Viaje a la Semilla. Gabriel García Márquez 1948-1953

5 Maggio 2014

Giovedì 18 aprile 2014 Gabriel García Márquez è deceduto a Città del Messico, dopo 87 anni, 43 giorni, 9 ore, 12 minuti e 18 secondi dalla nascita, tempo tutto dedicato alla conoscenza, alla vita e ai suoi piaceri, alla specie umana e alla letteratura. In meno di ventiquattro ore il coro di lodi, aneddoti, orazioni funebri, canti, urla, testimonianze, pianti, ricordi e altro si è fatto – con le dovute eccezioni che fanno la regola – affollato, superficiale e in tanti modi volgare e grottesco. In quelle prime ventiquattro ore sono stati consumati, come minimo, milioni e milioni di quintali di carta patinata e da giornale e un po’ meno d’inchiostro; spesi decine e decine di milioni di euro in minuti e ore di notiziari, programmi e speciali televisivi; trasmissioni radio; interviste a specialisti, meno specialisti e chiacchieroni; milioni di euro in costi telefonici e tariffe internet. Vero è che mai prima d’ora nella storia della letteratura, dall’Artico all’Antartico, dall’Isola di Pasqua all’arcipelago Giapponese, dalla Cina e la Siberia fino al Corno d’Africa e l’Australia, uno scrittore è stato così letto, tradotto, ammirato, chiacchierato, studiato, intervistato, lodato, imitato ma comunque sempre amato e mai vituperato. Mai prima d’ora, nella storia della cultura mondiale, un meticcio mezzosangue extracomunitario e del “terzo” mondo, privo di cognomi altisonanti e, per di più, poeta, aveva raggiunto una fama e un riconoscimento così spropositato in vita. Tutto è dovuto esclusivamente ai suoi testi rivelatori, al suo impegno per la specie umana e alla sua capacità di affabulare il mondo in un'unica parola: Poesia.

 

Il villaggio di Aracataca si stende vicino al fiume omonimo come scriveva GG Marquez nelle prime righe del suo romanzo "Cent'anni di solitudine": “…Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e canna selvatica costruita sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche..”

Se si dà ascolto a Hemingway e si applica alla narrativa contemporanea il principio dell’iceberg da lui proposto, è indubbio che essa abbia raggiunto l’apice tra la terza e l’ultima decade del Novecento. E non è certo una novità mettere Gabriel García Márquez (Gabo per tutti, Gabito per i pochi intimi) tra quelli che danno forma all’ottavo visibile. García Márquez e papà Hemingway, quindi, si trovano in cima all’iceberg, insieme forse a James Joyce, Marcel Proust, Jorge Luis Borges, Virginia Woolf, William Faulkner e Juan Rulfo.

Dopo i suoi ultimi libri pubblicati, le memorie Vivere per raccontarla (2002) e il romanzo di Barranquilla Storia delle mie puttane tristi (2004), pochi anni di forzato silenzio hanno fatto mancare la parola scritta ma non quella civile di García Márquez.
Ora che, nell’esilio messicano, ha deciso di eclissarsi, il vuoto cresce e si raduna una gran folla, con tanto di funerali ufficiali di Stato e lutto di ben tre giorni. Accoglienza, non tanto diversa, a settanta anni di distanza, da quella che la folla osannante in Colombia dedicava a fascisti e militari, figli del Gran Burundún-Burundá.

Accadeva a Cartagena e Barranquilla prima, e a Bogotá poi, giusto a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, in cui García Márquez, appena ventenne, faceva l’aspirante scrittore. Era all’epoca un rinunciatario e squattrinato studente del secondo anno alla Facoltà di Legge, che per necessità iniziava a lavorare come lettore di dispacci d’agenzia, cronista di fortuna e opinionista del nulla per giornali di provincia e, a tempo pieno, improbabile autore di allucinati e misteriosi racconti. Era così povero che senza un posto dove dormire era ospite non pagante al “Grattacielo” un alberghetto di puttanelle da quattro soldi alle quali in cambio di un letto per riposare si offriva di stilare lacrimose lettere d’amore o di intonare romanticissimi boleri d’altri tempi. Finché poi, cresciuto come reporter e romanziere, e in giro per il mondo con la sua vecchia Remington, riuscì a diventare il più grande lettore a voce alta mai conosciuto finora al mondo. Ci riuscì, come giornalista, con Notizie di un naufrago (1954), Lo scandalo del secolo. Il caso Wilma Montesi (1955), «El proceso de los secretos de Francia (Affaire des Fuites)» (1956) e 90 giorni nella Cortina di Ferro (1959); e come romanziere con Foglie morte (1955), Nessuno scrive al colonnello (1961), I funerali della Mamma Grande (1962), La mala ora (1962) e Cent’anni di solitudine (1967).

 

Aracataca. Una stanza della casa dei nonni dove Gabriel ha vissuto sino agli otto anni. La fotografia è stata presa nel 2006, prima che, nel 2010, venisse definitivamente ricostruita come casa-museo. I ritratti alle pareti sono della mamma Luisa Santiaga, da giovane e da anziana.

Certo è che mai prima di lui uno scrittore è stato tanto seguito, letto e ascoltato. Mai un affabulatore, come Gabriel García Márquez, l’inventore di Macondo, ha raggiunto tanta celebrità ed è stato tanto amato, chiacchierato e venerato ovunque. Motivi ci saranno, per affermare ciò, oltre alla ormai nota fama che lo affianca a Miguel de Cervantes Saavedra, entrambi conclamati come i più grandi scrittori di lingua castigliana e del mondo ispanico di tutti i tempi.

Mi preme dirlo, ora che non c’è più, non come elegia ma come atto di riconoscenza verso un individuo d’impareggiabile umanità e impegno civile che insegnò a tutti i latinoamericani, e per primi a noi colombiani, a essere cittadini del mondo e a riconoscere nel meticciato la nostra vera identità e la più fiera ragion di essere e di esistere. E lo faccio consapevole del fatto che García Márquez non fu mai riconosciuto dalle stanze di un potere razzista, classista ed escludente come quello incarnato dalla classe dominante colombiana: una borghesia creola, ignorante, senza passato, senza identità e senza storia. La stessa che oggi piange e decreta il lutto nazionale. Lo scrivo consapevole del fatto che mai prima di lui e dei suoi compari del Gruppo di Barranquilla si riuscì a combattere il recalcitrante “nazionalismo” repubblichino (ispanico, borbonico e gringo), innalzato su fantomatiche carte costituzionali. Mai prima della diffusione della sua opera nessun poeta o romanziere, politico o maestro fu capace di alfabetizzare tutto un paese per mezzo di metafore vivaci, umoristiche e sorprendenti su una realtà della memoria e dell’oblio chiamata Colombia.

