Testori, un grido sanguinoso e alto

12 Giugno 2023

Che la personalità e l’opera di Giovanni Testori non siano facili da cogliere in una sintesi fotografica al lampo di magnesio, è cosa nota anche a chi quell’opera ha frequentato con scrupolo e competenza. Aperta, com’è, da ogni lato, alla scrittura narrativa, al verso, alla drammaturgia, alla critica d’arte, alla pittura, al giornalismo, alla polemica, essa si dispiega generosa per colate progressive, con accelerazioni e bruschi storni che attentano non tanto all’ambizione di una restituzione critica quanto all’impegno di un dinamico racconto ricognitivo. Nello stesso momento in cui crediamo di poter colmare la nostra distanza dal centro irradiante della sua pulsione creativa, ci sentiamo sospinti (ma non respinti) a contemplare un paesaggio di accumulazioni e o di agglutinanti smembramenti.

Hanno operato proprio perciò con affettuosa sagacia i curatori del Meridiano Mondadori – Giovanni Agosti principe di cerimonia –, procedendo per accostamenti provenienti dalle diverse aree operative dell’autore, dal teatro precipitando nel saggio d’arte, dalla forma narrativa ai versi, e creando, attraverso queste prossimità, la percezione di un corpo unico, non di un corpus ma propriamente di un corpo, con una sua slabbrata ma evidente fisicità. 

E questo tanto più, essendo il corpo una delle ossessioni di Testori, per come l’ha certamente vissuto e per come ne è andato alla ricerca là dove era rappresentato e là dove lo avrebbe portato lui stesso, sotto le luci oblique e calde del fuoco barocco. 

Li si percorra questi scritti, come sentiero, e le occorrenze di corpi esposti finiranno addirittura per non sorprendere, tanti e tanto attesi appaiono. Dai “pestanti” di Francesco Cairo ai boxeur e ciclisti del Dio di Roserio, dai crocifissi di Varallo alla “cinerea, smorta” Cleopatràs, senza trascurare il “terrore del corpo umano” essudato da Francis Bacon e la nudità straziata del corpo di Cristo di Ossa mea. C’è un vero e proprio calvario erotico nell’opera di Testori, che consente al poeta la preghiera blasfema, e all’allievo di Roberto Longhi una lettura esaltata di Gaudenzio, di Tanzio e, prospetticamente, di Géricault. Nel teatro, piuttosto che le storie, è la lingua a calamitare fisicità, a evocare carne, a stornare la pulizia drammaturgica verso un impasto abissale che scava nel lascito dialettale, e al contempo in una lingua colta franta, anzi scannata; e non solo: il corpo nel teatro di Testori diventa sempre più il corpo dell’attore, il corpo-voce, ma anche il corpo abbandonato, messo a terra, messo al muro – si branciarolizza. 

Il Meridiano pubblica “In exitu” romanzo, con citanti virgolette, ma va da sé che il corpo, così come, di lì a poco, va in scena fuori e dentro la scatola scenica, comincia lì, stracciato come è il corpo del dolore, e così come è – perché alle umane membra si aggiungono altre fisicità – il corpo della città “contristata”, “umiliata”, “derelitta”, “assediata”, “esacerbata”. 

La selezione di Agosti non lascia esondare nessuno dei possibili assilli dell’opera di Testori, ma non teme, proprio perché sceglie, di dar spazio alle ossessioni, alle insorgenze che dilatano e alle posizioni (o per meglio dire, le prese di posizioni) che talora contraggono l’ampiezza del taglio prospettico. Se il corpo è per definizione una costante che, nell’intolleranza anticonformista (soprattutto nella seconda, controversa fase della testimonianza politica e religiosa di Testori), sa sempre imporsi come disturbo, provocazione e scandalo, esistono insistenze, assiduità, accensioni che, come il corpo, non smettono di segnare ricerche, contemplazioni, affondi. 

