Wes Anderson: The look of love

16 Giugno 2014

 

Non è certo sorprendente, tra i vari tagli possibili per un’analisi estetica dell’opera di Wes Anderson, soffermarsi sul legame che il suo cinema intrattiene con la moda. È sufficiente dare un’occhiata ai tumblr, ai più svariati social network dove il pubblico si fa autore rimaneggiando le immagini consegnate al suo sguardo, per percepire come la ricezione e il ricordo che sopravvive ai film andersoniani passi soprattutto attraverso gli outfit singolari dei suoi protagonisti.

 

Scompaiono i volti, tele bianche incorniciate da acconciature e abiti indelebili nella memoria degli spettatori, che attraverso un blazer, degli occhiali da sole, la giacca di una tuta o una fascia da tennista, riattivano immediatamente le emozioni provate. Solo la musica nel suo cinema possiede eguale forza evocativa e non è certo casuale che entrambe siano gli elementi espressivi, attigui e complementari al mezzo cinematografico, coi quali restituire un immaginario privato, giustamente definito vintage, essenziale per la sua poetica.

 

Perché se appare ormai (quasi) definitivamente sdoganato dal peccato di leggerezza e superficialità – di cui vengono tacciati anche gli autori più prossimi al suo cinema: Sofia e Roman Coppola o Noah Baumbach, da lui spesso prodotto – è indubbio che il cinema di Anderson viva in gran parte di questo look bric à brac, nell’accezione vittoriana del termine, composto di infinite variazioni decorative su oggetti da collezione standardizzati.

 

Una serialità data dai temi attorno a cui questo bizzarro texano dalla sensibilità europea si muove da sempre, dei quali la moda diversifica la foggia, creando sempre nuovi scenari per ossessioni che si presentano immutate di film in film. Incatenando a volte tra loro le pellicole, grazie a dettagli puramente visivi, come il basco rosso di Max Fischer in Rushmore, che anticipa i berretti di Steve Zissou e del suo team, vero e proprio cliffhanger visuale nel segno dell’ispiratore Jacques Cousteau, in grado di instillare nessi, corsi e ricorsi.

 

 

Figli di padri assenti, fuggiti o morti, o ancora rinnegati e sostituiti (la menzogna di Max sul genitore neurochirurgo anziché barbiere), adulti immalinconiti al punto da sembrare bambini in corpi cresciuti, cosa differenzia i tre ex enfants prodiges dei Tenenbaum dai fratelli Whitman di Darjeeling Limited, o Max e Herman Blume da Ned e Steve Zissou? Sono i mondi abitati, così lontani e avulsi da una precisa collocazione spazio-temporale, da innescare il paradosso di una storia sempre nuova ma capace di suscitare in maniera subliminale dei déjà vu emotivi.

 

Allora diventa chiaro come il legame dell’apparato fashion con il cinema andersoniano sia tutto fuorché esteriore e decorativo, ma lo strutturi, anzi, dalle fondamenta. A ben guardare, il meccanismo attivato da Anderson non fa altro che replicare la missione stessa della moda: ripescare dal passato forme, volumi, colori e rivestirli di nuovo, orientando il gusto del pubblico, come fosse sempre una novità, qualcosa di mai visto.

 

In questo senso il cinema di Anderson è quanto di più vicino, come manufatto, alla creazione dei grandi stilisti: il suo è un cinema che, pur veicolando un messaggio forte e compatto, tanto da ripetersi come motivo ossessivo – e lo stesso regista ha dichiarato in un’intervista: «Vorrei sempre fare qualcosa di diverso eppure ogni volta ho l’impressione di fare sempre la stessa cosa» –, viene ricordato prima di tutto per gli abiti, le acconciature, per questo look eccentrico e fuori dal tempo, lontano dal nostro mondo quotidiano, ma istintivamente prossimo a un immaginario pop consolidato.

 

Benché meno iconico di altri suoi lavori, Fantastic Mr. Fox è il film che meglio rappresenta il paradosso dell’immaginario vintage di Anderson. Ricrea fedelmente, con puntiglio quasi maniacale, il mondo dello scrittore per l’infanzia Roald Dahl, ma al tempo stesso lo porta in vita con le tecniche più avanzate della stop motion.