 

Aracataca, "La Casa del telégrafista" è un piccolo museo che raccoglie una calcolatrice usata negli uffici della compagnia nordamericana United Fruit e alcuni reperti provenienti dall’ufficio del telegrafo dove lavorò il papà di Gabriel, Gabriel Eligio García.

Come giornalista García Márquez manterrà sempre un rigore estremo nei confronti del centralismo della capitale e del mito eufemistico di Bogotá come “Atene sudamericana”, spingendosi ad affermare che “il provincialismo letterario in Colombia inizia a 2.500 metri di altitudine”. Ignorando le provocazioni del vecchio e sterile litigio tra Costieri e Andini, tra Centro e Periferia, e sostenendo invece il dibattito sugli elementi dell’identità nazionale e contro il disdicevole “nazionalismo”, insistendo sulla definizione degli elementi dell’identità colombiana e sulla trasformazione urgente dell’arte, della letteratura e della cultura, necessarie al paese e a tutti i suoi abitanti senza distinzione di credo, etnia o classe sociale.
    
Nato nel 1927 in un minuscolo paese della costa atlantica colombiana, Aracataca, García Márquez ha un luogo di appartenenza riconosciuto da pochi anni a questa parte come una delle sei aree geo-culturali che configurano il continente latinoamericano: il Caribe, la regione in cui, agli albori del Cinquecento, si attuò la conquista imperiale ispano-portoghese ed europea. Una frontiera dove è cristallizzato un autentico melting-pot, frutto dell’incrocio delle più svariate e numerose etnie, lingue, culture e religioni del pianeta: animismi africani, razionalismi europei e cosmogonie amerindie, si sono mescolate, prima, e si sono accresciute in seguito ad opera dalle cosmovisioni e delle filosofie medio ed estremo orientali e oceaniche. Un’area geo-culturale, il Caribe, plurilingue, meta-sonante, multi-parlata e, soprattutto, informale. E diventata poi crogiuolo e laboratorio dove sono stati sperimentati i diktat della nuova politica neo-coloniale della pax statunitense, oggi definita impropriamente globalizzazione.

 

Aracataca/ quello che rimane del cine-teatro Olimpia dove Gabo vide il suo primo film portato dal nonno, come racconta nell'autobiografia "Vivere per raccontarla".

Aracataca si trova infatti a sud dell’enclave della zona bananiera di proprietà della United Fruit Company, dove agli albori del Novecento si verificò – in seguito alla grande guerra civile dei Mille giorni – la nascita del movimento operaio colombiano e, nel 1928, il genocidio perpetrato dai latifondisti locali e dalla multinazionale statunitense, con la complicità del governo e dell’esercito. Eccidio che è parte viva dell’immaginario collettivo di tutti i colombiani, ed è conosciuto nel mondo come “Masacre de las bananeras”.

Luoghi, fatti e radici sui quali il giullare colombiano innalza un universo immaginario, mette in motto una grande macchina narrativa e fonda la sua opera letteraria. Imperialismo, guerre civili, colonnelli, canti, leggende, tradizioni, miti, folklore, parlate popolari e gerghi locali sono le fondamenta sicure della tradizione orale sulle quali García Márquez indaga temi e problematiche universali quali potere, solitudine, violenza, amore, incesto e morte. Il tutto, attraverso l’elaborazione di modi e forme espressive personali che prendono vita grazie a cronotopi e poetiche quali la disperanza, la tragedia, il melodramma e l’aneddotica.
     
Da La tercera resignación, racconto pubblicato da El Espectador di Bogotá nel 1947, e Los habitantes de la ciudad, primo testo giornalistico pubblicato da El Universal di Cartagena nel 1948, García Márquez dà mostra di una ferrea volontà politica che lo muove a voler recuperare i valori della cultura popolare con la lucida intenzione di universalizzarli. Fin da queste prime pubblicazioni, García Márquez distilla l’angoscia e la tragedia dell’uomo contemporaneo. Parallelamente all’ossessiva e puntigliosa ricerca di come esprimersi (lingua e stile) e di come strutturare la propria narrativa in modo innovativo (linguaggi e sistemi), mostra quanto la sua opera sia espressione di un ideale etico ed estetico.

 

Aracataca, un corteo funebre esce dalla chiesa di San José. In questa chiesa Gabito fu battezzato.

García Márquez è uno scrittore che, in senso ampio, nasce, si forma (e si deforma) nell’America Latina, la interpreta e la esprime con vigore. Proprio in quelle geografie dove l’immaginario europeo ha riversato sogni e fallimenti: il Nuovo Mondo, spazio dell’Utopia e tempo del Mito che stanno alla base della tradizione del romanzo come genere letterario tardivo. Per García Márquez il fantastico e il meraviglioso sono alle radici del costrutto letterario del continente.

Come ogni letteratura, quella latinoamericana nasce dalla propria storia. Essa appare però, nei primi tempi, come propaggine della letteratura fantastica medievale europea: La Sheherazade de Le mille e una notte, i Viaggi di Mandeville, Il Milione di Marco Polo, Tirant lo Blanc di Joanot Martorell, il ciclo anonimo degli Amadigi. Letteratura che a sua volta matura in Gargantua et Pantagruel di Rabelais, La nave dei folli di Sebastian Brandt, Utopia di Tommaso Moro, Amleto di Shakespeare e culmina nell’opera magna della letteratura moderna: Don Chisciotte. Lo scrittore colombiano si prefigge sin dagli esordi di incarnare la versione contemporanea del giocoso e mordace giullare medievale, del trovatore interprete della cultura popolare – familiare, intima e collettiva – e mai quella dell’infame e venduto giullare di corte. García Márquez non è mai stato un’artista né dell’ufficialità, né del potere e non a caso ha subito in patria il disprezzo di ricchi e potenti.

