Speciale
Agenda per il nuovo governo. Stranieri, cittadinanza, integrazione
Da tempo i flussi migratori sono argomento ampiamente dibattuto a tutti i livelli: media e opinione pubblica, scena politica interna, cooperazione europea e internazionale. L’attenzione nei confronti di questo fenomeno si è via via rafforzata nel corso degli anni, specie nel nostro Paese, soprattutto a causa dell’intensificarsi degli arrivi via mare dalle vicine coste dell’Africa, attraverso la rotta migratoria del Mediterraneo centrale.
Non bisogna tuttavia dimenticare come dinamiche simili si fossero già manifestate nella prima metà degli anni Novanta, con l’arrivo di migliaia di albanesi ed ex-Jugoslavi che attraversavano l’Adriatico in fuga dalla guerra o semplicemente in cerca di una vita e un futuro migliore. L’episodio più noto risale all’8 agosto 1991, quando la nave albanese Vlora, dopo aver inutilmente chiesto di attraccare a Brindisi, venne autorizzata a far sbarcare le quasi 20.000 persone che aveva a bordo nel porto di Bari.
Un copione allora sconosciuto, ma che oggi riviviamo abitualmente in relazione alle navi delle ONG cariche di profughi, messi in salvo dai naufragi delle imbarcazioni di fortuna con cui cercano di raggiungere le coste meridionali del nostro Paese. Un copione che continua ad assumere i toni dell’emergenza, quando non di una vera e propria invasione, sebbene l’immigrazione si connoti ormai come un fenomeno strutturale della società italiana.
Il dibattito sul tema è di rado fondato su dati oggettivi e più spesso fa leva su convinzioni ideologiche e strumentalizzazioni che hanno poco a che fare con la realtà quotidiana, ma che inevitabilmente influenzano la percezione del fenomeno da parte degli italiani. Se, infatti, i sondaggi dell’Eurobarometro rivelano una tendenza diffusa in tutti i paesi europei a sovrastimare l’incidenza della popolazione immigrata di circa 10 punti percentuali rispetto alla situazione reale, in Italia il distacco sale a oltre 17 punti percentuali. Tre intervistati italiani su quattro pensano, inoltre, che l’immigrazione alimenti la criminalità e oltre uno su due è convinto che gli stranieri riducano le possibilità di occupazione degli italiani e costituiscano un peso per il sistema di welfare.
I dati ufficiali e le ricerche svolte sull’impatto dell’immigrazione ci offrono un quadro ben diverso. Nonostante i costanti allarmismi degli ultimi anni, infatti, dal 2014 il numero degli stranieri residenti è rimasto sostanzialmente stabile, intorno ai 5 milioni. Il lieve aumento dell’incidenza sulla popolazione totale è da ricondurre, più che alla crescita degli immigrati stessi, al declino della popolazione italiana, imputabile sia ad un saldo naturale negativo (muoiono più persone di quante ne nascano), sia ad una costante ascesa dell’emigrazione, soprattutto da parte di giovani italiani laureati. Si tratta in ogni caso di una quota più bassa rispetto ad altri paesi europei come Germania, Francia e Spagna.
Le cifre appena osservate fanno riferimento agli stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale. La stima più recente del numero di stranieri privi di regolare titolo di soggiorno parla di circa 519mila persone all’inizio del 2021. Anche rispetto a questo, però, la percezione è molto distorta: quasi la metà degli italiani ritiene che il numero di coloro che si trovano illegalmente in Italia sia maggiore di quello degli immigrati legalmente residenti, quando in realtà ormai dal 2009 la presenza irregolare si mantiene al di sotto del 10% del totale della popolazione straniera.
Gli sbarchi, pur avendo registrato nell’ultimo biennio un deciso aumento, sono ancora lontani dai valori raggiunti tra il 2014 e il 2016, quando si era toccato il picco di oltre 181mila arrivi l’anno. Nel 2021 sono giunte in Italia via mare poco più di 67mila persone, quasi 54mila delle quali hanno fatto richiesta di asilo del nostro Paese. I dati del ministero degli Interni mostrano come nello stesso anno siano state adottate circa 52mila decisioni sulle richieste di protezione, indipendentemente dalla data in cui queste erano state presentate, e risultassero ancora pendenti 33mila procedimenti. Facendo un confronto su scala europea, il sistema italiano funziona troppo a rilento, e anche chi possiede i requisiti per godere dello status di rifugiato rischia di rimanere imprigionato nel limbo della procedura di richiesta d’asilo e nel sistema di accoglienza straordinaria di cui parleremo in seguito.
