C come cultura

2 Novembre 2015

ll 4 novembre 1995 moriva a Parigi il filosofo francese Gilles Deleuze. Doppiozero lo ricorda, a vent'anni dalla morte, con una serie di scritti. Iniziamo oggi con una delle lettere dell'abcedeario, film-conversazione con Claire Parnet registrato tra il 1988 e il 1989, con la clausola di non pubblicare nulla di quanto detto se non dopo la morte del filosofo.

 

C è C come cultura...

 

 

Sì, perché no…

 

 

Ecco. Tu sei uno che non ama dirsi ‘colto’, questo significa che tu dici che tu leggi, che vedi i film, che guardi le cose, per un sapere preciso, quello di cui hai bisogno per un lavoro definito, preciso, che è quello che stai facendo. Ma nello stesso tempo, tu sei una persona che tutti i sabati va a una mostra, va a vedere un film del grande mondo culturale. Si ha l’impressione che tu pratichi una specie di sforzo alla cultura, che tu sistematizzi e che tu abbia una ‘pratica culturale’; cioè che tu esci, che tu fai uno sforzo, tendi a farti una cultura. E però tu dici di non essere ‘colto’. Come spieghi questo piccolo paradosso? Non sei istruito?

 

No quello che voglio dire è che davvero non mi vedo affatto come un intellettuale, non mi vedo come uno istruito, per una ragione molto semplice, che quando io vedo qualcuno che è istruito io ne sono spaventato. Io posso provare ammirazione per certi aspetti, per altri assolutamente no, ma io sono spaventato da qualcuno colto. Si distingue bene uno che è colto. Ha un sapere spaventoso su tutto. Uno colto… Se ne vedono molti fra gli intellettuali, sanno tutto, sono al corrente di tutto. Sanno la storia dell’Italia nel Rinascimento, conoscono la geografia del Polo Nord, insomma si può fare tutta una lista. Sanno tutto, possono parlare di tutto. È terribile. Quando dico che non sono istruito e che non sono un intellettuale voglio dire una cosa semplice: non ho alcun sapere di riserva. Almeno così non avrò alcun problema, alla mia morte non ci sarà niente da cercare nessun inedito, niente. Niente perché non ho nessuna riserva, nessuna scorta, nessun sapere di scorta, e tutto quello che imparo, lo imparo per uno scopo e quando lo scopo è raggiunto lo dimentico, in modo che sono costretto, se dopo dieci anni devo tornare sullo stesso argomento, a ricominciare da zero, salvo qualche caso molto raro, perché ad esempio Spinoza è nel mio cuore, non lo dimentico. È il mio cuore, non è la mia testa, ma altrimenti… Allora perché non ammiro questa cultura spaventosa? Sono persone che parlano…

 

 

È erudizione? Un’opinione su tutti gli argomenti?

 

No, non è erudizione. Sanno, sanno parlare, hanno prima di tutto viaggiato, hanno viaggiato nella storia, nella geografia, sanno parlare di tutto. Ho sentito alla televisione, è sorprendente. Ho sentito dei nomi e dal momento che sono pieno di ammirazione posso anche dirli... delle persone come Eco, Umberto Eco. È prodigioso, qualsiasi cosa gli si dica è come se si spingesse un bottone e via, e per di più lo sa… Allora non posso dire di invidiarlo, sono stupefatto ma non lo invidio per niente. Da un certo punto di vista che cos’è la cultura? La cultura consiste molto nel chiacchierare, soprattutto ora che non insegno più, che sono in pensione, mi sembra sempre di più che parlare sia un po’ sporco. La scrittura è pulita. Scrivere è pulito, parlare è sporco. Sporco perché è sedurre. Non sopporto i convegni. Fin da quando ero giovane, non li ho mai sopportati. Non viaggio, perché gli intellettuali… Io potrei viaggiare se… No, non viaggerei, perché la mia salute me lo impedisce, ma i viaggi degli intellettuali sono una buffonata. Non viaggiano, si spostano per parlare. Partono da un posto dove parlano per andare in un altro posto dove devono parlare, e poi parlano anche a pranzo con gli intellettuali del posto. Non smettono mai di parlare, non lo sopporto. Parlare, parlare, parlare, non lo sopporto. Penso che la cultura sia molto legata alla parola, in questo senso allora odio la cultura, non la posso sopportare.