Alle origini della letteratura moderna latinoamericana c’è il corpus delle Cronache della Conquista, generatrici e interpreti di un mondo i cui autori – soldati di fortuna e fratini improvvisati scrittori – impossibilitati a descriverlo e a raccontarlo, lo immaginano e lo fanno diventare favoloso. Un mondo inafferrabile in cui, per i cronisti, tutto è fantastico – uomini, natura, solitudine, abbandono, di speranza, violenza – e smisurato – culture, ricchezze, povertà, natura, geografie. Nelle Cronache cinquecentesche la realtà assimila le caratteristiche del reale meraviglioso, ed è lì dove si coagulano le direttive della nuova letteratura latinoamericana: l’epica, il barocco, il fantastico, il reale. Perché in queste geografie, la vita, la verità e persino la morte sono barocche. E il barocco non è più negli occhi di chi lo vede, bensì risiede nei fatti che sono nel flusso della storia. Il barocco, malgrado alcune idee postmoderne e postcoloniali, è decisivo nel processo creativo e nella concretizzazione dell’opera di García Márquez.

 

Aracataca, Stazione della Via Crucis per la processione del Venerdì Santo.

Si tratta di un barocco che da stile diventa in America Latina un modo di essere e di vivere, incorporato ormai all’identità e modellato nel meticciato fecondo, proliferante e vissuto come colpa, con mano india e nera, con sangue schiavo e pagano, con immaginazione erotica e vitale. Un barocco straripante e rigoglioso che nell’essere stile, espressione, modo di essere, assimila fauna e flora, realtà e sogno e sfocia in un meticciato concettuale e formale dalle più impensabili e articolate combinazioni. Soltanto così, nelle ex colonie, acquista senso il barocco ispanico: quello letterario di Góngora, Quevedo e Cervantes, quello pittorico di Velázquez e Zurbarán, quello architettonico di Claudio Arciniega, Francisco Becerra e Andrés Blanqui. Senza vivere quest’altra America come meticcia e barocca verrebbero meno le grandi narrazioni di Garcilaso de la Vega, el Inca, le cronache bilingui (parola e disegno) dell’andino Guamán Poma de Ayala, le sculture lignee di Aleijaidinho in Brasile, l’architettura e i basso-rilievi policromi di Tonanzintla a Cholula o i retablos di San Francisco e Santa Clara a Bogotá e tutta Mompóx, tutta Lima vecchia, tutta Quito antica. E tanto meno avrebbero senso Uxmal e Palenque, Machu Picchu o Tihuanaku, Nasca o Chavin de Huantar, tutta Brasilia di Niemayer, le solitudini di Góngora, né il teatro di Lope de Vega, e men che meno le opere di Shakespeare o di Montaigne.

È questa nuova versione del barocco a consentire a García Márquez di diventare uno dei componenti dell’ottavo visibile dell’iceberg, così come di interpretare e restituire con il filtro della poesia tutto ciò che di autentico sopravvive nel continente. Al contempo, nel lungo divenire e dalla prospettiva del mito, essa consente l’avvento del nuovo romanzo latinoamericano, in cui convergono in modo del tutto naturale magia, storia e vita quotidiana. Forse proprio per quello lo scrittore cubano Alejo Carpentier afferma profetico e lungimirante: “Saremo i classici di un enorme mondo barocco”. Non realista, né magico né magico realista, perché chi abbia letto in profondità Cent’anni di solitudine, L’autunno del Patriarca, Cronaca di una morte annunciata o Dell’amore e altri demoni, trova senz’altro questa etichetta sminuente e penalizzante nei confronti della produzione di García Márquez. Al più, il “realismo magico” connota la pigrizia smodata della critica e la riduttiva visione metropolitana e colonialista europea e statunitense.

 

Colombia / zona bananera/ un cagnolino scheletrico in una piantagione di banane vicino Aracataca, la Macondo di "Cento anni di Solitudine".

Nel tessuto di tutta l’opera giornalistica e letteraria del Nobel colombiano ci sono l’universo caribe, i miti e le leggende popolari, il porro e la musica per acordeón, i canti dei giullari e dei cantastorie (che proprio per opera di García Márquez oggi si chiamano vallenatos), la vita urbana e rurale, i miracoli, il contrabbando, la poligamia… Non a caso è stato omaggiato dal suo amico, lo scrittore peruviano, anch’esso premio Nobel, Mario Vargas Llosa, nel definirlo “Amadís de América” poiché, come accade nel ciclo degli Amadigi, magico, sacro e profano, nonché genesico e apocalittico, configurano il substrato di un’opera dai toni epici, perché nell’epica, come vuole Borges, quagliano le fondamenta di un inedito universo narrativo in quanto universo epico-poetico.

García Márquez parte proprio da lì, ma in libertà dice la sua, senza mai scendere a compromessi, coerente col principio secondo cui dove finisce la forma inizia il contenuto, inseguendo il gioco della dialettica pura tra l’etica e l’estetica. Come anche la consapevolezza che la più brillante immaginazione si basa sulla conoscenza della realtà e la più strampalata fantasia frana se non è sostentata da una profonda conoscenza della storia. Allo stesso tempo, lo scrittore colombiano mantiene viva l’intima convinzione di dover mediare per accettare l’intuizione dei romantici: “la realtà è uno stato dell’anima”, e l’enunciato di Kierkegaard: “la verità è soggettiva”.
Come cultore della parola, García Márquez si fa interprete di tutto ciò e sovverte i segni per collocarsi dalla parte della società civile e non di quella politica. Anche per poter raccontare in libertà e da una prospettiva corale e polifonica le vicissitudini dell’uomo della strada. Senza privarlo della possibilità di sognare, di dubitare e di affermare. O di discutere e protestare. García Márquez si innalza come fiero interprete dell’essere naturale (il Buon selvaggio primordiale) che dal continente americano si progetta nel mondo. E, nel rendersi consapevole del mondo, si fa carico per mezzo della scrittura dell’invenzione di sogni, indovinelli e congetture in una sequenza riducibile in tre punti: il racconto dei fatti (cronaca della realtà); la fantasia smisurata (elaborazione della finzione) e il racconto del viaggio (mezzo espressivo).
Esercitare la scrittura, come chi fa un viaggio in lungo e in largo nella storia e nel mondo, porta García Márquez alla costruzione di un sogno, in cui gli eventi e i personaggi di racconti, novelle e romanzi non sono più quelli del mondo reale da cui è partito, ma appartengono ormai all’immaginario poetico, storico e letterario nel quale l’autore si radica definitivamente e ludicamente. Nelle vesti di “cronista”, per la costruzione di questa storia nuova, realtà e finzione si coniugano in un’unità inscindibile, dove lo spazio/tempo della finzione partecipa e si ascrive nello spazio/tempo della storia. Della storia, raccontata dall’altra parte delle barricate, dall’ottica dei vinti per, in ultima istanza, promulgare l’utopia di costruire un mondo di redenzione, senza vincitori né vinti.

