Beckett in Giappone

3 Dicembre 2013

Una delle cose che distingue il mio paese d’origine è l’assenza dell’attesa. È molto raro attendere qualcuno o qualcosa. Ogni cosa arriva in orario se non prima. Ovviamente, anche noi siamo invitati a essere sempre puntuali. Soprattutto in ambito professionale, far aspettare i clienti o gli utenti viene percepito come un’enorme negligenza e il primo obiettivo di ogni lavoratore sembra quello di eliminare l’attesa, ancor prima della qualità del servizio.

 

Omatase shimashita

 

Nei negozi e negli uffici pubblici in Giappone è difficile che aspetti. E quando arrivi alla cassa o allo sportello, anche se non hai aspettato più di cinque secondi, ti dicono Omatase shimashita (Scusi per l’attesa). È una frase fatta che ormai tutti dicono senza pensarci, quasi al posto di “Buongiorno”.

 

La differenza con l’Italia si verifica maggiormente negli uffici pubblici. Mi è capitato l’anno scorso di andare in alcuni uffici comunali in Giappone per una serie di pratiche burocratiche e con mia grande sorpresa (ormai sono abituato agli uffici comunali di Roma) ho scoperto che a ogni piano di questi uffici giapponesi c’è una specie di concierge che si avvicina a te smarrito e ti chiede: “Serve aiuto?”. Si tratta di solito di una signora gentile. Le dici cosa devi fare e lei t’indica l’ufficio o lo sportello esatto. In dieci secondi hai già trovato la destinazione. Non è poco. Arrivi allo sportello giusto (chissà perché, non ho quasi mai trovato la fila) e ti consegnano un modulo da compilare. Ti dicono addirittura dove puoi trovare la scrivania per scrivere. Seduto lì, ti accingi a compilare il modulo, ma non hai nemmeno il tempo di finire che già ti chiamano.

 

Io personalmente non ho mai potuto finire di compilare un modulo e mi presentavo allo sportello puntualmente come un deficiente che non sa compiere nemmeno una cosa così semplice. Più volte me l’hanno preso di mano e hanno finito loro di compilarlo. Dopo di che, la cosa procede magicamente sotto i tuoi occhi e dopo pochi minuti esci dall’edificio con il documento che volevi in mano. La prima volta non mi capacitavo.

 

Una volta arrivai in uno di questi uffici, mi indicarono un banco, ma dietro quel banco non trovai in quel momento nessuno. Mi videro però in due dal fondo della sala e fecero una corsa. Una vera corsa per servirmi, quasi litigando tra di loro. Mia moglie (italiana) scoppiò a ridere. Ovviamente loro non capivano perché lei rideva, ma voi sì. Quest’anno nello stesso ufficio si è ripetuta una scena simile, e questa volta, al posto della corsa a due dal fondo della sala, si sono alzati in cinque da dietro il banco, con uno scatto a molla impressionante. Io, ammutolito, con un gesto mi feci capire: “Me ne basta uno…”.

 

I treni arrivano (quasi) sempre in orario

 

I mezzi pubblici (autobus, metro, treni) arrivano con una puntualità spaventosa. Dico spaventosa perché ha sotto qualcosa di disumano. Ogni linea della metropolitana ha una tabella di marcia e i treni arrivano esattamente come sono previsti. Non arrivano più o meno ogni due o cinque minuti, come siamo abituati qui: al contrario di voi, noi sappiamo esattamente quando arrivano. Ore, minuti e secondi. Quindi le coincidenze sono affidabilissime, anche quando ci sono pochi minuti tra l’arrivo di un treno e la partenza dell’altro.

 

 

Da ciò altrettanti efficienti servizi on line di ricerca d’itinerario con i mezzi pubblici, con tutte le coincidenze illustrate con tanto di minuti d’attesa e di spostamenti a piedi da fare. Tutto calcolato. In un paese dove i treni non arrivano puntuali, non avrebbe senso avere un sito del genere. Prima di partire da casa si stampa questo itinerario con gli orari precisi e si viaggia esattamente come programmato. La vita giapponese riserva poco margine d’improvvisazione.

 

Tuttavia, perfino in Giappone a volte i treni arrivano in ritardo. A causare i ritardi sono due tipi di forza maggiore. Innanzitutto, vari disastri naturali come il terremoto, lo tsunami o il passaggio di forti tifoni. Ricordo che all’indomani dell’11 marzo 2011, il giorno del sisma di magnitudo 9 con l’enorme tsunami che tutti ricorderanno, i treni arrivavano quando potevano. Il paese aveva perso la sua “tabella di marcia”.

 

Stranamente, però, mi sembrò di scorgere un senso di sollievo nel volto della gente (di Tokyo dove non ci furono danni gravi), che difatti si era adattata immediatamente a questa nuovissima condizione. Scoprimmo di saper anche aspettare. Nessuno s’irritava. Anzi, la scoperta dell’attesa ci ha fatto assaggiare, seppure per pochi giorni, una dimensione della vita possibile che forse avremmo anche preferito. Purtroppo l’economia del paese non volle concederci più di tanto quest’altra dimensione di vita e la marcia “normale” riprese subito.

