Audit versus Automation University

11 Aprile 2014

UGenea raccoglie/incrocia le riflessioni di studiosi, artisti, ricercatori che, grazie ad un particolare modo di osservare, indagare, rappresentare, raccontare, contribuiscono alla formulazione di un approccio GENEALOGICO alla conoscenza che, in questo primo caso, riguarda l’Università. Trasversalmente alle discipline, incontreremo autori noti e meno noti, del presente, passato recente o più remoto, che guardano criticamente alla modernità, mettendone in luce limiti e potenzialità attraverso una narrazione originale, che si fa palestra per il pensiero sul futuro: Friedrich W. Nietzsche e Michel Foucault, Friz Lang, Agota Kristof, Antonio Caronia, Edgard Morin, Humberto Maturana, Bruno Latour, Marshall McLuhan, James G. Ballard, Michael Power, Laura Maran, Francesco Monico, Alessandro Monti, Pier Luigi Capucci, Alberto Melucci, Patrizia Moschella, Paola Rebughini. E ancora Maurice Benayoun, Alexandre Joly, Rebecca Allen, Cristiano Ceccato, Golan Levin, John Maeda, Max Weber, Francisco Varela, Ignacio Matte Blanco, Galileo, Franz Kafka, Buckminster Fuller, Bertold Brecht, Ivan Illich, Rainer Werner Fassbinder, Giovanni Leghissa, Derrick de Kerckhove, Frank Capra, David Weinberger, Dimitri Chimenti, Neil Postman, Stefano Laffi, Massimiliano Viel e sicuramente altri. UGenea avrà l’onore/compito di connetterli, in un ordine apparentemente casuale (flippatico appunto, ma in realtà genealogico), facendoli dialogare, al di là del tempo e dello spazio, lungo un discorso generativo sul sapere che non rifiuta, anzi rischia e affronta, conflitti, controversie, paradossi, rotture e continuità, e che si fa urgente raccontare anche attraversando le generazioni in un appuntamento mensile: Discorsi sull’Università.

Mentre U sta per Università, ma si presta alle declinazioni Umano, Umorismo, Utopia, e vedremo…Genea sta per approccio genealogico (discorso sul metodo), per generazioni di autori a confronto e per racconto generativo (aperto a contributi ed evoluzioni creative).

 

 

Che cos’è quel virus che sta infettando le università di tutto il mondo e che si alimenta dell’ibridazione pubblico-privato-finanza? Chi sono i protagonisti di questo nuovo scenario che affonda le sue origini nelle tecniche di controllo sul sapere, facendo emergere i famosi discorsi trattati da Foucault in tempi non sospetti? Che cosa ne sarà dell'Audit University, l’Università di revisione, in epoca tecnologicamente avanzata?

L’introduzione, inquietante non solo per gli addetti ai lavori (oltre a rettori e docenti, anche sociologi, filosofi, studiosi del mondo della formazione), in realtà/pratica riguarda tutti e merita di essere approfondita. Riprendo l’articolo di Francesco Monico che proprio su doppiozero, conoscendo e condividendo la nostra ricerca, ha introdotto il tema delicato e complesso dell’audit society, di cui prevediamo una deriva non solo narrativa, proponendo uno scenario di automazione in ambiente universitario.

Si può guardare all’università antropologicamente, come luogo di costruzione e trasmissione di sapere tra generazioni, oppure funzionalmente, come ambito di formazione delle classi dirigenti, e ancora, economicamente, come nuovo business planetario in piena espansione. Tuttavia è solo osservandola genealogicamente, nella sua essenza istituzionale, che si potranno cogliere gli intrecci tra macroeconomia e pratiche del potere e del controllo sulla vita quotidiana presente e futura di ognuno di noi. Ed è questo lo sguardo che qui si propone mettendo in luce rotture e continuità, conflitti (direbbe Foucault) e controversie (dice Bruno Latour).

Nata sul paradigma illuminista incentrato sulla vittoria della ragione sulla religione, ma riconosciuta, a partire dalla seconda metà del '900, come principale erogatrice di competenze, l’università moderna rappresenta un luogo privilegiato di osservazione di come la modernità sta traghettando le giovani generazioni al nuovo mondo, attraverso l’efficace attività dei revisori.