 

Aracataca/ lLa ferrovia taglia in due il paese. Il treno è sempre stato importante per il villaggio, una volta trasportava sia i passeggeri sia le banane dalle piantagioni della United Fruit Company al porto d'imbarco, Puerto Colombia, a Barranquilla. Oggi trasporta il carbone di una multinazionale al porto di Santa Marta.

García Márquez si allinea così con l’aspirazione del Gruppo di Barranquilla a “sincronizzarsi con l’ora del mondo” e con le posizioni neo-avanguardiste di un pugno di artisti e scrittori colombiani: José Félix Fuenmayor, Jorge ed Eduardo Zalamea Borda, Álvaro Mutis, Héctor Rojas Herazo, Manuel Mejía Vallejo, Meira del Mar, Marvel Moreno, Olga Lucía Ángel,  (scrittori); Alejandro Obregón, Debora Arango, Cecilia Porras, Edgard Negret, Fernando Botero, Feliza Burztin, Enrique Grau (artisti); Enrique Buenaventura, Patricia Ariza, Santiago García (drammaturghi); Carlos Álvarez, Marta Rodríguez, Guillermo Angulo (cineasti); Leo Matiz, Nereo e Hernán Díaz (fotografi).
Una volta acquisiti gli strumenti necessari, García Márquez non soltanto riesce a “sincronizzarsi con l’ora del mondo”, ma con la sua opera ci spinge a riflettere e costringe noi colombiani e latinoamericani a dialogare, per renderci uomini dei nostri tempi, per radicarci in modo definitivo nel mondo: a partire da noi stessi e non più da prospettive estranee.

È vox populi che García Márquez sia stato, sin da principio, un instancabile militante per la pace, per la giustizia, e per i diritti umani come pure un agguerrito oppositore all’esercizio del Potere, a favore dei senza voce e degli emarginati. Da ciò deriva la sua presenza attiva e militante nei fori dei Diritti Umani, nelle Conferenze di Pace e nel Tribunale Russell. Come anche nel promuovere la stampa, il cinema e i mass media liberi e indipendenti e nell’istituzione di scuole per il cinema e il giornalismo aperte a tutti i giovani latinoamericani. Lo dimostra anche il suo eterno esilio – a lunghi tratti politico – perché minacciato più volte di morte da militari, terroristi e paramilitari, che lo ha visto chiudere il suo periplo umano e artistico in Messico e non in patria.

 

Colombia / interno di un'abitazione della zona zona bananiera. Qui si era stabilita la United Fruit Company negli anni '20 del secolo scorso.

García Márquez arriva nel maggio 1948 a Cartagena de Indias con tre racconti ancora freschi di stampa pubblicati da El Espectador di Bogotá: La tercera resignación, Eva está dentro de su gato e Tubal-Caín forja una estrella. Il 21 dello stesso mese, sotto l’ala tutelare di Clemente Zabala, pubblica ne El Universal il suo primo testo giornalistico: Los habitantes de la ciudad…, a questo seguono l’emblematico No sé que tiene el acordeón, l’aspro Mientras el consejo de Seguridad discute…, il goliardico Yo podría decir…, e i significativi: Crucificado en la mitad de la tarde…, Un nuevo, inteligente y extraño personaje… e Francis Drake es una respetable dama…
    
Sono sette brillanti testi inaugurali, il primo dei quali è una nota apparentemente “malinconica”, al fine di dribblare la censura, ma dicendo la sua, a voce alta, sulle reali e drammatiche condizioni sociali della Colombia. La nota è un monito al paese caduto nella voragine della nuova violenza politica che lo tiene bloccato in stato d’assedio. A Cartagena, con la penna di García Márquez, rintoccano le campane della cattedrale annunciando la restaurazione della repubblica creola conservatrice, allineata con le politiche naziste e fasciste dell’Asse e al giovane giornalista tutto ciò appare inaccettabile. Il secondo pezzo consente di capire quanto siano d’interesse per García Márquez la musica e le tradizioni poetiche popolari dei giullari del Caribe.

Inizia così il periplo letterario di García Márquez con la sua prima rubrica, intitolata Punto y aparte, di vita breve poiché la chiuderà nell’ottobre 1949. In diciassette mesi, García Márquez pubblicherà 38 pezzi firmati, cui si aggiunge il racconto La otra costilla de la muerte. A questi 38 si sommeranno le 400 Jirafas, sua storica rubrica umoristica su “El Heraldo” di Barranquilla. Quanto basta per far capire il buon inizio di un serio mestiere da scrittore e per esprimere, in modo esauriente e attento, i suoi nuclei d’interesse: il quotidiano, il becero e l’insolito del Caribe e della Colombia. Come anche fa vedere una smisurata curiosità per l’“altro”, il diverso, lo straniero. E tutto ciò che parla di magia, riti antichi, usi, costumi e tradizioni popolari.

 

Colombia / Sucre, dipartimento di Sucre. Pescatore nelle acque della Cienaga de la Mojana. A Sucre la famiglia Marquez passò diversi anni. Gabo trascorreva qui solo le vacanze.

Il 1950 è per García Márquez sicuramente l’anno più inteso di questo periodo formativo. A gennaio si trasferisce a Barranquilla, pubblica un eccellente giornalismo, conclude il suo primo romanzo Foglie morte (1955) e scrive tutte le storie del primo libro di racconti, che pubblicherà soltanto nel 1974 con il titolo Ojos de perro azul (Occhi di cane blu).  

Il 1950 è anche l’anno di Crónica, un’inedita invenzione diventata organo del Gruppo di Barranquilla che in 54 numeri si occupa letteratura e sport, dove si dà spazio ai grandi autori della narrativa breve del mondo e dove lui stesso pubblica i racconti La mujer que llegaba a las seis, La noche de los alcaravanes e Alguien desordena estas rosas. Alfonso Fuenmayor era direttore, García Márquez caporedattore, illustratore, redattore, linotipista, correttore di bozze e strillone. Un’esperienza senza precedenti che segna un’epoca, insieme a Crítica di Jorge Zalamea (1948-1950) e Mito di Jorge Gaitán Durán ed Hernando Valencia Göelkel (1955-1962) pubblicate a Bogotá. Una triade di riviste, senza uguali nella letteratura colombiana, in anni oscuri e difficili, dove si forgia il meglio dell’intellettualità del paese. Tre riviste che, nel divario tra contrastanti concezioni dell’arte e della letteratura, il più delle volte radicali e antagoniste, segnano l’ingresso, anche se tardivo, della cultura colombiana nella terza modernità.  