 

Un altro tipo di forza maggiore che causa ritardi ai treni è la gente che si butta sotto i treni. E non è così raro che i treni subiscano ritardi di questa natura. Il Giappone registra ormai da quindici anni oltre 30.000 suicidi l’anno (la popolazione è di 120 milioni) di cui molti consumati sotto i treni. Efficienti come sono le compagnie di trasporti (le ferrovie sono ormai completamente privatizzate da diversi anni), i passeggeri sono immediatamente avvisati dell’incidente con un termine particolare: jinshin jiko, che letteralmente significa “human body accident”.

 

In giapponese, come in inglese, non necessitando alcuna congiunzione tra jinshin (corpo umano) e jiko (incidente), il rapporto logico tra queste due parole rimane ambiguo. Un incidente causato da un corpo umano? Un corpo umano è coinvolto in un incidente? Un incidente all’interno del corpo umano?... Già il fatto di dire “il corpo umano” e non “la persona” mi fa rabbrividire, ma il termine è molto efficace e tutti capiscono immediatamente di cosa si tratta: qualcuno si è buttato sotto il treno, senza che questa frase venga mai pronunciata. E sebbene non sia imputabile a una loro negligenza, le compagnie chiedono scusa per il ritardo come se l’attesa fosse più grave della morte di quella persona.

 

A volte, il dovere di non far aspettare diventa un’ossessione mortale. Nel 2005, nei pressi di Osaka, un treno ha deragliato e 107 persone hanno perso la vita. La causa? Il giovane conducente aveva cercato di recuperare un minuto e mezzo di ritardo accumulato nell’ora di punta (è molto facile accumulare ritardi a quell’ora) e aveva accelerato troppo su un tratto curvilineo dove non avrebbe dovuto. Perché? Quella compagnia era molto esigente e chiedeva ai suoi dipendenti di adempiere a compiti difficili, obbligando a una “rieducazione” chi non avesse raggiunto l’obiettivo.

 

La rieducazione era spesso puramente punitiva e umiliante: per esempio, stare in piedi per l’intera giornata sulla banchina della stazione e quando arrivano i treni chiedere ad alta voce scusa ai passeggeri che scendono per aver causato dei ritardi o altre inadempienze. Quel giovane conducente aveva già subito una simile umiliazione e avrebbe accelerato proprio per evitarla, causando la morte di se stesso e di altre 106 persone.

 

Quad

 

Cosa costringe i giapponesi a correre così disperatamente per eliminare qualunque attesa? E soprattutto, senza che neppure se ne rendano conto? Qui si apre un mondo. Che, lo crediate o no, riguarda anche l’Italia di domani. Inoltre non si tratta di correre all’impazzata, ma di correre con “coscienziosità nell’esecuzione del suo lavoro”. Di certo, non per volontà dei singoli individui che qui mi sembra ridotta davvero al minimo. C’è invece una pressione sociale omologata che spinge i lavoratori, tutti nella stessa direzione, a tal punto che a volte si fa deragliare un treno per soli un minuto e mezzo di ritardo o si fa rispondere in ufficio con quel riflesso così esageratamente scattante. Non sono altro che sintomi di questa iper-pressione che regge quel paese.

 

Questo ritratto dei miei connazionali mi ricorda tanto un’opera di Samuel Beckett del 1981. S’intitola Quad, scritta per la televisione. Quattro performer incappucciati fino alle caviglie e diversamente colorati (1.bianco, 2.blu, 3.giallo, 4.rosso), cambiando la combinazione tra loro (1, 1+2, 1+2+3, 1+2+3+4, 2+3+4, 3+4, 4, 4+2, 4+2+3…) percorrono molto velocemente i lati e le diagonali di un’area quadrata circondata dal buio, fino a esaurimento delle combinazioni.

 

È un balletto matematico che può evocare diverse immagini: uomini che nella vita continuano inconsapevolmente a ripercorrere sempre lo stesso tragitto, oppure l'io diviso in quattro che cerca invano un’impossibile unità... I personaggi non possono mai fermarsi, nemmeno nei pochi secondi in cui si assenta qualcuno, che comunque è destinato a tornare in questo balletto perpetuo. Una telecamera fissa li riprende dall’alto a una certa distanza, quella che assomiglia a una certa indifferenza non terrestre. Sembra davvero che esista un dio indifferente che guarda la povera umanità destinata a ripetere eternamente gli stessi gesti.

 

Mi sembra che Quad offra una terribile sintesi della vita di molti lavoratori giapponesi, imprigionati come i quattro performer in un sistema a loro invisibile.
Guardiamoli dall’alto, con lo sguardo freddo della telecamera: la ricerca dell’efficienza (eliminazione dell’attesa) sembra proprio determinare il grado di invisibilità del loro sistema, della loro prigione. Infatti, ad altissima velocità la nostra vista perde la capacità di captare il paesaggio circostante.

 

Ho un amico giapponese che guadagna più di 100.000 euro l’anno, ma ha pochissimi giorni di ferie e non avendo nemmeno il tempo per far nulla oltre al lavoro, sono dieci anni che vive divorziato in un triste monolocale con quattro gatti. Eppure quando lo vedi, sembra felice della sua vita. Riuscirà mai un giorno a togliersi il costume di Quad?

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