1922-2022. Manganelli su Manganelli
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Attesa da parecchio, anticipata nei rivoli di testimonianze orali, interviste, aneddoti riportati in saggi e racconti altrui, a cento anni dalla nascita di Giorgio Manganelli (1922-1990) è uscita la sua biografia Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, scritta dalla figlia Lietta per La Nave di Teseo (224 pagine, 18 euro). In una conversazione degli ultimi anni con Graziella Pulce, Manganelli protestava contro un presunto valore intrinseco delle trame, degli accadimenti delle storie: se un libro può essere riassunto e non venirne sminuito, non è letteratura (Lettura d’autore. Conversazioni di critica e di letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto Arbasino, a cura di G. Pulce, Bulzoni, 1988). Non gli si farà dunque il torto di sintetizzare, illudendosi di poter spiegare così la sua opera, i contenuti del libro di Lietta, che con grande impegno ha ricostruito la vita di Manganelli nei suoi episodi salienti.
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L’impegno dichiarato è stato sfrondare un’esistenza dalla sua mitologia che il padre, per primo, nutriva per difesa e depistaggio attorno a sé (in questo senso si possono leggere le sue renitenze all’autobiografia, le considerazioni mezzo ironiche mezzo oracolari come «noi a noi stessi siamo e non possiamo non essere enigma» – Giorgio Manganelli, Cos’è un classico? [1985], in Laboriose inezie, Garzanti, 1986). La formazione universitaria e la militanza partigiana nella sezione di Roccabianca, in Emilia, durante la guerra (grazie a questo libro, abbiamo finalmente qualche dato in più su un periodo lacunoso); l’amore distruttivo con Alda Merini; il trasferimento a Roma (non scappando su una Lambretta come la leggenda impone, ma, più prosaicamente, messo alla porta con le valigie dalla moglie Fausta, che ammette di aver sbagliato a puntare su di lui); il primo incontro nella capitale con la figlia quindicenne, che viene accompagnata dalla madre e si ritrova nel mezzo di una resa dei conti romanzesca fra Manganelli e Gadda; l’analisi con Bernhard e i tentativi di venire a patti con una situazione familiare che Lietta, imperturbabilmente, ci restituisce nella sua esatta dimensione di catastrofe; il precariato intellettuale (quando non si chiamava così, e non era – quasi lo si rimpiange – un oggetto d’elezione della scrittura stessa) barcamenandosi per quarant’anni fra supplenze, assistenze alla cattedra e collaborazioni con i periodici di mezza Italia; i viaggi in qualità di reporter: tutto questo ci viene raccontato non in una qualche versione “definitiva”, ma da un’osservatrice di privilegiata estraneità.
Nel senso comune, le vite d’artista scritte dai parenti più stretti presuppongono una vicinanza, e una conoscenza del soggetto della biografia, a cui gli specialisti non riescono ad arrivare con la pazienza sistematica della ricerca: la biografia di Lietta trova la sua forza precisamente nel disattendere a questa aspettativa. Siamo davanti a una scrittura della negazione, ed è la continuità più marcata fra padre e figlia. Non ci viene restituita l’identità d’artista di Manganelli: sebbene Lietta svolga da anni un lavoro fondamentale di reperimento e riordino dei materiali manganelliani, non accediamo alla fonte della sua creatività, tranne alcune osservazioni sparse, estremamente pratiche, su Centuria, che viene ispirata da una risma di fogli più grandi del normale.
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Non siamo nemmeno di fronte a una ricostruzione delle radici: quella di Lietta e dei suoi genitori è una non-famiglia, ostile e distruttiva, su cui l’autrice fatica a soffermarsi. Manganelli è raccontato dalla biografa con una palese complicità della distanza, che si vede sin dalla scelta degli appellativi: quasi mai «papà», spesso «Il Manga» (come si firmava lui stesso nelle lettere e come viene spesso chiamato, con intesa esibita, dai suoi studiosi). Non stupisce quindi che i passaggi più proficui siano quelli che raccontano epoche in cui Lietta non c’era e Manganelli non era padre, nemmeno in potenza. I cenni dell’infanzia, raccolti per aneddoti e tracce di documenti, restituiscono gli abbozzi di ciò che Manganelli diventerà da adulto.
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Con un certo senso della predestinazione, riconducono Manganelli nel solco della propria leggenda nonostante i tentativi di andare in senso contrario. Per fare un solo esempio, se il piccolo Giorgio non riesce a giocare col meccano, non è un accidente, ma un sintomo: «È il primo duro scontro di mio padre con la tecnica: i bulloni gli sfuggono e lo sfidano, i pezzi meccanici lo guardano con scherno e lo deridono. Sarà uno scontro che durerà tutta la vita e che il Manga non riuscirà mai a vincere» (p. 18). Qui vengono meno le sincere circonvoluzioni di stima, le precisazioni sulla natura del loro rapporto che a volte si sarebbe tentati di interpretare come una freudiana Verneinung («Il Manga, ricordiamolo, non abbandona mai nessuno»).