 

 

Ci torneremo poi sulla separazione tra la scrittura pulita e la parola sporca, perché tu comunque sei stato un grandissimo professore…

 

Ma è diverso...

 

 

Lo vedremo perché la lettera P, è sul tuo lavoro di professore e avremo occasione di riparlare della seduzione. Vorrei tornare su questa cosa che hai un po’ eluso, e cioè su questo sforzo, questa disciplina che tu ti imponi, anche se in realtà non ne hai bisogno in effetti, di vedere… non so… mettiamo negli ultimi 15 giorni, la mostra di Polke al Museo d’arte moderna. Vai abbastanza spesso, si può dire ogni settimana, vedere un gran film, o a vedere una mostra di pittura. Dunque: non sei erudito, non sei colto, non hai alcuna ammirazione per le persone istruite come abbiamo detto: a cosa corrisponde allora questa pratica, questo sforzo? È un piacere?

 

Certo, è un piacere. Insomma... non sempre un piacere. Ma penso allora alla storia di “stare in agguato”. Io non credo alla cultura, in una certo modo, quello in cui credo sono gli incontri. E gli incontri non si fanno con le persone. Si crede sempre che gli incontri si facciano con le persone, ma è terribile, quello fa parte della cultura, gli intellettuali che si incontrano tra loro, la schifezza dei convegni, un’infamia. Ma gli incontri non si fanno con le persone, ma con le cose: incontro un quadro, un’aria musicale, una musica. Ecco cosa sono gli incontri. Ma quando le persone vogliono in più incontrarsi tra loro, con altra gente, allora non funziona più, non è un incontro. Ecco perché gli incontri sono sempre così deludenti, sono sempre catastrofici gli incontri con le persone.

Quando dici che il sabato o la domenica vado al cinema, non sono sicuro di fare un incontro.

Parto, sto in agguato, ci sarà forse qualcosa da incontrare… un quadro, un film… allora è formidabile. Faccio un esempio… quando si fa qualcosa si tratta di uscirne, si tratta allo stesso tempo di restarci e di uscirne. Allora, restare nella filosofia significa anche come uscire dalla filosofia. Ma uscire dalla filosofia non vuol dire fare qualcosa d’altro, è per questo che bisogna uscire restando dentro. Non è fare qualcos’altro, non è fare un romanzo. Prima di tutto non sarei capace, ma anche se lo fossi credo che non mi interesserebbe affatto.

Io voglio uscire dalla filosofia attraverso la filosofia. È questo che mi interessa.

 

 

Cosa vuol dire?

 