Non mi riferisco qui alla modernità neo-colonialista dell’American way of life come espressione politica della Guerra fredda e dell’imperialismo nordamericano sempre più aggressivo di cui si facevano forti, come se non fosse bastato il resto, la nascente osa e l’onu. Non mi riferisco alla modernità delle guerre a bassa intensità, delle invasioni di marines, della tirannide delle multinazionali e dell’imposizione e sostegno alle dittature militari latinoamericane. Tanto meno parlo della modernità impersonata da Paperino, John Wayne e Pedro Infante. Neppure quella che si manteneva attiva con Andy Warhol e la pop art ufficiale, Frank Sinatra e la kennedyana Alianza para el progreso, i cui bracci armati erano i Peace Corps, i Summer Institute of Linguistics e le decine e decine di sette cristiane. No. Mi riferisco alla modernità che finalmente rendeva protagonista la Colombia nella palestra internazionale insegnando ai colombiani a riconoscersi, scritti nella voce, i colori, le danze e le immagini con cui i loro artisti e scrittori li interpretavano e rappresentavano sui migliori palcoscenici della cultura internazionale.

Il 1951 è per García Márquez l’anno di Cartagena, città dove ritorna e fonda, dirige, redige, distribuisce e seppellisce i due – o i sei? – numeri di Comprimido, “il primo periodico metafisico del mondo”, stando alle sue parole. Un fugace e intenso esperimento personale realizzato in totale autonomia, come breve e sostanzioso fu il soggiorno a Cartagena e Barranquilla. Infatti, una lettura attenta dei 438 testi pubblicati da García Márquez, consente di capire l’ampio respiro della prosa e la lungimiranza dell’autore, che getta qui le fondamenta di un universo narrativo radicato saldamente nella realtà sebbene si spinga nell’altrove dell’immaginazione. Tanto quanto il suo lavoro giornalistico.

Quella di Cartagena e Barranquilla è una scrittura mirabolante, d’effetto, umoristica e grave; una scrittura oscillante tra la ricerca formale e l’urgenza di definire nuclei tematici, caratterizzata da una profonda generosità e da una vivace curiosità, permeata di tolleranza e umanità. La ricerca stilistica alterna, in questi inizi, due parametri: le greguerías di Ramón Gómez de la Serna (metafora + humor = greguería) e la raffinata poesia del gruppo bogotano “Piedra y Cielo”. Ciò spiega la costante ricerca di più affinate modalità retorico-espressive e il perfezionismo formale che fanno di García Márquez un raffinato e ineguagliabile scrittore, cui interessa non solo redigere, ma più ancora strutturare il discorso. L’uso della greguería consente di capire lo strampalato umorismo del suo lavoro di quegli anni. Per l’aspirante scrittore diventa prioritario fissare le poetiche e soprattutto raggiungere la padronanza assoluta della lingua e del linguaggio.

Il giornalismo diventa una ginnastica stilistica necessaria per catturare l’attenzione del grande pubblico. Le necessità formali si equilibrano in García Márquez quando si prefigge, come scrittore, di arrivare alla conoscenza del soggetto/oggetto dei suoi testi. Equilibrio che sta trovando nei racconti letterari in cui indaga sulla morte, il tempo, la solitudine, la miseria, il viaggio, il dolore. In sintesi estrema: sull’Umanità. Ma riesce anche a far sì che le sue finzioni non prevalgano sul lavoro giornalistico e mostrino la sua capacità innata di elaborare tecniche e modalità narrative assimilate da autori quali Kafka, Hemingway, Woolf e Faulkner. Al contempo, si rapporta alla cultura popolare attraverso l’ironia per approdare infine alla riscrittura della realtà politica e sociale latinoamericana con ingredienti autobiografici e una decisa fantasia. Non si tratta, come si vuole superficialmente, di realismo magico, un’etichetta che penalizza e limita la sua opera letteraria.    

Il 1952 è l’anno in cui fallisce l’esperimento avviato dal neo direttore del quotidiano El Nacional di Barranquilla, il suo coetaneo Cepeda Samudio, che gli aveva affidato l’edizione serale. Sono giorni difficili che precedono al suo trasferimento a Bogotá, in cui si alternano la letteratura:

Ansioso di trarre profitto dal tempo perduto provai a buttar giù allo scorrere della macchina da scrivere qualcosa di valido con gli stralci che mi avanzavano da tentativi precedenti. Frammenti di La casa, parodie del Faulkner truculento di Luce d’agosto, dalle piogge di uccelli morti di Nathaniel Hawthorne, dai racconti polizieschi troppo ripetitivi che mi provocavano nausea, e di qualche vernacolo che mi rimaneva dal viaggio ad Aracataca con mia madre. Li lasciai scorrere a volontà nel mio ufficio cadente, dove non restava altro che la scrivania traballante e la macchina da scrivere con le ultime energie, fino a raggiungere di un solo colpo al titolo finale: «Un día después del sábado». Un altro dei pochi racconti miei di cui rimasi soddisfatto sin dalla prima stesura.

E il timido e insicuro approccio al reportage:

Álvaro Cepeda [Samudio], Germán [Vargas] e Alfonso [Fuenmayor], come la stragrande maggioranza degli habitué del Japy e del Caffè Roma, mi parlarono bene di La Sierpe quando “Lámpara” pubblicò il primo capitolo. Erano d’accordo sul fatto che la formula diretta del reportage fosse adeguata a un tema che si trovava sulla pericolosa frontiera di ciò che non poteva essere creduto. Alfonso, col suo stile tra lo scherzoso e il grave mi disse allora qualcosa che non ho mai dimenticato: «La credibilità, mio caro maestro, dipende molto dalla faccia che si fa nel raccontare» […] Álvaro Mutis era sicuro che quel tipo di reportage potesse assestare un colpo secco al costumbrismo scialbo con le sue stesse armi.

García Márquez fa tesoro degli insegnamenti che Cepeda Samudio gli porta nel 1952 da New York, da dove rientrava dopo aver studiato giornalismo alla Columbia University. E soprattutto si interroga su come trovare nuove metodologie, linguaggi inediti e forme innovatrici per comunicare meglio e con efficacia. In letteratura, si sforza di assimilare ciò che può essere imparato da Borges, Sarte, e Camus, come nel frattempo stava già facendo con Joyce, Faulkner, Woolf e Dostoevskij. E non si dimentichi, nel modo più assoluto, che García Márquez con i suoi amici del Gruppo di Barranquilla, accaniti lettori, divoravano sotto la guida dei loro maestri, gli scrittori Ramón Vinyes (il saggio catalano della saga di Macondo) e José Félix Fuenmayor, mentre tutta la letteratura classica e quella dell’antichità greco-latina, Omero e Sofocle, Virgilio e Ovidio, avevano già preso il sopravvento se non fatto strage in loro.