Come dice, non a caso, l’inglese Michael Power, le cause dell’esplosione dell’audit society, di cui registra una crescita esponenziale a partire dagli anni '80, sono principalmente tre: “la nascita della nuova gestione pubblica”; esigenze in materia di “responsabilità e di trasparenza” per conto dei cittadini/contribuenti (utenti, pazienti, studenti), e infine “la nascita di modelli di garanzia della qualità del controllo organizzativo”.

Ma è nell’inferenza finanziaria sulle università che vivono l’ibridazione pubblico-privato e sono lanciate sul mercato internazionale, che l’attività di revisione trova la sua massima forza di espansione, fino a penetrare la vita individuale diventando virale, anche grazie alle nuove tecnologie.

Facciamo un passo indietro. Il controllo finanziario è, infatti, una pratica inferenziale che cerca di trarre conclusioni da un numero illimitato di ispezioni di documenti, resoconti e report – come ad esempio i bilanci e le transazioni scritte – oltre al ricorso a testimonianze orali e all'osservazione diretta, finalizzate a misurare le performance dei collaboratori – docenti, personale didattico e organizzativo – rendendole verificabili a distanza nel tentativo di plasmare/omologare l'attività individuale e organizzativa locale a modelli di rischio per derivati definiti, chissà dove, dall’autorità madre.

Ma è importante mettere in guardia da tentazioni ideologiche contro l’università privata, di lunga tradizione e ottima offerta, evitando di osservare l’esplosione della pratica di revisione in università come un gesto isolato (privato-finanza), ma leggendola, invece, come forma di insediamenti collettivamente negoziati, che si sovrappongono alla lunga storia di pratiche di controllo locali in cui emerge il ruolo degli stati. Nel caso dell’università è utile analizzare, come abbiamo cercato genealogicamente di fare (rovistando nell’archivio che raccoglie 15 anni di documenti), il processo di implementazione della famosa Bologna Declaration: riforma universitaria, molto controversa, che nel 1999 sancisce la nascita della EHEA (European Higher Education Area), e con essa l’apertura a processi di internazionalizzazione delle università locali firmata da ben 49 membri. Paradossalmente porta nel naming “Bologna”, una delle prime università medievali europee.

Inserita nell’assai più ampia analisi sul neoliberismo che ci offre il filosofo Giovanni Leghissa, la riforma rappresenta uno tra i tanti impianti normativi che permettono agli stati nazionali (intermediari locali) di partecipare, promuovere e implementare, la rete di relazioni transazionali di scambi – di capitali, derivati, persone – di cui è costituita la globalizzazione del mercato formativo: l’unico modo che permette agli stati di ritagliarsi un ruolo importante nell’intermediazione con le multinazionali.

A differenza di quanto apparentemente sembrerebbe, Leghissa invita ad osservare come “…non è vero che l’economia governa il politico, ma è vero che il politico si fa attraverso l’economico…”. Nessun riferimento a quanto accade nel nuovo governo italiano può essere così puntuale. Tornando al tema, con la liberalizzazione del mercato formativo si osserva una crescita di soggetti coinvolti nei processi di gestione, controllo e monitoraggio: le multinazionali e la finanza si affiancano al privato locale e al pubblico che, in questo modo, mantiene un ruolo chiave nella gestione delle risorse assumendosi la sua parte di revisione a discapito, come vedremo, della salvaguardia delle risorse locali. Nulla di nuovo: è successo con imprese di prodotti e servizi, ma è con l’università, che il fenomeno fa emergere l’inevitabile svuotamento di legittimazione delle autorità locali nel generare processi di conoscenza che salvaguardino il patrimonio di sapere destinandolo a percorsi di innovazione.

Ma attenzione, puntualizza l’acuto Michael Power: l’attività di audit ha anche un potere auto-legittimante e purificante.

