Proustografia

11 Febbraio 2023

Credo che i maestri che mi hanno accompagnata per molti anni nello studio di Proust – Giovanni Macchia, Francesco Orlando, Mario Lavagetto – avrebbero sfogliato con diffidenza le pagine in nero e oro dell’elegante volume di Nicolas Ragonneau Il Proustografo (grafica di Nicolas Beaujouan, prefazione di Thierry Laget, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco ed Ezio Sinigaglia, ed. orig. 2021, Clichy, Firenze 2022, 189 pp., 25 euro). Ognuno di loro si è occupato, a suo modo, della biografia di Proust. Macchia ha riconosciuto, nei mesi trascorsi in solitudine da Proust nel 1906 in una camera d’albergo a Versailles, “la prova generale della sua esistenza futura”. Orlando ha dedicato al rapporto di Proust con la madre il suo ultimo saggio sull’autore della Ricerca. Lavagetto si è proposto, nel volume einaudiano Quel Marcel, di utilizzare liberamente come strumenti di lettura una serie di “frammenti biografici”.

Tutti e tre erano consapevoli che per chi studia Proust, inevitabilmente, i dati biografici hanno un peso nell’esegesi del capolavoro; non è certo un caso se il racconto della Recherche è modellato sulla tradizione memorialistica, al punto di far credere a molti dei suoi primi lettori che si trattasse di un’autobiografia. Accade però che, sintetizzata con instancabile inventiva nelle tavole infografiche di Nicolas Beaujouan, la biografia di Proust finisca col ricordare le pagine del “Guinness dei primati” sul “panino più lungo del mondo” o sul “gruppo più numeroso che mai sia riuscito a entrare in una cabina telefonica”. Mi pare che in questa veste i miei maestri avrebbero stentato a riconoscerla.

Il Proust del Proustografo è l’uomo che beve 17 caffè al giorno, che cambia per ben cinque volte la forma dei suoi baffi, passando dai “baffi da tricheco” a quelli “alla Charlot”, che ha scritto una frase di 931 parole, che nel suo romanzo cita 25 volte il cavallo e 16 volte la medusa. I dati che le infografiche ci presentano nel modo più ingegnoso e accattivante somigliano alle curiosità che la Settimana Enigmistica riportava in certe sue rubriche: Strano ma vero, L’edipeo enciclopedico. Quante virgole ci sono nei sette volumi della Ricerca? Quante duchesse? Quante mucche? E quanti chilometri misurerebbero, messe una dopo l’altra, tutte le parole del romanzo? Va detto che, al di là del martellamento di questi dati quantitativi, non sempre rilevanti, alcune infografiche ci mettono sotto gli occhi mappe di notevole interesse: i quartieri abitati dai vari personaggi, la rete dei loro rapporti amorosi, la genealogia dei Guermantes, la cronologia delle 35 traduzioni che hanno portato la Ricerca in tutto il mondo.

Il prefatore Thierry Laget, che ha al suo attivo edizioni e studi proustiani importanti, ci suggerisce che questo Proustografo è, più che un libro, uno strumento: come il sismografo che registra la potenza dei terremoti, o il mareografo che misura la profondità degli oceani, è una sorta di apparecchiatura che riduce alla nostra scala, mediante infografiche e diagrammi, quel “fenomeno di portata cosmica” che è Alla ricerca del tempo perduto. Di questo strumento, ho l’impressione che i miei maestri non avrebbero saputo che farsene: erano già convinti per conto loro della portata cosmica della Ricerca, senza bisogno di contare né le virgole né le mucche. Georges Perec, invece, ci si sarebbe divertito come un matto; mi par di vederlo saltellare con gioia infantile da una mappa all’altra, come da una casella all’altra di La Vita Istruzioni per l’uso. È proprio con il gusto tutto perecchiano per gli schemi e per i cruciverba che conviene inoltrarsi nelle infografiche di Ragonneau e Beaujouan; non per accumulare su Proust conoscenze enciclopediche spesso futili, ma per giocare allegramente con lui. 

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Meno pirotecnico del Proustografo, ma ricco di utili informazioni è il Proust e la società (trad. di Roberta Capotorti, Carocci 2022, 182 pp, 18 €) di Jean-Yves Tadié – classe 1936 –, di cui gli Oscar hanno da poco rieditato la monumentale Vita di Marcel Proust. Attingendo all’imponente mole di conoscenze accumulate nel suo duplice ruolo di biografo e di direttore dell’edizione critica della Recherche pubblicata nella Pléiade tra il 1987 e il 1989, Tadié ha messo a punto uno strumento agile e funzionale per il lettore che, dopo aver finito la Ricerca, si chiede quale sia il rapporto tra il mondo del romanzo e la realtà storica nella quale Proust ha vissuto.

Nel suo romanzo-saggio Proust propone, implicitamente, una visione sociologica, politica e psicologica della realtà: gli interessano gli elementi di continuità tra le classi popolari del medioevo e quelle del suo tempo, i meccanismi di imitazione che regolano i rapporti tra i diversi ceti, le analogie tra la psicologia degli individui e la psicologia dei popoli, delle nazioni. Di questa visione proustiana, Tadié ci offre un’esposizione esauriente, confrontandola con tutte le fonti storiche che possono aiutarci a contestualizzarla. Dal denaro alla guerra, dalla bicicletta di Albertine al mondo degli alberghi e dei bordelli, gli oggetti e i fenomeni che popolano la Ricerca sono rivisitati da Tadié alla luce della Storia; una rivisitazione certamente utile soprattutto alle più giovani generazioni di lettori, per le quali la memoria del XIX e del XX secolo va sempre più sfumando in una nebbia imprecisa.