Facciamo un esempio, siccome è per dopo la mia morte posso essere immodesto. Ho appena scritto un libro su un grande filosofo, che si chiama Leibniz, insistendo su una nozione che mi sembrava importante per lui, e che è molto importante per me, che è la piega, la nozione di piega. Penso allora di fare un libro di filosofia su questa nozione un po’ bizzarra di piega. Cosa mi succede? Ricevo delle lettere, come sempre, e ci sono delle lettere un po’ insignificanti, anche se sono affascinanti e calorose e mi toccano molto, dicono “hai fatto un buon lavoro”; lettere di intellettuali a cui è piaciuto o non è piaciuto il libro. E poi ricevo delle lettere, meglio due tipi di lettere, che mi fanno sbarrare gli occhi. Lettere di persone che mi dicono “la sua questione della piega siamo noi”. E mi accorgo che sono persone che fanno parte di un’associazione che oggi raccoglie 400 persone in Francia, e forse aumenteranno: l’associazione dei piegatori di carta. Hanno una rivista, me la mandano e mi dicono: “siamo completamente d’accordo. Lei fa quello che facciamo anche noi”. Bene, mi dico, ha funzionato. Poi ricevo un altro tipo di lettera che nello stesso modo dice “la piega siamo noi”. È una meraviglia. Mi viene in mente Platone. I filosofi per me non sono persone astratte, sono dei grandi scrittori, e dei grandi autori, molto concreti. In Platone c’è una storia che mi mette gioia e che è forse legata all’inizio della filosofia, ci torneremo sopra. Platone dà una definizione, per esempio: “che cos’è il politico?”. Il politico è il pastore degli uomini. Allora arrivano molte persone che dicono “bene, il politico siamo noi”. Per esempio arriva il pastore e dice: “io vesto gli uomini, quindi sono il vero pastore degli uomini”; arriva il macellaio e dice “io nutro gli uomini, sono io il loro pastore”; arrivano i rivali…

Io ho fatto un po’ la stessa esperienza. I piegatori di carta che arrivano e dicono “la piega siamo noi”. Gli altri di cui parlavo, che mi hanno inviato esattamente lo stesso tipo di lettere, è impressionante, sono i surfisti. A prima vista non c’è alcun rapporto con i piegatori di carta. I surfisti dicono: “siamo completamente d’accordo, perché cosa facciamo? Ci insinuiamo continuamente nelle pieghe della natura. Per noi la natura è un insieme di pieghe mobili. Ci infiliamo nella piega dell’onda, abitiamo la piega dell’onda. È questo il nostro compito”. Abitare la piega dell’onda, ne parlano in modo eccezionale… Pensano, non si accontentano di andare sul surf, pensano a ciò che fanno. Ne riparleremo forse più avanti, quando arriveremo allo sport, alla S.

 

 

Ma qui eravamo partiti dall’incontro. Sono degli incontri questi?

 

Questi sono degli incontri. Quando dico uscire dalla filosofia attraverso la filosofia è questo che mi è di solito successo. Sono incontri. Io ho incontrato i piegatori di carta, non ho bisogno di vederli, saremmo delusi probabilmente. Non c’è bisogno di vederli. Ho incontrato il surf, i piegatori di carta: alla lettera sono uscito dalla filosofia attraverso la filosofia. È questo un incontro.

Allora penso che gli incontri… Quando vado a vedere un’esposizione, cosa faccio?, sono in agguato, alla ricerca di un quadro che mi tocca, di un quadro che mi commuova. Quando vado al cinema… non vado mai a teatro perché il teatro è troppo lungo, troppo disciplinato, troppo stancante; non mi pare neanche un’arte tanto… salvo qualche rara eccezione, salvo Bob Wilson e Carmelo Bene; non credo che il teatro sia molto in presa sul nostro tempo, fatta eccezione per questi casi estremi, ma restare quattro ore seduto su una poltrona scomoda… in più non posso più, per motivi di salute, quindi per me il teatro è eliminato. Ma in un’esposizione o al cinema ho sempre l’impressione che almeno rischio di incontrare un’idea.

 

 

Il film come distrazione non esiste…

 

Questa non è cultura.

 

 

Non è cultura ma non è distrazione, vuol dire che tutto è iscritto dentro un lavoro…

 

No, non è un lavoro. Sono degli agguati. Sto in agguato, passa qualcosa e mi chiedo se mi turba. Mi diverte, è molto divertente.

 

 

Ma non sarà Eddie Murphy a colpirti…

 

Chi è?

 

 

Eddie Murphy è un comico americano, i suoi ultimi film hanno avuto un grande successo di pubblico. Non lo hai mai visto,… tu guardi solo Benny Hill in televisione….

