Alfabeto Pasolini. Omosessualità

5 Ottobre 2022

Ai ragazzi e alle ragazze appassionati e disagiati che mi ascoltano e frequentano le scuole superiori, 

dalla ragazza appassionata e disagiata che ha frequentato e insegnato nelle scuole superiori. 

Con amore.

Nell’alfabeto Pasolini pensato per l’anniversario dal Comune di Roma e dalla rivista Doppiozero la lettera che mi è stata assegnata è la O di Omosessualità. Le coppie omosessuali non sono legali ha declinato un rappresentante di Fratelli d’Italia che è ad oggi, dal 26 settembre scorso il primo partito del paese. Chiarisco subito che le coppie omosessuali, ad oggi, nonostante Fratelli d’Italia sia il primo partito d’Italia, sono legali. Anzi, come ha chiarito Pietro Turano, attore e attivista, sul suo profilo Instagram il giorno 26 settembre “la somma dei voti verso forze progressiste e non conservatrici è in realtà maggioritaria. E se è vero che per la prima volta le forze progressiste hanno inserito nei programmi il matrimonio egualitario e altri “temi Lgbt+”, è anche vero che per la prima volta la maggioranza del paese si è espressa chiaramente in questo senso. Al di là della miopia e della mancanza di strategia da parte della politica, questi dati ci impegnano a lottare con ogni forza affinché il parlamento non ignori un’espressione popolare ben chiara e netta verso il riconoscimento dei diritti.” Riporto questo per sottolineare la tensione tutta pasoliniana a ricordare che le cose vengono pensate e scritte nel tempo e nello spazio. Anche quando sembrano parlare di altro, cosa che non riguarda, chiarisco, l’opera di Pasolini narrativa o critica, di parole scritte o dette, ma investe in parte l’opera cinematografica. 

Non intendo qui declinare l’Omosessualità in Pasolini. È un tema enorme, spinoso, controverso e inoltre Pier Paolo Pasolini non è uno scrittore che ho amato dalla mia giovinezza, sento dunque con lui – indipendentemente che io la abbia o no – una confidenza relativa. Voglio dire che ho letto Pasolini, non per curiosità – come ho fatto con Woolf, Weil, Yourcenar, Wu-Cheng-En, Morante, Soseki o, che ne so, Breat Easton Ellis, Fleur Jaeggy, Bufalino o Baricco – l’ho letto perché bisognava.

Avere una tensione politica all’inizio degli anni Novanta del Novecento, voleva dire essere coscienti di dover leggere Pasolini. Non so se specificamente a Scauri di Minturno in una casa di inveterati comunisti o anche in altri luoghi e altre famiglie d’origine. Mi interessa inoltre, mi è sempre interessato, il modo in cui gli scrittori e le scrittrici omosessuali hanno parlato di omosessualità in storie dichiaratamente omosessuali, così, per questa occasione – la O dell’alfabeto Pasolini – ho riletto Atti impuri e Amado mio, racconti lunghi o romanzi brevi che non leggevo, ma nemmeno sfogliavo o aprivo a caso, dall’inizio degli anni Novanta quando, oltre ad avere una tensione politica, cominciavo a considerare di essere io pure omosessuale e, dunque, oltre a comprare tutti i prodotti – dal dentifricio al cibo agli abiti ai quaderni alle gomme da cancellare – che pensavo mi identificassero come omosessuale agli occhi di altri possibili omosessuali senza che nessuno dovesse dichiararsi ma semplicemente si vedesse – o questa era la speranza – oltre a comprare, dicevo, tutti i prodotti in una sorta di aurorale forma di cosplay di sé stessi – intenzione che è diventata prassi con i social – leggevo tutti i libri che riuscivo a raccattare dove venivano raccontate o dichiarate storie d’amore gay.

Perché a questo servono i libri, i romanzi in special modo, a dimostrarti che la realtà è più vasta e più larga di quella che ti vedi intorno e che, spesso, ti costringe. I libri sono anche utili quando non hai a disposizione corpi da toccare. Ti fanno sperare, i libri, che altre mani tocchino altri corpi con il tuo stesso desiderio, o se non proprio lo stesso, simile. D’altronde in principio era il verbo e il verbo si è fatto carne.

