Quattro anni fa moriva a Lisbona Antonio Tabucchi / Antonio muore

26 Marzo 2012

Antonio Tabucchi si è spento a Lisbona, la sua seconda patria, la città di Fernando Pessoa, la città di sua moglie Maria José, la città che la sua narrativa ha visitato, smembrato, illuminato di barbagli allucinati. In fondo tutto comincia da lì, da una fascinazione letteraria che poi diventa oggetto di studi e di specializzazione accademica. Chi lo ha avuto come docente testimonia una altezza di scandaglio e  una voluttà pedagogica che ha determinato una vera e propria trasmigrazione di  passioni e di pertinenze critiche. Tabucchi ha cercato subito nei suoi allievi l’auditorio privilegiato del suo discorrere. Non è un caso che da quella sui discenti è passato con naturalezza alla prodiga maieutica esercitata su alcuni giovani scrittori. E forse piuttosto che di maieutica bisognerebbe parlare di esercizio di fratellanza in cui ha fatto convivere esigente severità e divagante amicizia.

La sua casa di Vecchiano è stata, in questo senso, ricetto e fucina di idee, e la sua tavola un’occasione di simposi ben irrorati di vino e letture ad alta voce.

Ah, sentirlo leggere Palazzeschi, o Montale, o Carlos Drummond De Andrade, il gomito appoggiato sulla scrivania, il libro nella mano sinistra, gli occhi spianti l’ascoltatore. Le piccole magie della domesticità letteraria.

Faceva una certa impressione sentirlo teorizzare il destarsi e il dispiegarsi tutto memoriale delle righe che poi portava sulla pagina: il processo di scrittura essendo in verità una trascrizione dalla memoria, a cui si aggiungeva solo il dettaglio, la furia, devo dire, del dettaglio. Ma non è un caso che Tabucchi amasse leggere le opere altrui e le sue: in fondo si trattava di ricondurre il suono attuale a un calco originario.

 

Il poeta è un fingitore. Già. Finisce con il fingere che è dolore il dolore che sente per davvero. Quanto Tabucchi in questo Pessoa. Più di quanto egli stesso forse pensava di essere Tabucchi, ha agito dentro la trama del postmoderno con miracolosa leggerezza, inventando l’inventato e mascherando il mascherato. Figlio degli eteronimi pessoiani è andato a caccia di “altri” a cui dare voce, in cui mettere voce. Eppure con ancora più determinazione Tabucchi ha saputo stare sulla soglia dell’allucinazione: la realtà si manifesta con onirica assolutezza non perché debba freudianamente rivelarsi ma perché in quella veste ha bisogno di parlare. In Requiem ha allucinato tutta una città, l’ha riscritta dentro lo spazio della memoria onirica, come se quello smantellamento della logica e della topografia fosse la conditio sine qua non per restituire il fantasma al narratore, al grande fingitore.  Decisiva è l’allucinazione che viene prima della morte: “Da lasciare agli altri basta la vita che si vive di fuori, è già così invadente, impositiva. E invece ho voglia di scrivere, cioè…, parlare…scrivere per interposta persona, chi scrive sei tu, però sono io. Strano, no?” (Tristano muore).

 

Oggi suona così evidente questa interposta persona che Antonio Tabucchi, sulla scorta del suo Pessoa, ha sempre cercato. Il malato e lo scrittore.

Ma c’è qualcosa, che invece ha a che fare con la percezione del tempo, che va oltre il confine “lusitano”. Si sta facendo sempre più tardi. Il tempo invecchia in fretta. Questi non sembrano neppure titoli, e pur lo sono. Sono ammonimenti scritti sul cartiglio della contemporaneità. Appartengono all’ultimo Tabucchi ma non sono necessariamente legati a una minaccia sospesa. Il tempo di cui si parla in quei libri è ancora un’altra storia, fortemente implicata con la Storia. A che punto siamo? Dove lo scrittore ha sorpreso i suoi attori quando ha provato a lasciarli raccontare? Forse in una fessura, in una crepa, là dove, montalianamente, gli anelli non tengono. Nessun personaggio dei suoi ultimi ha paura del “consumarsi” del tempo, è semmai il tempo ad avere paura. Tramontano i regimi (nella fattispecie in Il tempo invecchia in fretta quelli dell’Est), certi sentieri che parevano impossibili da tracciare sono lì, evidenti, e la spia trova la strada che lo porta alla tomba di chi ha spiato per tutta la vita. Nessun pentimento. È un dato di fatto. Il passato torna come una canzonetta ma ha anche l’andamento di un futuro leggibile nella forma delle nubi.

 

Forse Antonio Tabucchi è stato sempre ossessionato dal vuoto aperto fra il mistero di esistere e l’esistenza senza mistero che chiamiamo realtà. È andato, come un segugio, per le strade bianche che diramano in quel vuoto, da una parte esercitando l’intelligenza tutta letteraria della percezione allucinata dell’umana avventura e dall’altra esercitando l’intelligenza critica del grande polemista. Fra l’uno e l’altro polo l’ironia, formidabile, divorante, a volte crudelissima. Manniano per elezione, si portava dentro l’arguzia puntuta dei toscani.

 

Una volta si parlò di Vittorio Sereni. Gli aveva voluto bene, gli riconosceva la virtù sovrana del poeta.

C’era qualcosa che, nella mia immaginazione, li avvicinava. Entrambi avevano il gusto del gioco adolescente, gli entusiasmi dell’adolescenza, la sua ferocia. Entrambi protestavano il bene che volevano, e volevano la certezza che si volesse loro bene.

Entrambi sortivano da quell’area non addomesticata dell’emozione con l’incanto di un’improvvisa serietà, la serietà dell’immaginazione che li visitava, e li riconsegnava al verso, alla parola.

 

Antonio muore. Continuerà a morire per molto tempo, come certi suoi personaggi.

Il lascito è immenso.

 

Con Il piccolo naviglio ripubblicato nel 2011 dopo quasi trent’anni (era uscito la prima volta nel 1978 e poi mai più ripubblicato) Tabucchi sembra chiudere un cerchio.

Quello che ha a che fare con il raccontare l’Italia. Un’Italia anarchica che aveva respirato da ragazzo fra le Apuane e Pisa. In fondo Antonio è stato un irriducibile fomentatore di sogni libertari, li ha cantati quei sogni come li cantava Aragon in certe sue poesie, ancora oggi dure e implacabili. “È così che vivono gli uomini?” La domanda non smette di battere nella coscienza e nell’immaginazione. E più battono e più disegnano quel “personaggio sconfitto ma non rassegnato, ostinato, tenace” in cui volentieri Antonio si riconosceva.

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