 

Lo stesso approccio di Anderson all’universo dello scrittore britannico passa per una sorta di transfert stilistico, che lo porta a visitare i luoghi abitati da Dahl, a insediarsi nello studio della Gipsy House, dove si ritira a scrivere la sceneggiatura di Mr. Fox ricalcando le abitudini quotidiane del suo modello, sedendosi alla stessa scrivania, toccando le sue penne, la sua pipa, perché i sentimenti, le emozioni, sono sempre incisi, scolpiti negli oggetti. O meglio, cuciti, giacché è soprattutto negli abiti che vengono trasmessi quei vezzi, quelle “tare” ereditarie date da un’affinità elettiva più che genetica, esplicitata sul piano del gusto.

 

La foggia tipicamente inglese dei completi dell’autore di La fabbrica di cioccolato e James e la pesca gigante, per citare due fra le sue storie più note trasposte sul grande schermo, viene ripresa da Wes per il suo stesso vestiario, rendendo la volpe protagonista un suo perfetto alter ego animato. Dallo scrittore al cineasta al personaggio: l’abito, disegnato e realizzato, è idea e materia al tempo stesso, capace dunque di attraversare il piano della realtà e quello della fantasia, ambiti che il cinema di Anderson non fa che intersecare continuamente, raccontando i fervidi mondi interiori dei suoi personaggi, così poco pragmatici.

 

Che siano sognatori persi dietro a un’avventura ideale – come la caccia allo squalo giaguaro di Zissou o l’esperienza educativa della Rushmore, che il giovane Max vorrebbe espandere e dilatare il più possibile – o all’esclusività di un sentimento, dalla passione mai sopita fra Richie e Margot Tenenbaum ai ragazzini in fuga di Moonrise Kingdom, con i loro truffautiani anni in tasca, tutti i personaggi andersoniani vivono in un universo che come quello del loro creatore ha introiettato esperienza reale e frammenti di visioni, letture, ascolti.

 

Pur ispirato in larga parte agli anni Sessanta e Settanta, il décor del cinema di Wes Anderson risulta costantemente spiazzante perché riesce a essere a un tempo il massimo della modernità e del classicismo, un universo sospeso in cui l’immagine di luoghi e personaggi – grazie anche all’ausilio di musiche particolarmente evocative – risplende dell’allure dei “bei vecchi tempi” risultando però sempre incredibilmente cool, in grado di dettare mode e imprimersi nell’immaginario contemporaneo come nuovo e originale riferimento estetico, spesso avulso e decontestualizzato dai referenti originari.

 

Dopo gli esperimenti iniziali di Bottle Rocket, che forgia più i tipi attoriali che non il loro stile, è in Rushmore che inizia a farsi largo questa tendenza, tutta andersoniana, del protagonista “diverso” già a partire dal look. Come nota infatti Jacques Manuel, analizzando la nascita stessa del costume nel cinema hollywoodiano:

Più ancora del personaggio l’abito esprime uno stato d’animo; attraverso l’abito ciascuno di noi tradisce, in tutto o in parte, la personalità, le abitudini, i gusti, il modo di pensare, il suo umore del momento, quello che si accinge a fare.

 

Tenendo sempre a mente questo precetto fondamentale alla base del rapporto tra moda e cinema, Anderson si affilia più al cinema classico che non a quello contemporaneo, recuperando il ruolo iconico dell’abito proprio della Hollywood dello Studio System, in cui a ogni genere e tipologia di personaggio corrispondevano tratti distintivi inequivocabili, dalla flapper della screwball comedy alla dark lady del noir. Lo scarto rispetto al cinema classico sta semmai nell’aver introiettato i differenti generi all’interno di un unico contenitore, di un universo che fa capo unicamente al suo autore, bambino-despota deciso ad aprire per qualche ora al pubblico la sua stanza dei giochi.

 

 

Del resto, l’infanzia è la dimensione privilegiata in cui si muove la fantasia dell’autore. La stessa tecnica di un look unico che contrassegni i protagonisti dall’inizio alla fine del film viene mutuata dalle letture per i più piccoli, dalle illustrazioni delle fiabe al fumetto, per facilitarne la riconoscibilità. Ma allo stesso tempo, in Anderson, è indice dell’eterna fanciullezza di personaggi bloccati nell’infanzia, irriducibili all’età adulta, di cui, di nuovo, I Tenenbaum è il film-manifesto.