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All’inverso, il decennio 1980-1990, in cui Manganelli sembra aver trovato una sua dimensione e si rintana nella propria interminabile opera, ci scorre davanti senza fermarsi. Lietta, ormai cresciuta, non si sente più tenuta a inseguire un padre che la sfugge rinunciando anche a respingerla (il breve racconto Il Professore, scritto da Lietta in giovane età e incastonato nella biografia, cristallizza il malessere che l’autrice da anziana cerca di ricomporre). L’inferno, senza combustibile, brucia meno ormai. Al telefono, con una specie di presagio, chiede alla figlia di non dimenticarlo, e muore mancando l’ultimo appuntamento con lei. La sua fine non ci appare l’inveramento di un’esistenza, ma una conferma di poetica, il rientro in una zona confortevole. Non a caso, non ne viene data alcuna ragione, nonostante l’età non certo estrema per l’epoca (sessantotto anni). Non ci sono particolari, solo suggerimenti: Manganelli scompare pochi mesi dopo che Lietta gli aveva annunciato a telefono la morte di Fausta, a seguito di una lunga malattia fino ad allora omessa.
A parte rarissimi refusi e una disposizione in certi tratti caotica (la genealogia familiare di Manganelli e la sua partecipazione alla Resistenza s’accavallano; fra la genesi di Centuria e l’excursus sulle tante donne di Manganelli c’è un passaggio brusco e inspiegato, che si sarebbe tentati di analizzare), Aspettando che l’inferno cominci a funzionare è scritto come una biografia dovrebbe essere: con chiarezza, senza paura di dare fastidio o di riabilitare chi non ne ha bisogno. Il Manga ha tendenze bipolari e psicotiche, teme la malattia mentale e soprattutto di trasmetterla (perciò sottopone anche Lietta, in uno dei loro primi incontri, a un colloquio con Bernhard).
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È anche – punto ancora molto discusso, ma su cui si può convenire, da lettori – misogino. La sua misoginia, per Lietta, è sviluppata sin dai tempi universitari e non declina in età matura. «Anche nei suoi rapporti sentimentali mio padre non ha mai dimenticato di essere misogino», lo nota parlando del rapporto quasi esclusivamente epistolare con Giulia Niccolai, ma vale nel complesso. Il suo sentimento di odio non è quello di chi vede nella donna un uomo mancato, un essere inferiore che si può dominare. Invece, per quanto possa suonare inopportuno questo termine, la sua misoginia è per Lietta profondamente intellettuale e viscerale al tempo stesso. Più che odio si potrebbe parlare di terrore: quel vuoto di fronte alla mancanza di senso di cui Otto Weininger, in Sesso e carattere (1903), trattava.
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Forse Manganelli si sarebbe riconosciuto nelle parole di una scrittrice remota da lui, Simone de Beauvoir, che in Il secondo sesso (1949) illustra come la donna appaia allo sguardo maschilista: «un idolo, una schiava, la sorgente della vita, una potenza delle tenebre; è il silenzio elementare della verità, è artificio, chiacchiera e menzogna» (Simone de Beauvoir, Il secondo sesso [1949], vol. I, Il Saggiatore, 1961). Di sicuro la radice dell’odio, Lietta ne dà conto profusamente, è la madre Amelia. Nell’opera di Manganelli le immagini di matricidio sono ricorrenti e in questo libro, per la prima volta, possiamo avere argomenti empirici. L’episodio, fra i più agghiaccianti del libro, avviene nel primo dopoguerra, quando il padre di Manganelli, afasico e traumatizzato dall’esperienza al fronte, è appena morto.
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Giorgio cerca di uccidere Amelia dopo aver scoperto che lei ha speso per sé i soldi mandati per posta dal fratello Renzo e destinati a curare il marito malato. Rinunciando subito ad accoltellarla, si ripiega in sé e scoppia in lacrime, per l’unica volta, davanti alla figlia piccola. Ad Amelia poi, nel ruolo bifronte di persecutrice e dea ingrata, subentra Fausta. Lo chiariscono i piani di Fausta per la vita matrimoniale, con il concepimento della figlia descrittole dalla madre (!) sostanzialmente come un raggiro ai danni di Manganelli. I raffronti fra il matrimonio di Giorgio e Fausta e quello di una coppia dal rapporto tossico e violento – con Manganelli nei panni, strani ma non del tutto inopportuni, della moglie picchiata da un marito che continua ad amare – chiariscono invece da che parte stia chi scrive.