Leggevo insomma Pier Paolo Pasolini e altri con lo stesso spirito e la stessa aspirazione con i quali mia nonna Tina guardava Dallas o Beautiful pensando cioè di dover arredare casa in un certo modo, bere certe cose, e portare i capelli acconciati così e non colà. Questo, tuttavia, nonostante sia anti-intuitivo, non indeboliva la mia tensione politica. Perché esercitarsi alla vita degli altri, soprattutto a comprenderla, vestire di panni altrui, è più di una tensione politica, è una prassi. 

Tuttavia, all’inizio degli anni Novanta, le storie d’amore omosessuale su cui riuscivo a mettere le mani, non erano storie d’amore felici. Anzi, erano sostanzialmente tragedie. Storie d’amore che avrebbero scoraggiato chiunque a intraprendere un percorso di ricerca, non tanto di identità, ma di origine del desiderio. Quei libri raccontavano di persone macerate dal senso di colpa, ripudiate dalla famiglia, emarginate dalla società, che talvolta, per brevi attimi, riuscivano a godere di un barlume di emozione e quiete, e di tanto in tanto, seppur nascostamente, ad avere un rapporto fisico con qualcuno.

Certo, sono arrivati, a un certo punto, David Leavitt e Jeanette Winterson, per fortuna, ma né in Non ci sono solo le arance, né in Ballo di Famiglia le cose erano semplici o sempre felici – in Leavitt, per vero, più che in Winterson – ma almeno erano possibili, sembravano ciò che poi ciascuno di noi scopre da solo e cioè che le relazioni, indipendentemente dagli esseri che le instaurano, funzionano tutte allo stesso modo. Si equilibrano e si squilibrano. Continuamente. Le relazioni felici, intendo. 

La mia generazione inoltre ha subito uno shock culturale e, azzarderei, editoriale. Chi è nato alla fine degli anni Settanta è passato dall’esposizione a cartoni animati nei quali l’omosessualità in varie declinazioni era sempre presente, o nei quali le relazioni non erano normate secondo un rigido principio di eterosessualità e monogamia, a romanzi dove l’omosessualità era peccato. Lady Oscar era vestita da uomo, era innamorata del Conte di Fersen, e Maria Antonietta e tutte le dame della corte erano innamorate di lei.

La principessa Sapphire nel regno di Silverland aveva nel petto due cuori, uno da uomo e una da donna, era innamorata e avversaria del Principe Filippo, ma il punto era conquistare il regno e non questioni di genere, Lamù era tutto un intrico e intreccio di Corpi, Hiroshi Shiba, mezzo androide, amava Miva che gli lanciava i componenti per completare la sua trasformazione in Jeeg Robot, Ransie la strega, nonostante non fosse umana, degli umani era innamorata e ricambiata, così Creamy, Georgie era un cartone animato fondato sull’incesto, in Daytan3 c’era un triangolo amoroso che dava vita a una forza per difendere la terra da alieni invasori, e così via, potrei continuare.

Dopo questa immersione nella varietà sentimentale del mondo, il senso di colpa (la Monaca di Monza ed Egidio), l’insensatezza (in un romanzo intitolato I promessi sposi, Lucia promette la propria verginità alla madonna perché Renzo si salvi), l’idillio incredibile (nel senso che non potevi crederci, I neoplatonici di Luigi Settembrini, che oggi sarebbe un fumetto perfetto). O forse, a scegliere meglio, ce ne sarebbero stati altri, ma nel canone (allora esisteva) non c’era spazio per la felicità delle relazioni omosessuali.

Si aggiunga, alla difficoltà di reperire libri in un paesino senza librerie o biblioteche, la coriacea normatività dell’adolescenza: si andava – andavo – alla ricerca di storie nelle quali a una cosa ne corrispondesse un’altra e solo quella. Chiarisco, a scanso di equivoci, che amo moltissimo i Promessi sposi, e se qualcuno di voi non lo ha letto – o ha pensato che la campionatura alla quale siamo sottoposti al liceo sia sufficiente per disprezzarli – lo faccia.