Chiamiamo pure assiduità il confronto ostinato con il carattere lombardo, nonché milanese – dove con lombardo o milanese non suoni evocativo della sin troppo abusata definizione di “linea lombarda”. Siamo di fronte a una profondissima avventura identitaria che passa attraverso la continuità del lascito di una terra, soprattutto materna, per certe sfibrate dolcezze, ma anche paterna o, per essere drastico, virile. 

Qui il corpo è un corpo geografico. 

Il “teatro” dell’opera testoriana è di fatto contenuto in un triangolo che a nord è chiuso dal Lago di Como e comprende in una ben disegnata mappa esuberante di toponomastica la Brianza dei colli – diciamo così – pariniani, le Prealpi lariane, la Valsassina manzoniana, la periferia di Milano; a est si sviluppa nella pianura, nonché nelle valli bergamasche e bresciane (dove Testori indaga, Roberto Longhi complice, i pittori Gerolamo Romanino e Alessandro Bonvicino detto il Moretto); a ovest, quella “Lombardia piemontese” che da Novara sale verso la Valsesia e si affatica su per il Sacro Monte di Gaudenzio Ferrari. 

Non è un caso che in Cleopatràs, come già nella Trilogia degli scarozzanti, Testori guidi verso una Roma ribattezzata Ambrosium la regina incatenata, passando per borghi già noti attraverso il Gadda della Cognizione del dolore: Le rive del Segrin / si vuol / ch’io me incosì traversi? / E incosì Giussàn, / Desio, Invarigo / per giù alla città monzasca / poi ’rivare? / Farmi, me, me, / dalla Teodolinda / ecco, scornare / per poi fangosa et infangata / all’urbis delle urbis, / ecco, ’prodare? Questa miserabile Cleopatra non vuole arrivare “sputtanada” sulle barche / et i barconi dei Navili, nella urbis delle urbis. La città delle città, Milano. Come già nella Pastrufazio di Carlo Emilio Gadda, ci troviamo di fronte a una metamorfosi linguistica (verso l’ispanico in Gadda, verso il latino in Testori) che contrae e dilata nello stesso momento la metropoli lombarda per dissimulare l’indissimulabile.

Quella città Testori l’ha conosciuta, come poteva conoscerla un ragazzo di buona famiglia, e quando ha provato a raccontarla le ha attribuito, con trasalimento ottocentesco, dei “segreti”, e magari un ventre, letterariamente creditore a una Parigi del sopruso e del riscatto o della scalata sociale come quella di Sue, di Hugo, di Balzac. I segreti di Milano sono in verità solo ciò che non si vede a occhio nudo, sono il fastidio che sta dietro le vite di poveri appartamenti di quella che sta diventando una infinita periferia. Testori guarda a questa Milano e la guarda anche attraverso El nost Milan di Carlo Bertolazzi, che – come rammentano Giovanni Agosti nella prefazione e Giuseppe Frangi nella articolatissima biografia – il giovane Testori ha conosciuto attraverso la memorabile messa in scena di Giorgio Strehler nel 1955 (“In che modo risentire altra volta, magari nell’ora in cui la malinconia ci punge e ci assedia, la voce della Cortese, vera anima di nebbia vagante tra il Tivoli e le ‘Cucine Economiche’”). 

È, la sua, una Milano che sta ancora patendo i guasti del dopoguerra e si prepara a vivere, con il boom, anche l’immigrazione dal Sud; è la Milano in cui la malavita si mescola a figure di camiciaie, di sarte, di operaie, di baristi, di boxeur, di prostituti (tutti rigorosamente “articolati”: il Brianza, il Ciulanda, il Camisasca ecc.), e dove dominano perlopiù ardue condizioni di sopravvivenza, in cui si insinua il vortice del destino (e l’Arialda è lì a rammentarci che i morti sono meglio dei vivi). Il clima è elettrico. Testori cerca le sue storie dove i “segreti” sono paradossalmente evidenti, senza mistero che non sia quello di un pervasivo, sgangherato malessere. E non a caso non sono i “poveri” a tendere l’elastico della sua attenzione, tanto meno i destini generali di una classe operaia che fatica a mettere a fuoco (almeno attraverso il filtro della prosa ideologica delle mobilitazioni di fabbrica), quanto, semmai, la furia con cui si può soffrire una condizione di marginalità o, ancor più, di sopraffazione psico-sociale. 