 

Sì, ma Benny Hill mi interessa. Non so, non scelgo solo cose per forza belle, ci sono delle ragioni per cui mi interessa…

 

 

Ma quando tu esci è per fare un incontro.

 

Quando esco, se non c’è da trarne un’idea, se non mi dico: “lui aveva un’idea”... Che cos’è un grande cineasta? Questo vale anche per i cineasti. Prendiamo un grande come Minelli, o come Losey, cos’è che mi colpisce… Sono tormentati dalle idee, da un’idea…

 

 

Ma così stai bruciando la mia “I”, fermati subito…

 

Allora mi fermo così. Ma si fanno incontri con le idee, le cose, prima di farne con le persone.

 

 

E in questo momento se ne fanno molti di incontri? Per parlare di un periodo culturale preciso?

 

Ma sì, l’ho appena detto, i piegatori e i surfisti. Cosa vuoi di più bello… E non sono incontri con intellettuali. Vedi, io non incontro intellettuali. O se ne incontro uno è per altre ragioni, perché faccio un incontro con lui, per quello che fa, il suo lavoro attuale, il suo fascino, tutto questo. Si fanno incontri con questi elementi, con il fascino delle persone, con il loro lavoro, ma non con le persone, le persone lasciamole perdere…

 

 

Inoltre si strusciano come gatti…

 

Sì, strusciarsi e abbaiare, è terribile…

 

 

Pensiamo ai periodi ricchi e ai periodi poveri della cultura. In questo momento trovi che sia un periodo non particolarmente ricco, ti vedo spesso irritato di fronte alle trasmissioni letterarie, di cui non facciamo il nome, anche se quando tutto questo sarà trasmesso i nomi saranno diversi. Trovi che stiamo vivendo un periodo ricco o particolarmente povero?

 

Ma sì, è povero. È povero ma non è affatto angosciante. Mi fa ridere, lo dico alla mia età, non è la prima volta che ci sono dei periodi poveri. Mi dico: cosa ho vissuto, da quando ho l’età per entusiasmarmi un po’… Ho vissuto la Liberazione. La liberazione è stato uno dei periodi più ricchi che si possano immaginare. Si scopriva o si riscopriva tutto. C’era stata la guerra, non è poco, non era uno scherzo, si scopriva tutto: il romanzo americano, Kafka, c’era una specie di mondo della scoperta, c’era Sartre, è inimmaginabile cosa è stato intellettualmente, ciò che si scopriva o si riscopriva, per esempio nella pittura… Penso alla grande polemica: “Si deve bruciare Kafka?”. Tutto questo è inimmaginabile e sembra un po’ infantile oggi, ma era veramente un’atmosfera creativa, bellissima. Poi ho conosciuto il pre ’68, che è stato un periodo estremamente ricco, fino al dopo ’68. Poi di tanto in tanto ci sono dei periodi poveri, è normale. Non è la povertà che disturba, è l’insolenza o l’impudenza di coloro che occupano i periodi poveri. Sono molto più malevoli delle persone geniali che vivono nei periodi ricchi.

 

 

Sono malevoli. Tutti perbene. Parliamo appunto della polemica su Kafka, della Liberazione, sentivo l’altro giorno Alexandre non so chi, dire tutto contento che non aveva mai letto Kafka, lo diceva ridendo…

 

Ma certo, sono contentissimi, più sono stupidi, più sono contenti. Sono quelli che considerano la letteratura un piccolo affare privato. Se pensi così, non c’è alcun bisogno di leggere Kafka. Non c’è bisogno di leggere granché, perché se si ha la ‘penna facile’, si è al pari di Kafka per natura. Non è più un lavoro, non fanno un lavoro. Come spiegarlo… Prendiamo qualcosa di più serio dei questi giovani idioti. Un po’ di tempo fa ero a Cosmos per vedere un film…

 

 

Paradžanov?

 

No, non Paradžanov che era meraviglioso. Un film russo molto commovente, di qualcuno che ha fatto il film trent’anni fa e lo hanno dato solo ora.

