Amore e sangue. Possession di Zulawski

La scomparsa lo scorso 17 febbraio del regista polacco Andrzej Zulawski, uno dei più importanti e controversi autori del cinema europeo dagli anni ’70 in poi, ci ha portato a riflettere su quello che forse è il suo capolavoro, Possession, sulla natura “delirante” del film e sul suo legame con generi come il melodramma e l’horror.

 

Al contempo affascinante e respingente, come la creatura che la abita, Possession è l’opera più celebre di Andrzej Zulawski, complessa e aperta a molteplici letture. 

Il film incomincia come un classico dramma incentrato su una crisi di coppia: al ritorno da un viaggio di lavoro, Marc scopre che la moglie Anna ha da tempo una relazione con un altro uomo. La crisi di coppia è inizialmente raccontata attraverso espedienti volutamente banali (ad esempio, con i due coniugi che si affrontano al bar dandosi le spalle, seduti a due tavolini differenti, segno inequivocabile di una distanza ormai incolmabile), ma presto il classico triangolo amoroso si complica in modo inatteso: l’amante, Heinrich, non è infatti l’unico interesse amoroso di Anna, che si reca segretamente in un appartamento abbandonato dove pare incontrarsi con una creatura mostruosa, dalla forma indefinita e tentacolare, cui offre in sacrificio i corpi degli investigatori privati ingaggiati dal marito per sorvegliarla. A creare un altro vertice a un triangolo trasformato in inquietante pentagono è Helen, maestra del figlio della coppia, Bob, simile in maniera impressionante ad Anna (e interpretata dalla stessa attrice, Isabelle Adjani).

 

Delirante nella messa in forma, Possession lo è anche nell’alterazione delle regole del melodramma, genere che sta alla base di quasi tutta la filmografia dell’autore polacco, considerato uno specialista del cinema erotico quando invece il ricorso alla messa in scena di atti sessuali va sovente nella direzione di un’esasperazione consapevole e personale del mélo. Senza volersi dilungare sul complesso rapporto tra il cinema di Zulawski e il melodramma, basterà citare la scena, quasi alla fine di Possession, in cui Anna e Marc si ricongiungono, morenti, come Jennifer Jones e Gregory Peck in Duello al sole, baciandosi appassionatamente nonostante il sangue che insozza le loro bocche. In un film che non propone citazioni lampanti da altre opere, l’evidenza di questo omaggio ha un peso rivelatore.

 

Possession viene definito da sempre, fin dalla presentazione a Cannes nel 1981 e dall’uscita in sala, come un film “delirante”: questo è ancora oggi vero nella misura in cui Zulawski accoglie il delirio come forma propria di un genere d’appartenenza. Se da un lato il regista offre una versione barocca ed esasperata del melodramma, al tempo stesso rilegge in modo consapevole e critico un genere «che più di altri simula l’ordine della vita, la zona franca della realtà e delle ottusità quotidiane, il confine tra i desideri e le nostalgie, i ritrovamenti e le perdite definitive. Non decifra e interpreta ma rappresenta gli scarti immaginari dell’amore». Grazie alla presenza marginale ma significativa dell’attrice Margit Carstensen, infatti, l’autore esplicita la volontà di porsi idealmente in continuità con il cinema di Fassbinder.

Lo stile “fiammeggiante” tipico del mélo (in parte disinnescato dalla recitazione straniata degli attori e dalla monocromia di una Berlino grigia e bluastra, priva degli eccessi cromatici degli spazi hollywoodiani) diventa in Possession, film post-melodrammatico e post-fassbinderiano, un movimento continuo della macchina da presa, un virtuosismo mostruoso, un’intensificazione enfatica, che sovraccaricando le forme tipiche del genere le priva completamente di senso. Se perciò Fassbinder si pone in rapporto dialettico con il melodramma classico attraverso uno stile smodato ed eccessivo, Possession non sovverte né decostruisce modelli prestabiliti, ma si costruisce all’insegna dell’assenza di senso e di una negazione della forma.

 

Proprio in virtù di queste scelte, Zulawski (non solo in Possession, ma in più tappe della sua filmografia) si pone in continuità con la filosofia di Bataille, in particolare rispetto al concetto di informe. Anche per Zulawski «la sua irritazione è [...] rivolta a un orizzonte estetico tradizionale, accademico, tutto incentrato su norme tese a preservare e tramandare non soltanto un sistema rigido di forme ma una versione idealizzata della forma stessa, ossia la “bella”/buona forma». In Possession, la nozione di informe risulta fertile in più direzioni: non solo lo stile del regista perde ogni funzionalità, ma al centro della vicenda vi è una creatura mostruosa, capace di generare, in Anna, quel “malessere” «oscuratamente legato a una seduzione profonda» di cui Bataille parla riferendosi ai fenomeni da fiera. La creatura ha una forma non definita e non definitiva, è una materia vivente che non possiede alcuna connotazione ontologica ma costituisce un principio autonomo indipendente e in puro divenire.

 

Sorta di rielaborazione personale della dolorosa separazione del regista dalla compagna, Possession è un testo dalle forti ascendenze batailleiane anche nel non volersi costituire come metafora di un vissuto, bensì come testo che mantiene intatto il suo mistero e risulta, di fatto, un’opera aperta a diverse interpretazioni.

Sarebbe peraltro limitativo rivolgersi al film utilizzando la sola lente del melodramma. Quello di Zulawski è anche un horror, e nel mondo in cui il regista cerca un sintesi “impossibile” fra generi «non si limita a negare le categorie formali del linguaggio come dell’estetica, ma induce a trasgredirle e sovvertirle in un movimento che produce un’apertura, una ferita». In questo modo, lavora anche con le convenzioni del racconto, sul tema del doppio e della lacerazione che attraversa tutto il suo cinema.

 

La compresenza di horror e mélo, però, non è bilanciata: il film inizia come un melodramma, ma scivola poi verso l’orrore. Trovata una forma “definitiva” nelle sembianze di Marc, la creatura sembra alla fine assumere i connotati di un demone malvagio, la cui piena evocazione porta a una sorta di apocalisse sotto forma di conflitto atomico. Il nucleo della famiglia di Marc e Anna si disgrega definitivamente con il suicidio del piccolo Bob, mentre il mondo del film sembra giungere al capolinea. È in questo finale misterioso e inquietante che Zulawski offre una delle più raffinate riflessioni sul melodramma come genere cinematografico. Nel melodramma, infatti, scrive Lucilla Albano, il pieno appagamento non esiste, l’incontro amoroso è sempre un incontro mancato. Rinuncia e sofferenza non possono venire evitati dal soggetto, perché fanno parte della sua stessa natura, e del suo sviluppo, e la creazione, nel corso della storia umana, di leggi, di costrizioni e di impedimenti […], non fa altro che assecondare la natura della libido «che non è favorevole all’attuazione integrale del soddisfacimento» (Sigmund Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa, in Opere, Torino, Bollati e Boringhieri, 1974, p. 431).

 

È proprio nella speranza di evitare “rinuncia e sofferenza” e di raggiungere il “pieno appagamento” che Anna dà forma a una versione perfetta del marito, tentativo delirante di dare corpo a un amore ideale. Così facendo, la dialettica tra horror e mélo si risolve in favore del primo, rendendo ancora una volta evidente come l’amore, per Zulawski, rappresenti un orizzonte irraggiungibile, un obiettivo fittizio, una soglia svuotata di senso.

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