzati interessi che a poco a poco si sono imposti come fattori di riferimento decisivo, azionisti di riferimento, dentro la vita delle forze politiche operanti in questo Paese.
C’è bisogno prioritariamente proprio di una narrazione. E di letture adeguate.
Si può cominciare per esempio da Il presidente di Georges Simenon ripubblicato in nuova traduzione da Adelphi. Chissà se a suo tempo lo hanno letto Craxi e Andreotti e Giuliano Amato. E - più tardi - Gianni Letta e Giulio Tremonti, Massimo D’Alema e Walter Veltroni (altro che utopie sessantottine!).
In questo romanzo degli anni Cinquanta c’è un vecchio leone della politica, messo in disparte ma ancora capace di un potere di interdizione che fa tremare i suoi avversari. Pagina dopo pagina sia nel romanzo, sia nel film del 1960 che ne è stato tratto, diretto da Henri Verneuil e interpretato magistralmente da Jean Gabin, emerge il segreto del potere. Affiora a poco a poco, nel vivere quotidiano di questo Presidente isolato nel suo rifugio sulle scogliere della costa normanna.
È incalzato dalla vecchiaia, forse anche dalla morte. È circondato da una pattuglia di collaboratori, i suoi “cani da guardia” li chiama il vecchio, che il lettore non dimenticherà più. Anche se, rispetto ai “Batman de Anagni” che abbiamo sotto gli occhi, sono di una compostezza irreprensibile, talvolta raggelante.
Ma alla fine sono i segreti – quelli che il vecchio ha tesaurizzato – a decidere sui passi e sui nodi del potere. È il segreto e il ricatto che ne deriva a filare la trama della cooptazione dei nuovi potenti, a tessere le trame delle stagioni che si succedono.
Tutto questo accadrà fino a quando dentro il palazzo del potere vige la legge enunciata da Ferrara e ribadita da Stella per la quale “Devi essere ricattabile, per fare politica..."
Simenon, ne Il presidente, questa legge la mette in scena con didascalica efficacia. Ma, con la potenza della sua narrazione, lascia intravedere una crepa nel muro della corruzione e del ricatto che sorregge il potere. Una crepa non è un terremoto che fa crollare palazzi e obbliga a una generale ricostruzione. Però consente di guardare oltre i muri. Di respirare aria nuova. Basta una crepa, a volte, per indicare un orizzonte che sembrava non esserci più.