A ogni modo, torniamo al motivo di questa nostra conversazione (finora unidirezionale, ma poi chissà), e cioè la rilettura, a distanza di trenta anni, perché tanti ne sono passati, di Atti impuri e Amado mio. Le storie raccontante nell’uno e nell’altro sono apparentemente differenti, e differente è la struttura. Atti impuri si apre con alcune pagine di un diario. Il tema delle pagine è intimo, amoroso, accorato, così il tono. Le date sono quelle della primavera e dell’estate del 1945. La voce narrante confessa il proprio amore per un giovinetto, Nisiuti. Il narratore ha circa vent’anni e Nisiuti è nel pieno della sua adolescenza.

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Il narratore, sfollato in campagna e proveniente da un ceto borghese, insieme alla madre, si incarica di fare scuola ai fanciulli. Tra questi fanciulli, non subito, ma dopo poco, e più adulto degli altri, compare Nisuiti con la pelle dorata, i capelli bruni, un’ombra altrettanto bruna sul labbro superiore, i pantaloni “alla sport” di una rozza tela e una camiciola rosa sempre aperta sul petto. Tutto questo lo impariamo quando lo scarno resoconto diaristico si interrompe e il narratore ripercorre, trascorsi due anni, le vicende accennate nelle pagine di diario. Nisiuti, troppo grande per andare a scuola, vorrebbe però imparare. E, in effetti, per imparare qualcosa ci vuole, prima di tutto l’intenzione.

Come annota Simone Weil nei quaderni – mi pare il quaderno secondo – gli uomini non propongono alle fanciulle l’amore, ma la conoscenza. E così il professore nell’Italia nel 1945 a Nisiuti, non l’amore, ma la conoscenza. Il professore ha avuto altri amori, alcuni molto fisici, come quello con Bruno nella roggia che costeggia la ferrovia o meno soddisfacenti come con Gianni, uno degli studenti. Con Nisiuti, assai più che con gli altri, si fa spazio il senso di colpa. Il senso di colpa si sovrappone se non addirittura coincide con l’amore, è un contagio: toccare Nisiuti significa, addirittura, farlo ammalare. 

“Ritrovai il significato letterale della parola corruzione: potei riesaminare il probabile futuro mio e di quel ragazzo. Ne fui dolorosamente allarmato. Fino ad allora mi giustificavo dicendomi che il mio peccato era in me prima che io nascessi, che era inumano che io dovessi trascorrere la vita solo ecc. ecc. Ma da quel momento questi argomenti non mi parvero più bastevoli, perché non riguardavano anche la vita di Nisiuti. Io non sono il solo vivo nel mondo! Poi Nisiuti si ammalò, e io me ne atterrii tanto che per la prima volta fui preso dallo scrupolo di Dio”.

Le parole che mi colpiscono oggi in questo brano – a quattordici anni mi aveva colpito essenzialmente il sentimento, cioè il senso di colpa, che ben conoscevo essendo stata educata in una casa comunista e cattolica – sono “probabile” ...il probabile futuro mio e di quel ragazzo... perché mi fa pensare a Bruno De Finetti, grande matematico, che nel suo Saggio sul probabilismo osserva Non è importante perché un fatto accadrà, ma perché io penso che un fatto accadrà. Il punto di vista che abbiamo sul mondo è sempre il nostro, dunque, il senso di colpa, di peccato e corruzione è della voce narrante, appartiene a lei e non ad altri, non è generale astratta, è particolare concreta, memoriale addirittura, non la nostra.

La sfumatura che Pasolini dà al futuro probabile del narratore e di Nisiuti è cupa. Il suo stesso futuro lo sembra. La pietra di paragone di questo amore è la madre: ... ti amo più di tua madre, Nisiuti... Il mio amore mi pareva allora inesprimibile, sconfinato e commovente come quello per mia madre... La seconda parola che mi colpisce è “vivo”, l’esortazione... non solo il solo vivo nel mondo!... Dove vivo è qui sinonimo di amante o amato. Non siamo mai gli unici che amano nel mondo, o come scriverà Morante in Aracoeli (1985) la più nera infelicità terrestre è esistere vivi quando non c’è più nessuno che ci ama. Vivere è sinonimo di amare che è sinonimo di commettere una colpa. La terza parola è “scrupolo”, lo scrupolo di Dio. Scrupolo, oltre a significare esitazione o dubbio, è in origine una misura di conto o di spazio. La misura del Dio che conosciamo, o che Pasolini intende, è ancora la colpa. L’amore infinito di Dio, la colpa infinita di Dio.