 

Colombia / Sucre, dipartimento di Sucre. Piazza della cittadina dove la famiglia García Márquez ha vissuto tra gli anni Trenta e Quaranta. La tragica uccisione del giovane Cayetano Gentile Chimento, di origine italiana, ispirò a García Márquez la figura di Santiago Nasar nella sua "Cronaca di una morte annunciata". Nella fotografia si vedono tre edifici: in quello di destra è stato ambientato uno dei racconti de I funerali della Mamá Grande; in quello al centro abitava il giovane assassinato; nell'ultimo ha vissuto la famiglia Garcìa Màrquez.


Nelle Jirafas, Septimus (il suo pseudonimo woolfiano), si esercita e destreggia nel riciclaggio di notizie curiose e strampalate che arrivano tramite i dispacci delle agenzie internazionali. Con arguzia si diverte a scegliere quelle più beffarde. Si tratta di un giornalismo rivoluzionario se si pensa che, come redattore, è costretto a esagerare un fatto insignificante per riuscire a trasformarlo in una notizia attraente e verosimile, per sua scelta personale, nel contaminato campo della cultura. In altre parole, García Márquez capisce molto presto che deve imparare a manipolare la realtà e, male che vada, reinventarla, assoggettandola alle sue personali necessità estetiche che a lungo andare avrebbero definito il suo personalissimo stile. Ed è qui che la lezione degli altri componenti del nucleo di Gruppo di Barranquilla diventa imprescindibile. Quelle di Alfonso Fuenmayor e Germán Vargas riguardano l’etica e l’estetica giornalistica, l’opinione e non il giudizio, l’obiettività e non la speculazione mentre, con Álvaro Cepeda Samudio, come lui scrittore e giornalista, interagisce in modo sinergico: entrambi si orientano reciprocamente, in campo letterario, ad annunciare ed essere protagonisti della più audace rivoluzione del racconto e del romanzo mai avvenuta in Colombia.

Amici fraterni e giornalisti; entrambi narratori e romanzieri; tutti e due cultori del cinema e della vita, si aprono a realtà tanto vicine quanto distanti: rurali e suburbane García Márquez, e indubbiamente urbane Cepeda Samudio. E con un unico denominatore in comune: l’onda onirica, vitale, esistenziale e sperimentale, non solo tematica, ma anche tecnica. In questo ambito, tutti e due indagano sulle frontiere dei generi, sulle soglie tra vita e morte, sul sogno e la veglia, la ragione e la follia, la malattia e il benessere, la violenza e la tenerezza, l’ideale e l’utopia, la frustrazione, la disperazione, la solitudine e l’amore. E il potere come asse portante.

García Márquez e Cepeda Samudio, leggendosi, sostenendosi e criticandosi a vicenda, raggiungeranno risultati sorprendenti, riuscendo così a dimostrare, una volta per tutte, la vitalità della periferia nei confronti di un centro escludente; rivalutando i poteri della magia e dell’esaltazione onirica, la lucidità e il disincanto. Tutti e due, radicati nelle tradizioni e nelle culture del Caribe, nella ricchezza prodotta dal meticciato americano, nell’assimilazione degli insegnamenti dei loro maestri. Ed entrambi raggiungendo risultati straordinari, come il libro di racconti Todos estábamos a la espera di Cepeda Samudio (1952) e Los funerales de la Mamá Grande di García Márquez (1962) – i due libri di racconti più importanti della nostra storia letteraria recente. I due scrittori fanno ancorare la loro letteratura nello studio, nell’osservazione e nell’analisi del potere, della violenza, della dissennatezza e dell’arbitrarietà. Entrambi, con due capolavori del nuovo romanzo latinoamericano, con voce personale e autonoma, diventano i cronisti e i poeti di un orrore come quello della Masacre de las bananeras del 1928: entrambi con romanzi, Cepeda Samudio con La casa grande (1962) e García Márquez con Cent’anni di solitudine (1967) e tutto il ciclo di Macondo.
I due fraterni amici, si occupano insieme, sotto la direzione di Cepeda, del primo prodotto cinematografico d’autore in Colombia, il film La langosta azul (1954). Esperienza che ripeteranno qualche anno dopo, quando gireranno Mi carnaval para toda la vida, regia di Cepeda Samudio, sceneggiatura di entrambi e che vede Gabo al lavoro come cameraman.

 

Valledupar, dipartimento del Cesar. Mercoledì delle Ceneri nella cattedrale.

Tra Cartagena e Barranquilla García Márquez realizza i primi esperimenti come redattore e conclude il periodo d’iniziazione, che si concretizza in nove racconti, cinque frammenti narrativi, un romanzo, due in corso di scrittura, diversi copioni per il cinema e un volume di seicentoventitre pagine di testi giornalistici con i quali sprofonda nella conoscenza della vita, la musica, la letteratura, il folklore, i costumi e l’arte del Caribe, della Colombia, e dell’America (o dell’Omerica?) Latina.

Grazie a queste esperienze, García Márquez avvia il lungo processo di esercizio di immaginazione, fantasia, memoria e oblio con cui inizia la stesura di El mamotreto (“Il fagotto”) come amava definire il manoscritto, del più volte inutilmente annunciato romanzo La casa, che si porta appresso per tanti anni in giro per il mondo, legato con una delle sue cravatte sgargianti. Questo testo, che finirà per “smarrirsi”, ben 14 anni dopo diventerà in Messico Cent’anni di solitudine, e il suo autore potrà coronare la realizzazione di un sogno. Sogno che negli anni immediatamente successivi, con La cándida Eréndira y su abuela desalmada, culminerà nel 1975 con l’imponente, e per me, suo terzo grande capolavoro: L’autunno del patriarca.