Sul fronte dell’impatto economico, il “furto occupazionale” ai danni dei cittadini italiani è smentito da un’ampia gamma di studi che mostrano come ci sia complementarità tra forza lavoro nativa e forza lavoro immigrata. I lavoratori autoctoni tendono a svolgere mansioni più qualificate, mentre gli stranieri si concentrano in occupazioni a basso valore aggiunto, indipendentemente dal loro livello di istruzione e dall’esperienza lavorativa pregressa. Non è raro incontrare donne straniere che assistono gli anziani pur essendosi laureate in materie scientifiche o tecnologiche nei loro paesi di origine. Almeno i due terzi degli occupati stranieri, infatti, svolgono professioni poco o per nulla qualificate, principalmente nel settore dei servizi domestici o di cura alle famiglie, nel commercio, nell’agricoltura, nel turismo e nelle costruzioni. In alcuni di questi settori, come agricoltura e turismo, la quota di stranieri è elevata soprattutto tra i lavoratori stagionali, e rappresenta un elemento chiave per la sopravvivenza stessa delle attività.
IL TEMA IMMIGRAZIONE NEI PROGRAMMI ELETTORALI
Tenendo a mente questi tratti essenziali del fenomeno, e la sua caratteristica di componente ormai strutturale della società, è utile analizzare come l’argomento immigrazione sia affrontato nelle agende elettorali dei vari partiti in vista delle elezioni del 25 settembre prossimo. Anche da una lettura rapida emergono – come ci si poteva attendere – differenze piuttosto nette. Il programma dei partiti di centrodestra si focalizza sulla questione sicurezza, ponendo come priorità il blocco degli ingressi nel nostro Paese e la difesa dei confini nazionali (ed europei) attraverso il controllo delle frontiere e di tutto il territorio nazionale. Si propone di ripristinare i cosiddetti decreti sicurezza, sul fronte interno, e di fare pressioni in Europa affinché vengano creati hot-spot in territorio extra-europeo, che dovrebbero fungere da filtro e valutare le richieste di asilo ammissibili prima della partenza.
I partiti di centrosinistra, pur non ignorando le questioni legate alla gestione dei flussi d’ingresso, danno ampio spazio anche alle politiche per l’integrazione. Sul primo punto, si propone il superamento della legge Bossi-Fini attraverso un provvedimento che preveda ingressi legali per motivi di lavoro, di fatto non limitati ad alcune decine di migliaia di lavoratori stagionali, come avviene attualmente. Si parla inoltre di allargamento dei corridoi umanitari per coloro che hanno diritto alla protezione internazionale, e di impegno per una politica comune europea sull’asilo che porti al superamento dell’attuale schema basato sul Regolamento di Dublino; nelle agende di alcuni partiti minori si menziona esplicitamente anche la cancellazione dell’accordo sulla gestione dei flussi stipulato con il governo libico. Sul tema dell’integrazione, si afferma la necessità della riforma sulla cittadinanza attraverso l’approvazione dello ius scholae, del potenziamento del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) ordinario, e di procedure stabili di regolarizzazione per i lavoratori stranieri in Italia. L’agenda del cosiddetto Terzo Polo si pone in una posizione intermedia, con il richiamo allo ius scholae, da un lato, e alla necessità di stipulare accordi con i paesi di origine per bloccare i flussi in ingresso, dall’altro. Alla gestione coordinata del fenomeno e delle politiche correlate si propone di dedicare un Ministero delle Migrazioni, di nuova istituzione.
UN’AGENDA IDEALE PER IL PROSSIMO GOVERNO
È opportuno domandarsi se le proposte appena elencate siano in grado di rispondere in modo tempestivo e appropriato alle criticità che la gestione dei flussi migratori ha reso manifeste. Oppure, in altri termini, potremmo provare a definire alcuni elementi chiave per un’agenda ideale che possa essere efficace in questa direzione.
IUS SCHOLAE
La riforma del diritto di cittadinanza costituisce senz’altro il primo di questi elementi. Se politicamente sembra ancora prematuro discutere di un modello basato per intero sullo ius soli come quello introdotto in Germania nel 2001, la versione più “moderata”, battezzata ius scholae, rappresenta un passo necessario e doveroso verso l’integrazione di migliaia di giovani che nel nostro paese spesso sono nati, e hanno compiuto tutta o la maggior parte del loro percorso scolastico e formativo.