 

Bambini vestiti da adulti – Margot in pelliccia sembra davvero una bambina nei vestiti della mamma, o, al loro opposto, adulti in divisa ritratti come bambinoni cresciuti – gli scout di Moonrise Kingdom – i costumi dei personaggi andersoniani comunicano il loro disagio, non tanto nei confronti del mondo esterno – sempre fonte di meraviglia, di scoperta, nel quale si tenta spesso di fuggire, per una precoce avventura sentimentale o un’epica caccia melvilliana – ma piuttosto verso gli spazi chiusi, con cui intrattengono un legame conflittuale.

 

 

Se la casa è vissuta infatti come stanza dei giochi – che spuntano ovunque, anche negli stanzini (I Tenenbaum) – o come una doll’s house a dimensione umana, è al tempo stesso l’elemento asociale che imprigiona i piccoli protagonisti: come Richie e Margot, rimasti emotivamente bloccati nella tenda per tutti quegli anni, i personaggi di Anderson hanno bisogno di un guscio che li protegga e diventi una seconda pelle. Il suo cinema è una lunga carrellata – testualmente: è quello il movimento di macchina che li introduce – di spazi chiusi.

 

Luoghi che sono chiamati a riflettere il carattere peculiare di chi li abita, dalla già citata casa Tenenbaum, presentata come vera protagonista, dalle bow-window e la cortina di mattoni, perfettamente in linea col look postmodern del film; fino alla Rushmore Academy, alla flotta Zissou o al Darjeeling Limited, preceduto dall’Hotel Chevalier del delizioso corto introduttivo che Jason Schwartzman arriva letteralmente a indossare, mettendosi l’accappatoio giallo che richiama l’arredo della stanza.

 

Gli abiti e le scenografie come segni tangibili di emozioni bloccate, rimosse: il look di Anderson non è mai fine a se stesso, perché questo indefinibile passato-presente, dal fascino nostalgico, è la traduzione più immediata ed epidermica di quel vuoto, di quella mancanza di un centro, rappresentata a livello tematico dalla famiglia, o meglio, dall’assenza di un legame familiare, di una relazione padre-figlio o madre-figlio che è la costante di tutti i suoi film. Una continua metonimia in cui l’oggetto arriva a sostituire il personaggio, come hanno intuitivamente colto i fans dei graphic works su tumblr: i volti sfumano, scompaiono, per lasciare spazio agli oggetti che li definiscono. Finché un padre non arriva a essere rimpiazzato da un set di valigie Louis Vuitton, da una cintura di cuoio o da occhiali troppo grandi, l’unica eredità condivisa dai tre fratelli di Darjeeling.

 

Dalle tute Adidas di Chas agli abiti Lacoste di Margot alle borse Vuitton, si fa pian piano strada nel cinema andersoniano il brand, il marchio reale che spezza la finzione e regala allo spettatore un ponte tra la sua esperienza quotidiana e quella di un universo tanto fiabesco. Non è certo un caso unico nella storia del cinema, basta pensare all’effetto Colazione da Tiffany e alla reciproca pubblicità tra Audrey Hepburn, la sua Holly e Givenchy, maison dell’intramontabile tubino nero. Ma, ancora una volta, Anderson rivoluziona il ruolo della moda nella sua filmografia: sebbene l’uso di marchi reali segni in qualche modo l’irruzione del reale nel fantastico, è sempre il mondo personale dell’autore a prevalere.

 

Quella che irrompe non è la vita tout court ma quella di Anderson, le sue esperienze, i suoi ricordi. Tanto che alla crescente cura del costume e del décor corrisponde la definizione di una poetica in cui si manifesta sempre più la potenza del sentimento autobiografico: come il Jack di Darjeeling, che riesce a comporre un testo ispirato solo quando racconta, pur dissimulando, i suoi fratelli, i personaggi di Anderson iniziano ad assumere connotati riconoscibili e unici nel momento in cui l’autore inizia ad attingere alla sua stessa vita, ai suoi ricordi: è per questo che il primo Bottle Rocket non ha ancora un look riconoscibile – ed è semmai più figlio dei suoi tempi, databile alla moda dei primi anni Novanta – mentre Rushmore, per cui attinge al proprio vissuto liceale, dà inizio a quello stile eccentrico che permette di distinguere da un solo fotogramma un film “by Wes Anderson”.

