Alla ricerca di Federico Caffè
I lunghi addii sono complicati, come ci ha spiegato Raymond Chandler. Si è amici di una persona ma, con il passare del tempo, il rapporto si può deteriorare: così ci allontaniamo piano piano dalla persona amata. Ma ci sono casi più drammatici, quando l’amicizia si interrompe per la scomparsa del nostro amico. E allora l’addio è ancora più difficile; va metabolizzato nel tempo e per farlo possono essere necessari molti anni.
Daniele Archibugi ha scritto il suo lungo addio a Federico Caffè, il professore di economia scomparso misteriosamente a Roma nell’aprile del 1987 (la morte presunta venne dichiarata nel 1998). È una storia privata. Il padre di Daniele, Franco, aveva conosciuto Federico Caffè nel 1947. Caffè era capo di gabinetto del ministro per la Ricostruzione Meuccio Ruini nel governo Parri, durato dal giugno al dicembre 1945. Franco Archibugi era nato nel 1926; Federico Caffè nel 1914. La differenza anagrafica tra i due non impedì il nascere e il consolidarsi di un’amicizia durata 40 anni. Daniele conobbe Caffè come noi conosciamo gli amici dei nostri genitori. Scelse, autonomamente, di iscriversi alla facoltà di economia e commercio della Sapienza, laureandosi con Federico nel 1983.
Il libro è il racconto del rapporto tra Daniele e Caffè. Non è un libro di economia; è la narrazione di relazioni intime, riguardanti le famiglie Archibugi e Caffè, in particolare l’amicizia tra Daniele e Federico. È una sorta di lessico familiare: per fare un solo esempio, i nostri due protagonisti si erano assegnati i nomignoli di Chicco e Cocco.
All’inizio, leggendo il libro, mi è venuta in mente la frase che Dino Risi aveva rivolto a Nanni Moretti “Nanni, scansati e fammi vedere il film”, lamentandosi dell’eccessivo protagonismo del regista romano. Anche io ho pensato “Daniele, scansati e fammi vedere Federico Caffè”.
Proseguendo nella lettura, ho capito che la mia battuta era sbagliata. Daniele ha scritto una autobiografia sentimentale della sua gioventù, caratterizzata dalla frequentazione di Caffè. Ognuno scrive il libro che vuole e come vuole, ma Daniele ha fatto bene a scegliere il taglio dei ricordi più personali. Della figura pubblica di Federico Caffè, infatti, conosciamo tutto (o quasi). Nel 1992 Ermanno Rea pubblicò L’ultima lezione.
Nel 2001 uscì il film omonimo, diretto da Fabio Rosi, con Caffè interpretato da Roberto Herlitzka. Soprattutto, gli allievi di Caffè hanno dato luogo a una appassionata pubblicazione di ricordi del Maestro, sia producendo contributi originali sia ristampando lavori di Caffè ormai introvabili (anche se qualche casa editrice potrebbe ripubblicare alcuni volumi fuori commercio). Insomma i tratti pubblici di Federico Caffè erano già noti e ci possiamo limitare a sintetizzarli in breve: dedito in maniera assoluta al rapporto con gli studenti; conoscitore profondo della letteratura economica italiana e internazionale; economista in Banca d’Italia prima e collaboratore, poi, di più di un Governatore; divulgatore in Italia del pensiero di Keynes; eclettico nell’approccio metodologico; tollerante e aperto verso punti di vista diversi dai suoi; riformista senza compromessi, contro iperliberisti e rivoluzionari (per qualche parola in più si veda il mio breve ritratto su doppiozero).
Vale la pena riportare la frase di Mario Draghi su Caffè, rivolta alcuni anni fa agli studenti dell’Università di Roma Tre: “Ricordo molto nitidamente come abbia saputo vedere dentro di me, quanto mi abbia saputo indirizzare esattamente come avrebbe potuto fare un padre e poi come mi abbia dato quella fiducia che alla vostra età si cerca disperatamente” (pag. 76-77 del libro).
Bene ha dunque fatto Daniele a scegliere di raccontarci i tratti personali di Caffè: paziente con studenti e colleghi ma capace di sfuriate memorabili; brontolone e testardo; restio a incontri conviviali; tirannico nella gestione dell’istituto di Politica economica; dominato dalla solitudine; indisponibile a viaggi, gite e visite mediche; ironico; lettore instancabile di romanzi; inventore di indovinelli; musicologo; incline a sotterranee tendenze al suicidio; inflessibile fustigatore degli svarioni grammaticali di Daniele, attribuiti alla scelta sciagurata di frequentare un liceo sperimentale.
Il libro rievoca un mondo in parte scomparso, per fortuna. Un mondo dominato dalle baronie, molto più di oggi, e dal maschilismo, molto più di oggi: non c’è una sola professoressa dell’istituto di Politica economica della facoltà di economia della Sapienza che Daniele possa citare nei suoi ricordi romani degli anni Settanta e Ottanta. Un altro esempio della diversità di quegli anni è il tabù di parlare di depressione. Come riassunto da Daniele, negli ultimi anni Caffè ‘aveva perso la brocca’. Eppure dopo la sua scomparsa la parola depressione non fu mai pronunciata perché allora, in quegli anni, si faceva così. Della depressione ci si vergognava. Quindi non se ne parlava.
Daniele esplicita di aver fatto un libro su sé stesso: “mentre scrivo, mi rendo conto che … non ho raccontato la sua di vicenda, ma la mia” (pag. 227). Alla fine Daniele è rasserenato; nel suo lungo addio ha ritrovato il Maestro. Noi abbiamo scoperto un Caffè che non conoscevamo, inedito. E sorridiamo leggendo che nelle visite degli anni Sessanta della famiglia Archibugi a casa Caffè, l’economista abruzzese si divertiva a caricarsi sulle spalle Daniele e i suoi fratelli, portandoli avanti e indietro nel corridoio, come fosse un calesse.
Roma, Palazzo Koch, 1949/1950 circa. Il personale del Servizio Studi della Banca d’Italia. Il primo da destra è Federico Caffè, il terzo da destra è Paolo Baffi, capo del Servizio. © Asbi, Archivio fotografico.