 

 

La commissaria?

 

La commissaria. Ho visto qualcosa che mi sembra commovente. Il film era molto buono, perfetto. Tuttavia ci dicevamo con terrore e con una specie di compassione che era un film come i russi ne facevano prima della guerra.

 

 

Dell’epoca di Eisenstein.

 

Di Eisenstein, di Dovchenko… C’era tutto, un montaggio parallelo sublime e così via. È come se niente fosse accaduto dai tempi della guerra, come se niente fosse accaduto nel cinema. E mi dicevo: “per forza”. Il film è buono ma era molto strano, proprio per questo: se non era veramente buono era per questo. Lo ha fatto qualcuno così solo nel suo lavoro che filmava come si filmava vent’anni prima; non che non andasse bene, andava molto bene, era prodigioso vent’anni prima. Di tutto ciò che era successo dopo lui non aveva saputo niente, questo significa che era cresciuto in un deserto. È terribile. Traversare un deserto, un periodo deserto, non è una gran cosa, non è grave; terribile è nascere, crescere in un deserto. Questo è spaventoso. Lo immagino, ma si deve avere l’impressione di una grande solitudine.

 

 

Per le persone che hanno diciotto anni oggi per esempio?

 

Sì certo, soprattutto perché capisci, quando le cose spariscono, nessuno se ne accorge, non mancano a nessuno. Il periodo di Stalin ha fatto scomparire la letteratura russa, ma i russi non se ne sono accorti. Voglio dire la maggior parte dei russi. Una letteratura che è stata sconvolgente per tutto il XIX secolo, scompare. Capisco quello che si dice ora, ci sono i dissidenti, ma a livello del popolo russo, la sua letteratura è scomparsa, la sua pittura è scomparsa, e nessuno se n’è accorto. Per rendersi conto di quello che succede oggi… ci sono senz’altro delle persone nuove dotate di genio. È una brutta espressione ma supponiamo i nuovi Beckett di oggi.

 

 

Pensavo stessi per dire i “noveaux philosophes”…

 

No, non sono loro... Supponiamo che i nuovi Beckett di oggi non vengano pubblicati, dopo tutto Beckett stava per non essere pubblicato, se non fossero pubblicati è evidente che non mancherebbero a nessuno. Per definizione un grande autore o un genio è qualcuno che introduce qualcosa di nuovo, se questo nuovo non appare non disturba nessuno, non manca a nessuno, perché non se ne aveva alcuna idea. Se Proust non fosse mai esistito, se Kafka non fosse mai stato pubblicato, non sarebbe possibile sentirne la mancanza. Se avessero bruciato tutto Kafka, nessuno avrebbe potuto dire: “ci manca”, perché non avremmo idea di ciò che è scomparso. Se oggi i nuovi Beckett sono fatti fuori o non sono pubblicati dall’attuale sistema editoriale, non si potrà dire “come ci mancano”. Ho sentito una dichiarazione, credo la più impudente di tutta la mia vita, non dirò di chi, in un giornale, soprattutto perché queste cose non sono mai sicure, la dichiarazione di qualcuno nell’editoria che ha detto: “dovete sapere che oggi non rischiamo più di fare errori, come quello di Gallimard che ha rifiutato Proust, perché con i mezzi che abbiamo oggi…” (ride)

 

 

Cacciatori di teste?

 

È un sogno. Sembra di sognare. I mezzi che abbiamo oggi per trovare i nuovi Proust o i nuovi Beckett. Dovremmo avere un metal detector e di fronte al nuovo Beckett, uno assolutamente inimmaginabile, che non sappiamo cosa può portare di nuovo, il metal detector emetterebbe un suono…

 

 

Quando passa sulla sua testa…

 

Allora cosa significa la crisi oggi, tutte queste stupidaggini. La crisi attuale la vedo legata a tre cose, ma non durerà a lungo, sono molto ottimista. È questo che definisce un periodo deserto: prima di tutto quando i giornalisti si sono appropriati della forma libro, i giornalisti hanno sempre scritto, penso che sia un bene che scrivano, ma allo stesso tempo quando si mettevano a fare un libro sapevano di passare a una forma diversa, che significa che non è la stessa cosa che scrivere gli articoli di giornale.

