Un posto per tutti / Vita, architettura e società giusta

6 Febbraio 2019

Un posto per tutti. Vita, architettura e società giusta è un libro multiforme. Richard Rogers ha saputo abilmente intrecciare il racconto autobiografico alla descrizione dei suoi celebri edifici, raccontando con tono intimo i legami familiari, le amicizie, gli amori, le sorprese e le tragedie che hanno costellato la sua lunga vita. 

Tuttavia il libro è molto di più di un’autobiografia. I fatti forniscono il pretesto per una riflessione ad ampio spettro riguardo il ruolo degli architetti nella società contemporanea e le sfide che li attendono nei prossimi decenni. Sfide individuate anzitutto nel risparmio energico e nel contrastare l’abbruttimento delle periferie dei maggiori centri urbani, verso i quali nei prossimi cinquant’anni si concentrerà una percentuale sempre maggiore della popolazione mondiale. 

 

Raramente nel panorama delle ‘archistar’ contemporanee si ha la possibilità di apprezzare lo stringente legame fra architettura e impegno civile che ha caratterizzato la carriera di Richard Rogers. Un ethos ereditato dalla grande tradizione del moderno – trasmessogli anche dal cugino Ernesto Nathan Rogers – e coltivata nella Gran Bretagna del dopoguerra, il Paese delle grandi riforme del governo laburista di Clement Attlee e del Welfare State, quando “il senso di responsabilità sociale faceva sì che alla gran parte dei giovani architetti sembrasse naturale lavorare per lo Stato anziché per le commissioni private”. 

Il libro si apre con la notizia della vittoria al concorso per il Centre Pompidou nel 1971. Senza quell’evento probabilmente oggi non si parlerebbe di Rogers, e del suo sodale dell’epoca, Renzo Piano, come di due protagonisti indiscussi dell’architettura del secondo Novecento. Proprio l’incredibile successo del Beaubourg innescò la fama di Rogers come architetto “high-tech”, consolidata dal successivo capolavoro della sede dei Lloyd’s nella City di Londra. L’impiego espressivo della tecnica e la sperimentazione non convenzionale dei materiali sono le caratteristiche più appariscenti degli edifici dell’architetto inglese. Tuttavia scorrendo le pagine del libro si comprende come, superato il primo sguardo, la creazione di spazio pubblico, e la conseguente capacità creare legami e interazioni sociali, siano i veri cardini della sua riflessione, eredità anche della sua giovinezza italiana.

 

Rogers è esplicito nell’affermare il peso che nella sua vita hanno avuto la nascita a Firenze, i viaggi nell’immediato dopoguerra a Trieste, Venezia e Milano, e gli scambi di opinioni con Ernesto riguardo la scelta della carriera di architetto. Senza queste esperienze sarebbe arduo comprendere la successiva tenacia nel voler ricreare, nelle città del mondo, quelle sensazioni e quel peculiare tipo di vita associata che aveva esperito nelle piazze e nei vicoli dei centri storici italiani. Il parvis del Centre Pompidou – indicato significativamente come “piazza” nelle tavole di concorso – l’Underwriting Room dei Lloyd’s, lo slargo e la trasparenza del palazzo di giustizia di Bordeaux, il recupero di Coin Street, il grande piano “London As It Could Be” etc. materializzano l’intima fusione fra la cultura urbana italiana e il gusto per la sperimentazione tecnica, la prefabbricazione e l’impiego espressivo dei materiali, tutti insegnamenti derivati dalla formazione anglosassone all’Architectural Association School di Londra e nel viaggio di due anni da una parte all’altra degli Stati Uniti. 

 

London As It Could Be.

 

L’impegno professionale e la sua dimensione di impresa collettiva –  nel libro è ben raccontato l’apporto dei tanti collaboratori e amici ai vari studi associati che Rogers ha fondato nel corso della sua vita – ha rappresentato la controparte della militanza politica nelle fila dei laburisti, e dell’impegno per migliorare le condizioni abitative di Londra e della Gran Bretagna. A capo della commissione governativa per arrestare il declino urbano delle città britanniche – intitolata da Rogers “Toward an Urban Renaissance” – l’architetto inglese ha rilanciato il modello di centri urbani compatti e interconnessi da efficaci e capillari reti di trasporto pubblico, dove dalla qualità dei marciapiedi, delle piazze, dei parchi e dei fiumi si misuri “il livello di civiltà di una città”. Dai raffinati congegni tecnici in cui erano riassumibili le prime opere degli anni Sessanta, Rogers ha distillato negli anni la direzione da imporre alla sua architettura: i grandi complessi residenziali, gli edifici per uffici e per la cultura, gli stabilimenti industriali degli ultimi anni sono tutti tesi oltre l’architettura, nella precisa volontà di innescare processi di riappropriazione dello spazio pubblico delle città. 

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