Una proposta in tal senso era stata approvata dalla commissione Affari Costituzionali della Camera lo scorso 9 marzo, e prevedeva che la legge fosse modificata allentando il vincolo del raggiungimento della maggiore età per il riconoscimento della cittadinanza italiana. Si prevedeva, infatti, la possibilità di concedere quest’ultima anche ai minori nati in Italia o arrivati prima del compimento dei 12 anni, purché avessero risieduto legalmente e senza interruzioni sul territorio italiano e avessero completato un percorso scolastico di almeno 5 anni nel nostro sistema di istruzione. La richiesta doveva essere presentata dai genitori, entrambi a loro volta legalmente residenti in Italia. Il sistema attuale, datato 1992, prevede invece per i nati in Italia la possibilità di fare richiesta della cittadinanza solo una volta compiuto il diciottesimo anno di età, con tempi di attesa che possono durare mesi, e la conseguente impossibilità di esercitare da subito i propri diritti di cittadino quali il voto o la possibilità di partecipare a molti concorsi pubblici.
L’iter legislativo della riforma si è arrestato con la caduta del Governo Draghi, ma è auspicabile che venga ripreso e completato nel corso della prossima legislatura.
Perché, dunque, lo ius scholae? Secondo l’Istat, al 1° gennaio 2022 il numero di minori stranieri residenti in Italia supera di poco il milione ed è pari all’11,5% della popolazione totale al di sotto dei 18 anni. Per l’anno scolastico 2019/2020, il Ministero dell’Istruzione ha attestato la presenza di 876.801 alunni con cittadinanza straniera, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di II grado. Corrispondono al 10,3% del totale della popolazione scolastica e per quasi due terzi (573.845) sono nati in Italia, ossia fanno parte delle cosiddette “seconde generazioni”. Sebbene questi dati non permettano di quantificare puntualmente i potenziali beneficiari immediati dello ius scholae, alcune stime indicano cifre comprese tra i 170 e i 330mila minori.
È ormai noto che l’acquisizione della cittadinanza produce benefici per gli stranieri già adulti, agendo da catalizzatore per la loro integrazione socio-economica. Numerosi studi internazionali hanno anche dimostrato come l’impatto delle naturalizzazioni sia importante e significativo per i minori stranieri, in termini di progresso del rendimento scolastico, di riduzione del tasso di abbandono e di maggiori probabilità di intraprendere percorsi di istruzione propedeutici alla frequenza universitaria. Oggi il 52% degli adolescenti italiani sceglie un liceo al momento dell’iscrizione alla scuola superiore, contro il 31% dei ragazzi di origine straniera. Al contrario, il 31% di stranieri sceglie l’istituto professionale, contro il 17% degli italiani. L’Italia è inoltre il paese europeo con il più alto tasso di abbandono scolastico tra i giovani con cittadinanza straniera. La quota di stranieri tra i 18 e i 24 anni che hanno interrotto gli studi supera infatti il 35%, a fronte di un 13% tra i giovani con cittadinanza italiana.
Lo ius scholae produrrebbe benefici individuali, in prima battuta, con la possibilità per i giovani immigrati di diventare cittadini e parte attiva della società in cui vivono stabilmente e di cui non possono essere considerati semplici ospiti. A questi si aggiungono tuttavia anche benefici collettivi: il miglioramento della qualità del capitale umano presente nel nostro Paese funge da volano efficace per la crescita economica.
REVISIONE DEI CANALI LEGALI DI ACCESSO
Il secondo elemento di un’ideale agenda sulle tematiche migratorie è la revisione sostanziale dei canali legali di accesso al nostro Paese.
Questa revisione deve poggiare su due pilastri fondamentali. Da un lato, lo sforzo di promuovere in sede europea il superamento di quel Regolamento di Dublino che oggi norma il funzionamento del diritto di asilo e la concessione delle varie forme di protezione internazionale, e che scarica interamente sui paesi di primo accesso all’Unione Europea – come l’Italia – l’onere della valutazione delle richieste, e quindi anche della concessione dello status di rifugiato. Le proposte di riforma di tale impianto normativo avanzate negli anni scorsi sia dal Parlamento Europeo, sia dalla Commissione, hanno visto la forte opposizione dei Paesi dell’Est Europa (il blocco di Visegrad). Serve, perciò, un rinnovato impegno politico su questo fronte. Impegno a tessere un equilibrio delicato su cui si regga il compromesso tra i vari Governi europei in tema di sicurezza dei propri confini e del proprio territorio, ma che allo stesso tempo garantisca il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, troppo spesso violati negli ultimi anni, sia nel bacino del Mediterraneo, sia alle frontiere orientali dell’UE (ad es. lungo la rotta balcanica).