 

Il suo cinema si fa esso stesso, dunque, una maison, una griffe con il proprio concept. L’incontro con Prada, per cui firma diverse pubblicità, diventa, se non predestinato, quantomeno comprensibile. Entrambi giocano sull’idea di una temporalità duplice che sia da una parte il massimo della modernità e, dall’altra, un richiamo subliminale a forme e gusti del passato, spesso desunti da un comune immaginario letterario e cinematografico. Negli spot diretti per la casa di moda Anderson può quindi portare avanti, come fossero una parentesi o un’appendice, il discorso poetico dei suoi lungometraggi, mentre, nello stesso tempo, Prada inizia a disegnare intere linee ispirate alle immagini andersoniane.

 

 

Candy L’Eau dà modo ad Anderson (e al coautore Roman Coppola) di ricreare, in continuità con tutte le sue incursioni pubblicitarie, da American Express a Stella Artois un nuovo universo personale, i cui riferimenti retrò sono però giocati in modo più esibito in chiave cinefila. Nel primo spot si esibisce in un remake di Effetto notte di François Truffaut, subito segnalato dalle indimenticabili musiche di George Delerue.

 

Interpretando in chiave personale il tema “sogni da realizzare con la carta di credito” come un backstage sul mestiere di regista, Anderson rivela dunque la sua fascinazione per il cinema della Nouvelle Vague, dalla quale in effetti recupera un particolare gusto pop teso a intrecciare continuamente passato e presente, narrazione americana e atmosfere europee.

 

Dopo l’esperienza per Stella Artois, in cui si diletta invece con un immaginario sempre Sixties, ma decisamente più “bondiano” con una spruzzata delle rom-com urbane di Doris Day e Rock Hudson, i tre spot seriali per il profumo di Prada segnano un ritorno al cinema francese. Protagonista una Léa Seydoux chiamata a interpretare una parigina chic e viziata impegnata in un triangolo amoroso con due amici, tra Jules et Jim e Masculin feminin. Il look dei tre protagonisti fonde questo immaginario del cinema francese anni Sessanta in una reinterpretazione dai toni pastello che arriva fino ai macaron e allo chiffon della Marie Antoinette coppoliana o alla sua Miss Dior Cherie.

 

Discorso analogo quello portato avanti da Castello Cavalcanti, in cui il sodalizio con Prada dà origine a un piccolo film, pensato come primo capitolo di una serie di spot. Dal formato standard di Candy L’eau (circa 1´15˝) si passa qui al formato cortometraggio, in cui la pubblicità d’autore si fonde col racconto cinematografico, in un tentativo, sempre più palese, di abolire il confine fra i due linguaggi. L’idea di fondo rimane la stessa: Castello Cavalcanti propone un immaginario vintage che si sposta dal versante francese a quello italiano, in un’idea di cinema sempre più fusionale, capace di viaggiare nel tempo, nello spazio, nella memoria cinefila e nell’immaginario del costume, fondendo Fellini con le canotte e le coppole riportate in auge da Dolce & Gabbana, continuando a ricreare universi paralleli, lontani dalle logiche fisiche, spazi soggettivi dove le visioni diventano materia, proprio come nella moda.

 

Riconoscibile alla prima inquadratura, perfettamente assimilabile a uno dei suoi incredibili protagonisti, Wes Anderson fa della sua stessa figura, del suo nome, uno stile. Ma dietro questi abiti naïf si nasconde un sentimento autentico, una poetica, paradossalmente dispersiva quanto solida, che fa di questo look che si impone allo sguardo e genera mode, un look of love, chiave d’accesso diretta all’innata malinconia del suo cinema.

 

Saggio tratto dall’ebook Wes Anderson. Moonrise cinema a cura di Pietro Masciullo (goWare & Edizioni Sentieri selvaggi, 2014)

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