Reduce di questi intensi anni di vita personale e professionale García Márquez si prepara quindi a entrare nella seconda e avventurosa tappa della sua carriera che va da gennaio 1954 a maggio 1955. In mezzo, il significativo intervallo di tutto il 1953 in cui, felice ma squattrinato, viaggia in lungo e in largo la Costa caraibica come venditore ambulante di enciclopedie. Suo porto di fortuna continua a essere Barranquilla e nel suo fertile e umano universo Caribe resta lui, l’osservatore attento, il poeta, il suonatore di fisarmonica mancato e l’Antonio Pigafetta, viaggiatore e cronista segreto, accompagnatore di Sebastiano Magellano nella circumnavigazione del mondo.
Il Caribe, García Márquez non solo lo visita da cima a fondo, a piedi, in bicicletta, in camion sconquassati, cavalcando muli o asinelli o in canoe improvvisate ma attraversando anche geografie umane e musicali, linguistiche e culinarie, immaginative e primordiali. Dall’Atlantico alla Guajira, da Córdoba a Sucre, dalle rive del Magdalena ai ghiacciai della Sierra Nevada, i leggendari Wayúus e i nocchieri del fiume Cesar, Caracolí e Chimichagua, Cereté e Montería, niente e nessuno sfugge ad un García Márquez, deciso a percorrere il camino della conoscenza di sé, degli antenati e delle genti antiche, attraverso cui consolida la propria mitologia personale.

Senza messianismi e con arguzia, il cronista attento e curioso tocca con mano la rigidità del freddo e la canicola, il dolore cimarrón e la nostalgia arahuaca, la prosperità delle donne e i silenzi amerindi, la prepotenza dei latifondisti e la tenerezza dei bambini, la saggezza degli anziani e la violenza dei coloni. Vede i pianeti sorgere e calare sulle cime delle Ande; la luce accecante delle miniere di Manaure, le policrome corralejas di Majagual, i carnevali di Barranquilla, le Ferie e Feste di San Jacinto; e registra, per sempre nella sua memoria, i verdi incommensurabili delle savane, il cobalto diafano dell’infinito, il giallo oro dei deserti e l’immensità azzurra dell’oceano. Impara i lamenti, antichi e nuovi di Francisco el Hombre e di Rafael Escalona; i miti dell’uomo-coccodrillo e del’affascinante Dionea. Esplora i sotterranei della miseria e i labirinti dell’opulenza, e impara dalla bocca del giullare di Cereté che nella vita tutto è “O con odio o con amore, ma sempre con violenza”, come voleva Cesare Pavese. Tuttavia, per comprendere la sua scrittura, bisognerebbe iniziare a vedere il mondo, la natura, i fiumi e il mare con lo sguardo illuso di García Márquez; occorrerebbe poter cogliere con la sua sensibilità, la bellezza e la stoltezza della specie umana ed, infine, con la sua intuizione smisurata, leggere quella letteratura fantastica che sono le Cronache della Conquista spagnola. Bisognerebbe poter immaginare con la sua capacità visionaria, il dramma, vissuto tragicomicamente, tra il dolore e l’amore, da Don Chisciotte per scoprire la profonda umanità dell’uomo e dello scrittore.
A dicembre del 1953, su invito dell’amico Álvaro Mutis, García Márquez ritorna a Bogotá e a febbraio del 1954, entra come redattore di El Espectador. Ormai non è soltanto l’autore di racconti, che pubblica saltuariamente alle pagine letterarie. Ma, riconosciuto dai cugini Jorge  ed Eduardo Zalamea Borda – entrambi scrittori e i primi a pubblicarlo – come un’autentica promessa della letteratura colombiana, inizia la seconda e definitiva tappa formativa che si prolunga per dodici mesi e lo vede diventare cronista e reporter di grido nonché critico cinematografico. Le problematiche dell’intero paese diventano per lui soggetto e oggetto della sua scrittura sempre più diretta, raffinata e precisa ma anche più ironica e impregnata di humor. Giornalismo e letteratura si rispecchiano, e tuttavia per García Márquez è necessario andare oltre, superare se stesso. Ed è allora che si orienta verso nuove ricerche, l’indagine detectivesca e l’investigazione poliziesca. Inizia così a tingere di nero e di scarlatto i suoi servizi giornalistici fino a trasformare radicalmente l’impalcatura poetica, strutturale, stilistica e linguistica della propria scrittura.
La ricerca propende, nei risultati concreti, a far diventare più terso e trasparente il racconto e a trattare sempre in modo più articolato l’aneddoto. Accade però che i suoi servizi comincino, com’era inevitabile, a dare fastidio al regime dell’ultimo dittatore militare della storia colombiana, paese di “integrati”, dove diventare “apocalittico”, come lui e pochi altri, e osare pensare ma, soprattutto dire ciò che si pensa, ha un costo.  Costo veramente alto: la marginalità, il silenzio, l’esilio e, se è il caso, la morte. Tutto ciò, il Nobel colombiano lo ha toccato con mano e di tutto ha pagato il prezzo, in prima persona.

 

Santa Cruz de Mompox, dipartimento di Bolívar. Una stanza della “Casa della cultura”, la più antica della bellissima cittadina coloniale, sulle rive del Rio Magdalena, dove Francesco Rosi girò nel 1987 alcune scene di “Cronaca di una morte annunciata”.

Fino al 1955, García Márquez è conosciuto e riconosciuto da un pubblico lettore sempre più ampio, esclusivamente per la serie di celebri reportage, e non come scrittore di racconti, di novelle, insomma di fiction, nonostante che dal 31 maggio di quell’anno fosse in circolazione Foglie morte. La Colombia comincerà a conoscere García Márquez scrittore, molto parzialmente, solo a partire dal 1962. Comunque, il giornalista e il romanziere sono inscindibili.  García Márquez viene “invitato” a lasciare la Colombia ed è “spedito” in Europa. Come vuole l’aneddoto, mille volte evocato, nelle parole di Luis Cano, suo direttore: “Gabito, vai a Roma perché dicono che il Papa potrebbe morire di singhiozzo”. Anche se, come scrive lui stesso: “Avevo chiaro che il giornalismo non era il mio mestiere. Volevo essere uno scrittore diverso”.

Il 15 luglio 1955 García Márquez parte da Barranquilla in direzione Parigi. Domenica 17 è a Ginevra per seguire “ la conferenza dei quattro grandi”, reportage che pubblica dal 18 al 31 luglio en dieci puntate. In agosto è a Roma, soggiorna nel quartiere Parioli e lavora senza sosta nell’investigazione in fonti di seconda e terza mano che gli consentiranno di scrivere in Italia a posteriori e, a mio parere, uno tra i dieci migliori servizi giornalistici della sua carriera, un vero e inimitabile racconto poliziesco: Lo scandalo del secolo: il caso Wilma Montesi.