Alla legittimazione, un tempo associata all’erogazione di servizi di qualità, si sostituisce oggi quella di revisione che diventa distintivo di legittimità in sé: un marchio, o tentativo di rebranding, laddove alla perdita di fiducia nelle istituzioni di governo centrali, in particolare della politica, si associano la perdita di fiducia nella leadership intellettuale ed economica, sostituita dalla creazione di industrie di controllo che soddisfano la domanda di segnali di ordine.

Inoltre, si può interpretare la revisione come una forma elaborata di confessione e purificazione organizzativa periodica (terzo punto indicato da Power: modelli di garanzia della qualità del controllo organizzativo) a fronte di una crescita dei costi e dell’inefficienza da attribuire proprio alla revisione. Lo dimostra l’esemplare e minuziosa analisi della ricercatrice italiana Laura Maran che, sull’onda della faticosa opera di Foucault (da noi associata per empatia), si è presa la briga di confrontare i costi dell’impianto universitario italiano, contabilizzando l’impatto burocratico ed economico dei soggetti gradualmente coinvolti nella revisione universitaria, lungo il passaggio da una riforma all’altra.

L’immagine sottostante, ripresa da un altro studioso genealogista Alessandro Monti, assolutamente distante da qualsiasi approccio creativo, rappresenta il confronto tra soggetti coinvolti nell’apparato universitario (con relativi costi) dal 1979 (13) al 2007 (28), in netta crescita dopo la firma della Bologna Declaration.

 

 

È ora evidente che l'esplosione di audit non è semplicemente una risposta funzionale alla complessità e al rischio crescente in diversi settori della società.

Tuttavia, arrivata a una certa soglia, l’audit society necessita di tecnologie sempre più sensibili e più efficienti a garanzia del rinnovato controllo, capaci di sostenere pericolanti fabbricati che stanno affondando.

Ed è a questo il punto, per farla breve, che nella nostra lettura apocalittica, kafkiana o fritzlangiana, l’audit-virus si trasforma in automation-virus – trovando nelle nuove tecnologie un alleato straordinario, soprattutto se associato alle macro-trasformazioni economiche che investono istituzioni fondamentali come le università moderne in fase di avanzata maturazione.

Mentre alta informatizzazione e internazionalizzazione mettono in crisi l’impianto moderno dell’università come luogo chiuso e fondato sulla separazione/segmentazione disciplinare, l’unidirezionalità/verticalità del rapporto formativo docente-discente, la classificazione gerarchica della conoscenza e, infine, come direbbe il visionario Foucault, la centralizzazione piramidale del sapere controllata direttamente o indirettamente dagli stati a sostegno del neoliberismo, la sua struttura istituzionale di revisione si aggiorna con l’aiuto delle nuove tecnologie, e dell’E-Learning in particolare, in nome dell’abbattimento dei costi. E chi potrebbe controbattere l’evidenza che la forbice sotto visualizzata, dimostra senza ombra di dubbio.

 

 

Ma la forbice non racconta di come l’associazione audit-management-e-learning si traduce nella costruzione di corsi di formazione riutilizzabili e automaticamente esportabili, che una volta tarati attraverso fasi di verifica, possono essere erogati con la promozione di auto-gestione dei processi di apprendimento portando diversi utenti allo stesso obiettivo finale. Trattasi di corsi strutturati su pacchetti di contenuto ben definito, piccoli blocchi interattivi finalizzati ad obiettivi specifici di apprendimento: all'acquisizione di competenze programmate e riconosciute. Sono perfetti per un utente frettoloso, interessato alla certificazione di professionalità e che richiede un feedback immediato sugli skill (l’uso dell’inglese non è casuale). Sono dedicati ai famosi “digital native”, ai quali Marc Prensky e Khan Academy si stanno egregiamente rivolgendo? Non esattamente.

Per rispondere è utile adottare un approccio integrato che contempli l’emersione di contraddizioni facendo partecipare al nostro dibattito soggetti con istanze contrastanti, insomma mappando le controversie, come direbbe Bruno Latour, o facendo emergere forme di resistenze, secondo il lessico di Michel Foucault.

