Sulla moralità dell'arte / Artisti nell'era della nuova "inquisizione"

14 Gennaio 2018

Si è arrivati a spulciare gli archivi dell’Università di Princeton, che raccolgono 57 anni di opere e appunti di un cineasta come Woody Allen, per decretare, senza la minima soggezione nei confronti del ridicolo, che ci troviamo di fronte a un’apoteosi di “riflessioni misogine e lascive”. Avete letto bene: nient’altro che riflessioni “misogine e lascive”. Sparita l’anatomia degli amori fra nevrotici, che raggiunse l’acme dell’efficacia narrativa in Io e Annie (1977), spariti i dilemmi etici di pellicole come Crimini e Misfatti (1989), sparita l’estetica dell’insensatezza e dell’impero del caso, che permea tutti i film del regista. Restano solo la lascivia, il libertinaggio, la licenziosità. Naturalmente, quello di Richard Morgan, autore delle valutazioni in questione per il Washington Post, è un concetto dell’opera di Allen talmente riduttivo da non necessitare l’intervento della critica d’autore per essere smontato. Basta il buonsenso. Come dire? È un giudizio che sconcerta, visto il pulpito da cui proviene, ma in sé non può far paura: siamo pur sempre nell’era dell’avventatezza e la banalizzazione fa parte delle esperienze di ogni giorno. A spaventare sono, piuttosto, gli aggettivi impiegati da Morgan. A quelli non siamo proprio abituati: non se ne sentivano di simili dai sermoni Calvino, ed era il ‘500.

 

Purtroppo, non si tratta di un’isolata conversione al puritanesimo: la proposta di far rimuovere dall’esposizione permanente del Metropolitan Museum of Art di New York un quadro di Balthus, accusato di “promuovere la pedofilia” (“Thérèse rêvant”, 1938), aveva raccolto sul web, non molto tempo addietro, migliaia di consensi. È proprio di questi giorni, invece, la polemica sulla trama “rivisitata” della Carmen, che il sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino, Cristiano Chiarot, ha voluto più aderente alla sensibilità contemporanea, evitando l’uccisione di Carmen e facendo della stessa un’omicida per legittima difesa. Come ha dichiarato lo stesso Chiarot: “Nel momento in cui la nostra società è piagata dal femminicidio, come possiamo osare di applaudire l’uccisione di una donna?”. Sia chiaro: non c’è nulla di retrivo nell’attualizzazione di un classico. La classicità di un contenuto artistico consiste precisamente nella possibilità di salvaguardare il suo rapporto col presente, e non c’è scandalo in una regia che sottolinei i legami dell’opera con le ansie e (perché no?) con le paranoie della contemporaneità. Nulla vieta di giocare con l’oggi e col passato, mischiando le carte.

 

 

Provocando. La “rilettura” è sempre lecita; tutt’al più, andrà sottoposta al giudizio del buongusto e all’indagine sull’equilibrio (sempre difficile, soprattutto a teatro) tra l’interpretazione autentica dell’autore e le forzature perpetrate dai posteri. In fondo, si tratta della vecchia operazione di apporre i baffi della Gioconda. Ciononostante, il sempre più acuto interesse per il politicamente corretto in campo artistico impone una domanda, invero banale: che sta succedendo? Almeno apparentemente, si tratta di una disputa vecchia come l’uomo sulla moralità dell’Arte. Se non altro, così è stata interpretata da molti. Il dubbio, però, è che la posta sia ancora più alta.

 

Volendo guardare in profondità, infatti, ci si accorge che il dibattito non oppone realmente i partigiani di un’arte “morale” ai fautori di un’arte “amorale”. Per dirla in termini ancora più chiari: la diatriba non riguarda l’estraneità o la presenza dell’etica nel discorso artistico, quanto la natura di quest’etica e dei principi che la reggono. Secondo i “censori” (li chiameremo così per comodità di argomentazione, senza temere, tuttavia, di discostarci troppo dalla realtà), i prodotti dell’ingegno devono fare i conti con i criteri di giudizio comuni; insomma, non esulano dal campo d'azione della morale generica, chiamata a governare ogni sfera della vita. Chi considera, invece, che questa tesi non possa essere accolta, perché dubita che esista una morale in grado di vestire tutte le fisionomie della realtà, non auspica (come credono i più) un’arte “priva di moralità”, ma ritiene che la moralità di cui sopra non sia quella comune, bensì qualcosa di diverso; di necessariamente diverso. Non siamo nuovi a incomprensioni di questo tipo: ne era già stato vittima il povero Machiavelli, eletto dai posteri “amoralista” per eccellenza, quando si era limitato a constatare, per l’appunto, che la politica ha sì una morale, ma una morale sua propria, che tende alla stabilità dei governi e all’accrescimento del potere dei governanti, a dispetto di ogni considerazione religiosa o parareligiosa.

 

Un concetto assai poco egoistico, se si considera il fondamento da cui muove: l'idea che dall’instabilità e dalla debolezza del governo discendano, per i governati, mali ancora peggiori di quelli che derivano dal mancato rispetto della carità e financo della legalità formale. È il vero assunto del Principe; un assunto che ci porta a un’ulteriore considerazione: esistono morali settoriali, che nulla debbono avere a che spartire con quella diffusa. Nell’interesse stesso della comunità. L’arte è precisamente uno di questi settori, poiché il suo fine non è la tranquillità sociale (quantomeno, non in via diretta); è, piuttosto, la conoscenza del mondo di fuori e di dentro, ovvero degli altri e di sé. Una consapevolezza che può (talvolta deve) passare attraverso la sfida delle convenzioni, l’eccesso, la perdita di riferimenti consolidati. Ecco la funzione dell’arte, ecco la sua morale specifica. Per concludere: quella sui film di Allen, sui dipinti di Balthus e sulla rivisitazione di Bizet non è una contesa fra eticità e cinismo; è uno scontro (persino più grave) sul ruolo della cultura nella vita pubblica. Viste le premesse, siamo autorizzati a ogni inquietudine.

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