A settembre è a Venezia come giornalista accreditato presso il Festival del Cinema, che consegna in sette puntate e scrive quello che si ritiene il più bel pezzo dedicato all’Italia: Domingo en el Lido de Venecia. Un tremendo drama de ricos y pobres, scritto sulla scia del neorealismo italiano e il più bel articolo di costume dedicato all’italiano medio del dopoguerra.

A ottobre è a Vienna da dove parte in viaggio per la Polonia e la Cecoslovacchia, su cui scriverà soltanto nel 1957 e pubblicherà appena nel 1959. A novembre è di nuovo a Roma e tra il 13 e il 27 pubblica delle eccellenti cronache su Vienna. Tra il 4 e il 28 dicembre scrive, sempre su El Espectador di Bogotá gli ultimi nove servizi dedicati all’Italia: uno dedicato a Vittorio De Sica, uno al tenore colombiano e suo amico Rafael Ribero Silva in tournée europea, quattro a Papa Pio XII e tre, esilaranti,  sulla “guerra delle calze” tra Gina Lollobrigida e Sofia Loren. A Roma comunque studia cinematografia con Roberto Rossellini e stringe amicizie solide con Michelangelo Antonioni, Monica Viti, Lina Wertmuller, Marcello Mastroianni, Francesco Rosi, Gillo Pontecorvo, Bernardo Bertolucci e artisti e scrittori di vario genere. L’Italia del suo fraterno Cesare Zavattini resterà nel suo cuore come il paese della bellezza, dell’arte e del sommo genio.

A Natale è a Parigi e leggendo Le Monde viene a sapere che il regime del generale Rojas Pinilla ha fatto chiudere El Espectador. Tra il 18 marzo e il 5 aprile 1956 pubblica in 17 puntate il suo secondo grande servizio europeo: El proceso de los secretos de Francia (Affaire des Fuites) nel quotidiano El Independiente di Bogotá. Il 15 aprile 1956, García Márquez interrompe drasticamente la sua collaborazione con la stampa colombiana e, senza mezzi di sostentamento, decide di fermarsi ancora in Europa dove vive il periodo più difficile della sua vita ma di straordinaria importanza per la produzione letteraria. A Parigi, in una soffitta senza riscaldamento della rue Cujas, senza lavoro né un soldo in tasca scrive il suo primo capolavoro, il romanzo El coronel no tiene quien le escriba e Los funerales de la Mama Grande e si reca a Londra dove avrebbe voluto imparare l’inglese.

Nel dicembre 1957 finisce il soggiorno europeo e si trasferisce a Caracas. La realtà del Vecchio Mondo non lo interessava più di tanto, gli sembrava “letteratura da quattro soldi” e in lui rimanevano intatti i valori della sua terra natia, dei Caraibi, della Colombia e di tutto il continente. L’immagine che dà dell’Europa Occidentale è quella di un mondo in piena decadenza, vicina allo sgretolamento totale, i cui insegnamenti sembrano limitarsi ai contributi del cinema e dove un latinoamericano, se non si tira indietro né si fa impaurire, può raggiungere la celebrità e il successo. Forse, proprio per questo, i due più importanti servizi giornalistici europei si occupano di famosi casi giudiziari. Non solo perché costituivano un ottimo materiale giornalistico ma perché in essi vedeva l’immagine nitida di un mondo che si sbriciolava.

 

Aracataca/ Il monumento a Remedios la bella, all’ingresso del paese, ricorda uno dei personaggi indimenticabili del romanzo "Cent'anni di Solitudine."

Ciò consente di capire alcune questioni importanti. A García Márquez interessano il mondo, la cultura, le persone, la storia, il passato e il presente, ma dall’ottica di un latinoamericano. Una visione critica e irriverente, anche provocatoria. Un’Europa in piena ricostruzione non dovette in questi anni sembrargli gradevole né particolarmente affascinante, forse per il contrasto che suscitava in lui l’Europa dei libri e quella che vedeva giorno dopo giorno. Non gli interessava l’Europa in senso tradizionale, rigida e xenofoba, arrogante e autosufficiente. Perso l’interesse, rivolge lo sguardo al quotidiano e al marginale, puntando l’occhio, con idiosincrasia caribe, verso tutto ciò che possa rendersi utile per crescere come scrittore, senza argomentazioni accademiche né ideologismi, per documentare la morte di una civiltà. Morte che intravvede dappertutto. Quella di García Márquez è una visione spietata e folkloristica della vecchia Europa.

Ciò che viene di seguito è la stessa storia che si ripete all’infinito e che ormai, con toni e sfumature differenti, è alla portata di tutti,  e non è altro che l’esplosione della vena creativa che si può comprendere meglio se si legge la sua produzione dei primi anni. Un universo letterario già prefiguratosi in modo palese, nel lavoro di giornalista e scrittore tra il 1948 e il 1954. I suoi anni di Cartagena, Barranquilla e Bogotá, accessibili nei primi due dei cinque volumi della sua opera giornalistica, titanico lavoro di compilazione, editing e studio critico realizzato dal critico francese Jacques Gilard: Textos costeños (Scritti costieri) ed Entre cachacos (Gente di Bogotá) entrambi pubblicati da Mondadori.

Accade anche che con la sua opera García Márquez si accosti a quella di Cervantes. L’esperienza di una lettura parallela dei loro capolavori è sorprendente: leggendo la saga della stirpe dei Buendía e quella di Sancho e Don Chisciotte non si può smettere di ridere ma, una volta compresa, mai si smetterà di piangere o almeno di riflettere. A dimostrazione che dire realismo magico è una boutade prodotta da una corporazione, quella della critica, incapace di comprendere e costretta  invece a etichettare e a vaneggiare, per piegarsi poi impotente ad accondiscendere servilmente alle irrazionali leggi del mercato editoriale e alle sue necessità, con le dovute e necessarie eccezioni, di smerciare carta sporca. Altro che realismo magico. Cervantes e García Márquez dimostrano con la loro scrittura – leggera come un pas à deux e, nel contempo, densa come il magma di un vulcano – che di magico e risibile c’è ben poco sul pianeta perché sul reale magico predomina il reale spaventoso. Come sono diventati la vita e il mondo, per opera della sconcertante e sempre inattesa specie umana, soggetto e oggetto di tutta una vita dedicata alla letteratura dallo scrittore colombiano che continua a vivere nei suoi testi.

 

Fotografie tratte da Macondo. The World od Gabriel García Márquez (Postcart) di Fausto Giaccone

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