Book blog e lavoro culturale

9 Aprile 2013

Di seguito una recensione di Luigi Bernardi all'ebook di eFFe, I book blog. Editoria e lavoro culturale a cui fa seguito una replica dello stesso eFFe. La discussione è aperta.

 

 

Cosa sono i book blog, come nascono, cosa fanno, come si sono evoluti. Mettiamo i punti di domanda e la risposta è questo pamphlet diffuso esclusivamente in via digitale con il sottotitolo chiarificatore di “Editoria e lavoro culturale”.

 

(Per questa recensione non sono stato pagato né lo sarò, in compenso ho ricevuto gratuitamente due copie del testo, una in formato .pdf e l’altra in .epub. Chi ha letto o leggerà questo libro digitale capirà il perché della premessa, a tutti gli altri è concesso il tempo di un battito di ciglia per dimenticarla.)
I book blog sono i blog dedicati al libro, all’editoria, alla cultura in senso lato. Sono parecchi, spesso a firma multipla, costituiscono un universo in espansione, ma devono fare i conti con un apprezzamento altalenante, quasi sempre proporzionale alle aspettative che nutrono: positivo o eccezionale quando potrebbero essere utili; “con lo stesso misto di disappunto e commiserazione che si riserva agli imbucati a una festa”, quando se ne farebbe volentieri a meno. Già questo tipo di personalizzazione è fuorviante, secondo eFFe, la firma dietro la quale opera in rete l’autore del testo, perché un blog collettivo non è rappresentabile da una singola firma e neppure dal loro insieme, quanto da un unicum che comprende anche i lettori e i commentatori, fino a diventare una sorta di intellettuale collettivo, “veri e propri luoghi di cultura, come le scuole, le biblioteche, le università”.

 

Cosa muova questo mondo non è chiaro, né eFFe prova a spiegarlo. Da un lato c’è sicuramente il desiderio di partecipazione, dall’altro il luddismo scanzonato di una generazione che ama scompaginare le carte. Come terzo propulsore aggiungerei la semplicità con la quale la rete permette di diventare interlocutori credibili. Non servono patentini, non è necessaria nessun’altra credenziale: basta esserci, e restarci con convinzione. A cosa serva è ancora meno evidente. Non pare in grado di aumentare le vendite dei singoli libri (sia pure attraverso una frettolosa ricerca citata nel testo insieme ad altre gustose anedottiche), e neppure di riversare in libreria quelle decine di libri che hanno pubblicato i colleghi blogger che si occupavano di giornalismo, savoir vivre e varia umanità, settori di impatto molto più fertile di quanto non sia la cultura.

 

Sia come sia, ci sono grandi editori che invitano i blogger a incontri con gli autori, appuntamenti fino a ieri riservati ai critici o ai librai. Agli editori interessa che se ne parli, indipendentemente dalla qualità dell’intervento che non sempre sembra essere elevarsi da una sufficienza anonima (è una conclusione mia dopo aver visitato alcuni collegamenti esterni che il testo invita a esplorare). L’editore vede il blogger  come capo claque, il portatore iniziale di un passaparola che dovrebbe condurre i libri interessati fino ai primi posti delle classifiche di vendita, un ruolo che fino a qualche decina di anni fa, prima dell’esplosione dei talk show televisivi, era esclusivo appannaggio della critica letteraria. Ma si può addomesticare il passaparola? O per sua natura non rimane la forma meno domabile di autonomia?

 

C’è una domanda che mi sentirei di fare all’autore del testo, e che inutilmente ho cercato fra le righe: cosa ne pensano gli scrittori di tutto ciò? Casualmente, ma è ovvio che non si tratta di un caso, ritrovo la stessa domanda in uno degli ultimi post sul blog dell’autore, quando egli stesso si chiede perché al dibattito sulle trasformazioni dell’editoria e quindi della letteratura manchi proprio la voce più interessata, ovvero quella degli scrittori. Da scrittore dico che la risposta è lunga e forse penosa. Ma è anche una sfida interessante alla quale forse non è più il caso di sottrarsi. Chissà che un giorno non sia proprio io a scriverla ed eFFe a recensirla.