Amado mio, per contro, è un bike-novel che forse potremmo comunque annettere alla categoria del road-movie sentimentale a Caorle, è incompiuto, dunque non finisce male, giacché si sa che il lieto fine dipende da dove decidi di interrompere la storia. La versione completa, e ambientata sulla Route66, è Un giorno uno di noi di Giancarlo Pastore che ho pubblicato qualche anno fa in Marsilio. D’altronde il Friuli può essere selvaggio. I protagonisti di Amado mio si chiamano Desiderio, detto Desi, e Iasis.

Credo sia il primo romanzo dove compare se non la definizione almeno l’effetto di ciò che oggi si definirebbe Icona Gay. “Rita Hayworth con il suo immenso corpo, il suo sorriso e il suo seno di sorella e di prostituta – equivoca e angelica – stupida e misteriosa – con quel suo sguardo di miope freddo e tenero fino al languore – cantava dal profondo della sua America latina da dopoguerra, da romanzo-fiume, con una inespressività divinamente carezzevole.” (Desi e Iasis sono al cinema, seduti su scomode panche o presunte tali storditi dalla canzone Amado mio in Gilda di Charles Vidor, appunto.) 

Questi romanzi sono stati in qualche modo pensati insieme dal loro autore, o forse pensati insieme è troppo, sono stati accorpati, per tema. Il tema è l’omosessualità. Esiste negli inediti, infatti, un’unica prefazione a entrambi, nella quale ricorre la domanda è sufficiente soffrire per redimersi? Oscilla dunque la redenzione da questo peccato che sembra, anche al narratore di Atti impuri, un peccato della volontà, tra la sofferenza morale sua e quella fisica di Nisiuti e la rappresentazione– che è una forma di redenzione – di una relazione nel cinema buio tra Desi e Iasis.

Nonostante le differenze, sono storie nelle quali il narratore e Desi – i più adulti – tentano e tendono le mani verso una giovinezza che per loro è trascorsa e dunque è idealizzata. I ragazzi resistono, come resiste però, senza nome e senza negazione, una promiscuità dei corpi. Sono pagine piene di giovani uomini che si denudano, si tuffano nei corsi o nelle pozze d’acqua, e corrono, sempre nudi per asciugarsi le membra. A leggere questi libri dopo aver visto The power of the dog di Jane Campion si intravede – proprio come in Settembrini – la possibilità di un’omosessualità che dura l’adolescenza e più oltre è peccato, quando i corpi dei giovani uomini si rivelano solo corpi di uomini, senza aggettivi, la corsa, l’inseguimento, la nudità diventano un peccato, un vizio che è un difetto di volontà.

Come nelle storie di collegio per le fanciulle, questo racconto di maschilità bucolica è, a osservarlo attentamente, un esercizio per la vera vita, e chi dopo aver fatto gli esercizi – tutti li facciamo, memori o no – invece di agire la società e i suoi stilemi, continua ad esercitarsi, è un reietto. È sufficiente soffrire per redimersi? No, pare rispondere Pasolini, per redimersi bisogna abbandonare la giovinezza e i suoi giochi.

Che lo credesse o no, non so, non sono abituata a parlare al posto dei morti per darmi ragione, ma che il nucleo liquido, mercuriale in tutti i sensi dell’aggettivo italiano – instabilità, mercanteggiamento e argentino – di questi scritti sia l’abbandono della giovinezza e dei suoi gesti mi pare chiaro. Non lo penso, e nemmeno che essere omosessuali significhi sovvertire le regole della società o dei regimi. Sarebbe bellissimo passare per l’amore e smuovere tutto, ma non è così. O forse sì. È Dante che ha scritto L’amor che move il sole e le altre stelle? 

Grazie e non smettete mai di leggere e rileggere. 

Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini.

Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l'immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture. 

L’incontro con Chiara Valerio si terrà presso la Biblioteca Renato Nicolini, giovedì 6 ottobre alle ore 11. Qui il programma completo.

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