A dispetto delle apologie di non-mestiere Lietta ha competenza estrema sui materiali di Manganelli, senza esserne specialista: le mancano il gergo degli studiosi, le categorie critiche, le variazioni sul lessico manganelliano, tutti quegli elementi che rendono i saggi su Manganelli generalmente sopra la media degli studi critici sugli autori del Novecento ma segnati da una consanguineità forte. È così che, in certi momenti felici, un’assonanza profonda con Manganelli si avverte e nel volto dell’una finalmente leggiamo i tratti dell’altro. Spesso l’intensità emotiva si rapprende nel grottesco.
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La somiglianza con la faccia “non antropomorfa” del padre viene descritta come segue, e il lettore è spiazzato perché, per il tempo di una riga, non sa se deve ridere con l’autrice o di lei, e non riesce a intuire nemmeno lo stato d’animo di chi scrive una frase simile: «Io stessa, fornita di un’appendice nasale pressoché identica, ho per anni convissuto con la stella di Davide amichevolmente disegnata sui quaderni dalle mie compagne di classe, fino a quando un provvidenziale incidente stradale, distruggendomi naso e mascella, mi ha graziato ».
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Un’ironia macabra autenticamente manganelliana scaturisce dalla giustapposizione dello spettacolo teatrale Kapò sul Lager, che lascia padre e figlia sconvolti, e dello sketch improvvisato il giorno dopo da Manganelli in treno, insieme a Lietta e Augusto Frassineti, su un giovane scemo in viaggio con lo zio («Guarda sio, guarda quante case... ma senti sio, fanno prima le case e poi fanno i buchi delle finestre o fanno prima i buchi delle finestre e poi intorno fanno le case? Eh, sio? Com’è, sio?») – e ci getta nel rimpianto che già Natalia Ginzburg esprimeva su Pavese, quando diceva che il suo senso dell’ironia si era estinto con la sua persona, perché lui non l’aveva trasfuso nelle sue pagine.
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Cosa sarà stato, il Manganelli orale? Quanto abbiamo perso, conoscendo solo i suoi libri? Non sempre, tuttavia, l’affinità ha il ghigno. La subalternità infelice di Lietta ai genitori è specchio di quella che, a sua volta, il giovane Manganelli ha per la madre di Lietta, come documenta un passaggio del genere: «forse l’errore è stato nostro, mio e di mio padre intendo, che abbiamo cercato disperatamente di farci amare da lei, facendola sentire in trappola». Per un momento, i due si guardano a pari.
In un libro ricco nella sua brevità e nelle lacune, restano due desideri. In un inciso Lietta scrive «Un giorno scriverò la mia biografia anzi a dire la verità ho già iniziato a lavorarci, e forse riuscirò a raccontare cosa significhi essere “una nota a margine”». La curiosità di sapere cosa ha significato crescere in un concretissimo inferno del genere, non addomesticato nemmeno dall’arte, aumenta con le pagine: accade di rado, ma accade nelle biografie riuscite, che all’interesse per il biografato subentri l’empatia verso il biografo.
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Speriamo che un giorno Lietta racconti di sé, o che qualcun altro, senza timori, si incarichi di farlo. Il secondo desiderio avrebbe fatto rabbrividire Manganelli. In un panorama audiovisivo in cui proliferano film e serie tv su artisti imprenditori stilisti santi (che attingono volentieri allo stesso repertorio, usano stingere verso l’agiografia laica e si ripagano inevitabilmente grazie ai finanziamenti ministeriali), quando si comincerà a fare un po’ di disseminazione culturale sensata sugli scrittori a noi contemporanei? Su quelli consegnati alla tradizione timide riscoperte d’autore sono in corso da tempo.
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Se gli esiti sono diseguali (Avati su Dante, Martone su Leopardi), certo è il merito di trasmettere un sapere che non può restare confinato nei convegni o nelle letture pubbliche. Non sarebbe assurdo provarci. Il Novecento inizia ad allontanarsi, oggi c’è una folla di persone adulte che non l’ha neanche lambito. Forse il tempo è maturo per raccontarlo a un pubblico più ampio unendo la divulgazione e lo storytelling intelligente. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare potrebbe innescare un film: perché David Foster Wallace sì, con l’adattamento del 2015 di Ponsoldt dal libro-intervista di David Lipsky, e Manganelli no? Forse che Wallace è uno scrittore più facile da trasporre?
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Il libro di Lietta potrebbe essere una porta d’accesso, con un angolo di sceneggiatura già chiaro: una vita vista dalla specola di un rapporto mancato (tema, suona ossimorico ma è la verità, del tutto manganelliano e pop). Qualcuno avvisi il MiBACT: abbiamo dei materiali per provare a saldare ciò che si studia a qualcosa di vivo, prima che l’ultima memoria venga meno e Manganelli sprofondi nella palude della storia letteraria.
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