Luigi Bernardi

 


     

(Non conosco Luigi Bernardi né francamente lo conoscevo prima che Doppiozero mi chiedesse di poter recensire il mio ebook. Mea culpa. Quello che ora so di lui l’ho appreso da Wikipedia. Ringrazio lui per la recensione e Doppiozero per l’opportunità di questo dialogo)
(Chi si domandasse il perché di questa precisazione iniziale, legga il libro e lo capirà)



“Cosa ne pensano gli scrittori di tutto ciò?” chiede Luigi Bernardi. Non sono io – scrittore a tempo determinato, per necessità e non per vocazione – a poter rispondere. Ma tra gli scrittori che conosco già in molti si sono posti domande simili: Vanni Santoni, Nicola Lagioia, Arturo Robertazzi, solo per citare le riflessioni più recenti tra gli italiani. Io ho fatto per diverso tempo il blogger, e di quel mondo posso parlare, invece, con cognizione di causa.

 

Vi è ancora una difficoltà generalizzata nel comprendere e nell’accettare che quello di blogger è un lavoro. Un lavoro che, come tutte le professioni, richiede competenze e capacità specifiche – a maggior ragione in un mondo, come quello della Rete, dove le reputazioni nascono e muoiono nel giro di un batter di ciglia. Se – deo gratias – non servono patentini, non basta né la presenza né la resistenza a fare di un blog, collettivo o individuale che sia, un polo di attrazione; tutt’altro: c’è bisogno di qualità, di profondità, di apertura, di capacità d’innovazione, di trasparenza – tutti ingredienti che in dosi diverse sanciscono o meno la rilevanza di un sito e la sua capacità di attirare un pubblico di lettori. Qui su Doppiozero questo lo sanno bene.

 

In particolare, quello dei book blogger è un lavoro culturale, i cui risultati si osservano nel medio e lungo periodo, non certo negli spostamenti giornalieri delle curve di vendita. Ci sono blog piccoli, con poche decine di lettori, che producono da anni articoli su articoli, recensioni e dibattiti: si potrà entrare nel merito, sostenere, a torto o a ragione, che si tratta di rumore di fondo, di esibizionismo. Eppure questa pletora di blog compie, talvolta inconsapevolmente, un’operazione cruciale: presidia un ambito tematico, e lo tiene vivo, fosse anche per quei venticinque lettori di manzoniana memoria. E ci sono i blog grandi, le riviste collettive, quelle su cui scrivono firme più o meno famose, e i cui contenuti spesso si riversano nei media tradizionali e tracciano alcune delle pennellate del panorama culturale italiano, spesso con una mano assai più incisiva di generazioni di critici e letterati. Vere e proprie macchine redazionali, con procedure, strumenti di lavoro e gerarchie di una certa complessità. Il tratto che accomuna la stragrande maggioranza delle persone che lavorano dietro gli uni e gli altri (con pochissime eccezioni) è che lo fanno in forma volontaria e senza retribuzione.

 

Riconoscere il carattere professionale e professionalizzante del mestiere di blogger pare allora essere una difficoltà che – secondo un paradosso solo apparente – caratterizza sia molti intellettuali nostrani che gli stessi blogger: si fa fatica, insomma, a uscire dalle rigide gabbie di un bisogno di definire ed etichettare. Dice il critico: “dov’è la tua profondità, tu che scrivi di libri?”. Risponde il blogger: “io lo faccio per passione, dentro un luogo mio, se non ti piace vattene”. Da questi atteggiamenti nasce un duplice isolamento, e chi ne fa le spese è la diffusione e l’ampliamento dei saperi, mentre chi ci guadagna sono alcuni editori che su questa assenza di riconoscimento giocano l’ambiguità di certe pratiche ormai diffuse.

 

Eppure l’industria editoriale fa solo il suo lavoro: cercar di vendere quanti più libri sia possibile. Non è ad essa che dobbiamo addebitare la colpa: questa, se c’è, è di chi espunge la dimensione etica dal lavoro culturale, di chi così facendo si deresponsabilizza nei confronti dei propri lettori, di chi crea steccati fittizi e perde di vista l’obiettivo comune: la promozione della lettura. Della lettura, ho detto, non dei titoli dell’editore X, Y o Z. Sono due cose diverse.

eFFe

 

Tutti i ricavati delle vendite de I book blog. Editoria e lavoro culturale andranno all'Associazione Tumori Toscana

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