 

 

C’è anche il fatto che per molto tempo erano gli scrittori a fare i giornalisti, Mallarmé faceva il giornalista. Non era il contrario.

 

Adesso è il contrario, il giornalista in quanto tale si è appropriato della forma-libro, cioè considera del tutto normale fare un libro che sia a mala pena un articolo di giornale. Non va bene. La seconda ragione è stata la generalizzazione dell’idea che tutti potevano scrivere, perché la scrittura era un piccolo affare privato. Allora… con gli archivi di famiglia, scritti oppure conservati in testa, tutti hanno avuto una storia d’amore, tutti hanno avuto una nonna malata, una madre sul punto di morire in condizioni penose, si pensa che questo faccia un romanzo. Ma non fa un romanzo, non lo fa nella maniera più assoluta. E poi, la terza ragione, è che i veri clienti sono cambiati, e non ce se ne accorge. Salvo… voi lo sapete bene… i veri clienti sono cambiati... i veri clienti della televisione, chi sono? Non sono più gli ascoltatori ma gli sponsor. Sono loro i veri clienti. Gli ascoltatori hanno quello che decidono gli sponsor.

 

 

I telespettatori…

 

I telespettatori, sì, gli sponsor sono i veri clienti. Parlavo dell’editoria, il rischio è che i veri clienti degli editori non siano i potenziali lettori ma i distributori. Quando i distributori saranno davvero i clienti degli editori, cosa succederà? Ai distributori interessa la circolazione rapida, da supermercato, il regime dei best-seller e così via. Qualsiasi letteratura alla Beckett allora, tutta la letteratura creativa, sarà naturalmente schiacciata.

 

 

Ma accade già, con l’influenza dell’editore sui bisogni del pubblico…

 

Sì, ed è questo che definisce un periodo arido, pensiamo a Pivot, la nullità, la sparizione di qualsiasi critica letteraria al di fuori della promozione commerciale. Ma non importa, perché è evidente che avremo dei circuiti paralleli, o un mercato nero. Non è possibile per un popolo vivere… La Russia ha perduto la sua letteratura, ma la riconquisterà. Tutto si sistema, i periodi ricchi seguono a quelli poveri. Guai ai poveri…

 

 

Guai ai poveri… Ma su questa idea di un mercato parallelo o nero, è già molto tempo che gli argomenti sono precostituiti. E cioè, si vede bene nei libri che escono, un anno è la guerra, un altro anno è la morte dei genitori, un altro ancora l’attaccamento alla natura… Però niente sembra formarsi. Hai già visto risorgere un periodo ricco dopo uno povero. Tu lo hai vissuto?

 

Ma sì. Ancora una volta: dopo la Liberazione non sembrava un granché, poi c’è stato il ’68. Fra la grande epoca creativa della Liberazione, e l’inizio della Nouvelle Vague, è quando? 1960?

 

 

1960. Anche prima.

 

Tra il ’60 e diciamo il ’72 c’è stato ancora un periodo ricco, sì. E si è riformato… È un po’, se vuoi, quello che Nietzsche dice così bene. Qualcuno lancia una freccia, nello spazio… o anche un periodo, una collettività lancia una freccia e questa cade e poi arriva a qualcuno a raccoglierla e lanciarla altrove. Funziona così con la creazione, la letteratura. Passa sopra i deserti…

 

 

Il testo è la trascrizione della voce C di Cultura dell'Abecedario di Gilles Deleuze, a cura di Claire Parnet, Derive e Approdi, 2014.

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