Succede dunque che la generosa e complicata visione degli umili passi con esiti più significativi dalla scrittura al cinema di Luchino Visconti (che del resto ben poco attinge dai racconti di Testori, al di là di certa focalizzazione toponomastica, come il ponte della Bacula, il Mac Mahon, Vialba, Lambrate, il Bligny). Il melodramma sociale si scatena veramente quando si contamina, via Visconti, di melodramma stricto sensu. E allora ecco Rocco e i suoi fratelli, ecco Rosaria Parondi/Katina Paxinou che pre-sente, come fosse ispirata da un dio, l’arrivo del figlio che manca, ecco Nadia/Annie Girardot che si offre alla morte come Carmen di Bizet. 

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Che cosa sia stata Milano per Testori, forse lo racconta meglio delle sue prime avventure narrative la lunga storia che lo lega alla città attraverso le frequentazioni, le istituzioni, l’editoria, l’accademia, il mondo dell’arte, e la censura, e alla quale Giuseppe Frangi offre preziosi affondi nella biografia del Meridiano Mondadori. 

D’altro canto, uno dei pregi assoluti di queste Opere scelte a cura di Giovanni Agosti è il sentire, come mai era accaduto, il nodo che lega il Testori dei Segreti di Milano allo studioso, impegnato, negli stessi anni, a indagare e scandagliare nella pittura lombarda, quella che invera un modello etico e stilistico. Essendo il suo esercizio nella critica d’arte ben lontano dalle freddezze dell’accademia (ma non estraneo alla severità della ricerca), è salutare leggere o rileggere in sequenza (e con il gusto della sequenza) Il dio di Roserio e Gaudenzio e il Sacro Monte, G. Martino Spanzotti. Gli affreschi di Ivrea e L’Arialda. Salutare, dicevo. Giacché, proprio così leggendo, avventura teatrale e adesione a capitoli d’arte lombarda poco nota – e tuttavia apicale negli esiti –, si coglie, in una corretta prospettiva, quel trascorrere di ruvida e dolcissima pietà che è il segno più forte lasciato da Testori nel raccontare le sue figure di ribelli perdenti e penetrando la monumentale ma umile “cinematografia” del teatro montano e dei suoi calvari. 

Si diceva di Testori lombardo. La si avverte, e quanto, questa Lombardia nel ritrovato e finalmente pubblicato Luchino, ancora a cura di Giovanni Agosti. Omaggio a Visconti – poi sconfessato –, ma soprattutto elegia di una intesa complessa, che Testori riannoda proprio attraverso i modi, gli echi, i rimandi di una scena lombarda che, a partire dal molo di villa Erba a Cernobbio, e dalle campane che arrivano dai borghi di pescatori del Lago di Como, si muove per le aristocratiche residenze di Grazzano Visconti, di via Cerva a Milano, per le nobili scuderie di San Siro, fino alle stanze solo apparentemente romane della villa di via Salaria. 

Esiste una sorta di prossimità di memoria in questa ricognizione viscontiana, quasi si avvertisse, facile come un balzo adolescente, lo scavallare da Cernobbio a Sormano, di là da Zelbio e dal Pian del Tivano, sull’altra riva del lago. E Sormano, con tutta la Valle Assina, è borgo quanto mai testoriano, borgo da cui prende le mosse la fortuna dell’industria di filati Testori che, pur essendo ormai radicata a Novate Milanese, lì poi fa ritorno nei secondi anni cinquanta con un nuovo stabilimento inaugurato dalla visita dell’arcivescovo Montini. 