Dall’altro lato, è necessario rivedere la normativa interna che regola la concessione dei permessi di soggiorno. Oggi, infatti, il diritto a risiedere legalmente nel nostro paese viene per lo più concesso ai cittadini extra UE o per motivi di ricongiungimento familiare (si raggiungono familiari stretti già residenti in Italia), o per motivi umanitari (vale a dire previa concessione dello status di rifugiato o di altre forme di protezione sussidiaria). L’ingresso e la conseguente concessione di un permesso di soggiorno a lungo termine per motivi di lavoro sono ormai molto rari. Va un po’ meglio, in termini numerici, sul fronte dei permessi temporanei per i lavoratori stagionali, regolati annualmente dal “Decreto Flussi”. L’ultimo, emanato a gennaio 2022, prevedeva l’ingresso di 69.700 cittadini non comunitari (erano stati 30.850 nei sei anni precedenti), oltre 40mila dei quali con permessi di lavoro stagionale.
Purtroppo, il malfunzionamento della burocrazia italiana si traduce in diversi mesi di attesa tra la scadenza per la presentazione la domanda e l’effettivo ingresso in Italia. Più in generale, la variabilità in termini di tempi di emanazione e attuazione impedisce a questi provvedimenti di offrire una risposta adeguata alle richieste delle imprese, con l’insorgere di carenze talvolta significative in settori che ormai fanno largo affidamento sulla forza lavoro straniera. Considerate le tempistiche relative all’anno in scorso, con il “click day” per la presentazione della domanda fissato al 17 marzo, è difficile pensare ad esempio che i lavoratori stagionali stranieri siano riusciti ad entrare in Italia prima dell’estate, e dunque in ritardo rispetto alle esigenze del settore turistico o di quello agricolo. Quest’ultimo è stato fortemente penalizzato anche durante il lockdown del 2020, quando a causa della chiusura delle frontiere e del ritardo nell’emanazione del “Decreto Flussi” si è trovato impossibilitato a beneficiare della manodopera stagionale tradizionalmente impiegata, che per oltre un terzo è di origine straniera.
Con il Decreto Semplificazioni varato a giugno 2022 si è cercato di snellire le procedure amministrative per velocizzare gli ingressi stagionali. Tuttavia, si tratta solo di un primo passo, che deve essere seguito da una revisione organica e sostanziale, non puramente procedurale, dell’intera normativa in materia, con l’obiettivo di riattivare canali legali di accesso per motivi di lavoro che non siano limitati alla manodopera stagionale.
INTEGRAZIONE
Strettamente legata ai primi due elementi è anche la terza parola chiave dell’agenda: integrazione. L’Italia necessita di politiche per l’integrazione della popolazione straniera che finalmente la mettano al passo con gli altri paesi europei. Lo ius scholae può e deve essere un cardine di tali interventi, affiancato però da un potenziamento del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) per richiedenti asilo e rifugiati. Il SAI rappresenta oggi la rete di accoglienza ordinaria, gestita dagli enti locali. Ad essa, infatti, possono accedere sia i richiedenti asilo, in attesa di vedere valutata la loro richiesta, sia coloro a cui è stato già formalmente riconosciuto il diritto alla protezione internazionale. I servizi offerti sono però diversi a seconda della tipologia di utenti: ai richiedenti asilo viene fornita assistenza materiale, legale, sanitaria e linguistica. Per i titolari di protezione, questa assistenza di base viene integrata con servizi di orientamento al lavoro.
Il potenziamento della rete SAI potrebbe dunque garantire, prima di tutto attraverso l’integrazione linguistica e l’inserimento lavorativo, un modello di inclusione maggiormente sostenibile nel lungo periodo, anche perché strutturato su scala ridotta e diffuso sul territorio. E se questo vale per gli adulti, a maggior ragione risulta fondamentale nel caso dei minori stranieri non accompagnati, che necessitano di essere assistiti adeguatamente nel loro percorso verso l’autonomia.
Attualmente, invece, in molte regioni italiane la gestione di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale è ancora basata per lo più sul sistema di accoglienza straordinaria (i cosiddetti CAS), creati dalle Prefetture come centri per una permanenza temporanea, spesso emergenziale, e di sicuro non progettati per avviare un processo di integrazione dei propri ospiti.
Integrazione che, è bene ricordarlo, non deve essere sinonimo di assimilazione, ma che dovrebbe rispettare e permettere di valorizzare la diversità come elemento propulsore per lo sviluppo socio-economico dell’intero Paese.
L'illustrazione di copertina è di Ilya Milstein.