Sintetizziamo un articolo di Massimo Gaggi pubblicato sul "Corriere della Sera" nel dicembre 2013: mentre le università di mezzo mondo, con l’obiettivo di abbattere i costi di formazione, si avventurano nel nuovo territorio dei MOOC – Massive Open Online Courses – inaugurato da Sebastian Thrun, lo stesso Thrun, che parte da un sogno di democratizzazione dell’università spesso sostenuto da multinazionali, dopo aver avvicinato oltre 160 mila studenti cambia rotta e, sulla base di accurate indagini, rilancia il dibattito sulla ricerca di nuove pratiche pedagogiche, capaci di arginare il processo di abbassamento della qualità e delle performance formative, determinato dai MOOC, dalla massificazione dell’apprendimento on-line.

Le parole di Thrun sono meno tenere: «Guardando i risultati conseguiti dagli studenti mi sono reso conto che il prodotto che offriamo è abbastanza schifoso».

Ritornando a noi. Se è discutibile che l’automazione risponda bene agli ampi segmenti internazionali che in passato hanno perso l'opportunità di un’educazione formale, i famosi paesi emergenti, il suo successo è necessariamente contrastato da quell’élite, nicchia/rank cosmopolita, che anche da quei paesi proviene, che guarda alla qualità e all’eccellenza e la cui domanda rimane inevasa dall’offerta MOOC.

Si tratta di una nuova élite, cosmopolita, in una nuova accezione che integra dimensione fisica a digitale, piuttosto insofferente ai vincoli, con esigenze più liberamente creative, orientata a uno sviluppo intellettuale e con maggiore flessibilità cognitiva. Sospettosa del trasferimento selvaggio del connettivismo in ambito universitario, questa comunità guarda al potenziale tecnologico senza sottovalutare la complessità delle conoscenze tecniche e cognitive raggiungibili solo dopo un lungo e dettagliato programma di formazione in cui l'approccio euristico e maieutico sono fondamentali. Non a caso questa élite approda nelle facoltà umanistiche e artistiche, di cui l’Italia vanterebbe ancora un primato riconosciuto nel mondo, ma che non può conciliare con l’automazione e che rischia di essere da questa eroso, facendo perdere anche l’ultima risorsa di attrazione di giovani brillanti provenienti da tutto il mondo, mentre i nostri ragazzi sono già altrove.

 

Sono individui, studenti e docenti, che scelgono di partecipare, come direbbe Derrick de Kerckhove, alla costruzione d’intelligenza connettiva, mettendo in rete la propria esistenza in tempo reale, riscoprendo la vitalità intellettuale come estensione di esperienze sensoriali rinnovate attraverso l’esclusività del rapporto umano, dell’incontro e del confronto. Disposti ad itinerare, come nelle prime università medievali, in cerca di incontri dedicati alla costruzione di sapere.

Chiediamolo ai rettori che, anche in Italia, stanno continuando a investire nell’eccellenza della proposta formativa, coinvolgendo docenti dedicati all’approfondimento della conoscenza e che negli ultimi anni hanno visto crescere le iscrizioni ai corsi, generando circuiti virtuosi dove è centrale lo sviluppo del pensiero critico e un approccio creativo al sapere.

 



Bibliografia

Foucault, Michel. «Society Must Be Defended»: Lectures at the Collège de France, 1975-1976. Picador, 2003.

Foucault, Michel. The Archaeology of Knowledge & The Discourse on Language. Vintage, 1982.

Gaggi, Massimo. Dietrofront: l’università online non funziona. Corriere della Sera. http://lettura.corriere.it/debates/dietrofront-luniversitaonline-non-funziona.

Kerckhove, Derrick De. Connected Intelligence. The Arrival of the Web Society. Kogan Page, 1998.

Leghissa, Giovanni. Neoliberalismo. Un'introduzione critica. Mimesis, Eterotopie, 2012

Latour, Bruno. Cogitamus. Sei letture sull’umanesimo scientifico. Collana Intersezioni, 2013

Maran, Laura. Economia e management dell'università. La governance interna tra efficienza e legittimazione, FrancoAngeli, Milano, 2009.

Monico, Francesco. http://doppiozero.com/materiali/web-analysis/limpertinenza-democratica

Power, Michael.The Audit Explosion, London: DEMOS, 1994

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