Mi si consenta una parentesi autobiografica: non ho conosciuto di persona (anche se per molte ragioni sarebbe stato possibile) Giovanni Testori, ma a Sormano ho passato, ovviamente ignaro, due estati in età prescolare; per molti versi, questo è stato motivo di simpatia nei confronti dell’autore, quando, forte di una intimità segreta con i suoi luoghi (Lasnigo, la pieve di Sant’Alessandro, Barni, Magreglio, Civenna, il Ghisallo, santuario dei ciclisti), mi è sembrato, alla tardiva lettura dei racconti, del teatro, dei versi, di percepire in quei toponimi il versante meno ruvidamente calcareo, più trasparente, del suo rapporto con il mondo e della sua sussultante disposizione religiosa. E Lasnigo, impalpabilmente materna, più di Sormano, essendo nata la madre Lina Paracchi proprio nel borgo incuneato nella valletta del Lambro (te vedo ,/ te revedo ,/ anz’anzo, te tango / o mia civis de Lasnigo). 

La Milano di Testori coincide con lo sciamare di un popolo che, come si usa dire in area lombarda, “vien giù” da quelle Prealpi, dalle colline briantee, nonché dalla civiltà che, dal Settecento fino al primo Novecento, è cresciuta in quell’assieparsi di ville e villaggi, pinzati contro il cielo dai Corni di Canzo, figli dell’ombra del Monte Palanzone e del San Primo. 

Ecco, c’è di lombardo in lui quel digradare, senza il quale poco si intenderebbe del più drammatico rapporto con la città (“Oh città mea de me, magnificenza de vastità et de grandezza che te levi d’in dell’humus della terra erborante su, su, e poi ammò più su fino a strofenare cont il tuo naso e le tue narici le nigore viagganti…”), poco si sentirebbe il dilemma del confliggere fra “terra erborante” e “magnificenza de vastità”. 

Per tornare all’avventura di Luchino, va detto quanta corrosiva distanza corra fra l’aristocratico comunista e il borghese cattolico, e come la si avverte. Sono entrambi figli e nipoti dell’industria lombarda, lombardissima invero (la farmaceutica di Carlo Erba e la tessile della Filtri e Feltri, l’uno lasciato ai margini dell’avventura produttiva della famiglia, l’altro indotto senza successo a frequentare il Politecnico. Visconti, uomo di cani e di cavalli, Testori giovane pittore; Visconti scaligero, Testori affezionato frequentatore del teatro di rivista. Le Ferrovie Nord passano accanto alla fabbrica e alla residenza novatese dei Testori: anche in questo destino ferroviario si sente il filo tirato fra Prealpi e Ambrosianum, il filo fra una condizione di privilegio e una sete di destini popolari. 

Abbiamo principiato dal corpo, riconosciuto la strada (meglio ancora il sentiero) di una dolente levità lombarda, e al corpo – lo si riconosca, il tracciato, nella lettura in sequenza del Meridiano – si fa ritorno, ma con il levarsi, sanguinoso e alto, di un grido rovinoso, crudele, ustionante, un grido che attraverso il corpo (e verosimilmente il corpo di Dio) chiama bestemmia e amore dentro una stessa arena. Non è più la nebbia / e nemmeno la vanità della memoria, / è la pena d’aver creduto / che agli uomini possibile / la storia, morde nei versi di Nel tuo sangue (1973). E ancora più – se possibile – definitivo, trascorre dalla carne fino ad altra materia, nella raccolta Ossa mea del 1983: Uccidimi, Signore, / perché rinasca in Te, / per esserTi figlio / nell’assente Sapienza. La scena apocalittica a cui i versi ambiscono come naturale obiettivo è la stessa che poi corteggia e si strazia nel teatro del decennio seguente. 

La rabbia, l’ostilità, la confusione hanno lasciato Giovanni Testori su una soglia che per molto tempo hanno varcato in pochi. 

Queste Opere scelte del Meridiano Mondadori sono una opportunità felice di superarla, questa soglia, e di rimettersi in ascolto del “Noi, veleno”, del Male che il poeta ha cercato dentro i montanari smarriti del Sacro Monte, dentro il sussulto tossico, dentro le braccia levate di Arialda, nel precipizio dei suoi –às. 

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