  Il problema del rapporto tra Proust e la società del suo tempo lo ha affrontato, con strumenti diversi da quelli di Tadié, anche Francesco Orlando nel suo più antico saggio proustiano, Marcel Proust dilettante mondano, e la sua opera, pubblicato nel 1971 ma concepito e discusso nel 1968, durante un memorabile corso alla Normale. Oggi possiamo rileggerlo nel bel volume curato da Luciano Pellegrini che raccoglie tutti gli interventi del grande critico sull’autore della Recherche (Francesco Orlando, In principio Marcel Proust, Nottetempo, Milano 2022, 239 pp., 18 €). È un saggio che prende le mosse da un dato in apparenza paradossale: perché Zola, che ha intrapreso così energicamente la descrizione esaustiva di tutte le professioni e le condizioni sociali nella Francia della seconda metà del XIX secolo, ha riservato nella sua opera alla figura del romanziere un ruolo marginale, facendola comparire soltanto un po’ di sfuggita, nel romanzo L’Oeuvre, il cui protagonista è un pittore?

La risposta secondo Orlando va cercata nell’opera di un contemporaneo di Zola, Mallarmé. Nello stesso momento in cui Zola rinunciava a parlare della propria esperienza di scrittore, relegando ai margini la figura autobiografica del romanziere Sandoz, Mallarmé prendeva coscienza “di non poter quasi parlare d’altro che della propria opera dentro la propria opera”, di poter dare il suo meglio di creatore quando parlava della propria esperienza creativa. Erano maturi i tempi per l’avvento di uno scrittore che, prendendo le distanze da Zola, importasse nel romanzo l’attitudine autoriflessiva di Mallarmé; questo scrittore sarebbe stato Marcel Proust, quindicenne all’epoca della pubblicazione di L’Oeuvre. “Non è arbitrario, sottolinea Orlando, dire che in certo senso la Recherche è essa stessa quel Livre assoluto, circolare e totalitario che Mallarmé aveva architettato invano per tutta la vita, e che l’esigenza rigorosa di “abolir le hasard” svuotava a priori di ogni materia possibile”. Invece di abolire il caso, il narratore proustiano si risolverà ad accettarlo, affidando la propria salvezza alle casuali rivelazioni della memoria involontaria: questa scelta inaudita gli consentirà di uscire dall’impasse del naturalismo zoliano sfuggendo anche agli effetti paralizzanti dell’utopia di Mallarmé.

L’accettazione del caso come forza determinante, però, esclude che il narratore della Recherche possa essere un professionista della letteratura, come Zola e il suo alter ego Sandoz: deve essere “un romanziere che si ignora quasi fino alla fine in quanto tale, si cerca e non si trova”. D’altronde, Proust stesso non è un professionista della letteratura, non è “partecipe, come persona, di una produttività artistica istituzionalizzata”: appartenente a un ceto di puri consumatori, deve proprio alla sua posizione sociale di “dilettante mondano” il punto di vista privilegiato che gli consente la visione più lucida ed esaustiva dei sortilegi dello snobismo e dei rapporti tra borghesia e aristocrazia nel mondo che il primo conflitto mondiale sta trasfomando in modo irreversibile.

Debitore di Adorno e soprattutto di Benjamin – di cui viene citato un lungo passo dal saggio Per un ritratto di Proust, che sarebbe uscito in italiano soltanto nel 1973 –, questo testo in cui è centrale la riflessione storico-sociale resta un caso isolato tra gli scritti proustiani di Orlando. Già il saggio che immediatamente lo segue (pubblicato nel ’70 e poi arricchito di importanti sviluppi nel ’74), Proust, Sainte-Beuve e la ricerca in direzione sbagliata, ha una diversa impostazione: coglie nel suo momento originario una costellazione tematica, per poi rintracciarne le riapparizioni sempre più importanti seguendo il filo di una ricorrenza lessicale.

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La costellazione tematica è quella che oppone la ricerca in direzione sbagliata e la non-ricerca in direzione giusta. Si affaccia in una delle prefazioni dell’incompiuto saggio Contro Sainte-Beuve, agli inizi del 1909, quando Proust sta per imboccare la strada della creazione romanzesca. Evocando per la prima volta i miracoli della memoria involontaria, Proust li contrappone alle volenterose ma vane ricerche dell’erudito Sainte-Beuve, che per avvicinarsi al cuore di un’opera letteraria accumulava notizie e documenti sulla vita dell’autore. In questa contrapposizione Orlando ravvisa, in un certo senso, l’atto di nascita della Ricerca; questa sua intuizione riguardo alla fortissima continuità tra i quaderni del Contro Sainte-Beuve e il romanzo a venire sarà confermata da tutti gli studi genetici successivi.

La Ricerca sarà strutturata proprio dall’opposizione tra una ricerca in direzione sbagliata – quella che porta il narratore a disperdersi nella mondanità o nei labirinti della gelosia, e a cercare inutilmente un soggetto per la propria opera a venire – e la non-ricerca in direzione giusta, la disponibilità alle suggestioni della memoria involontaria e al richiamo della “patria perduta” dell’arte. 

Dove affiora questa strutturazione profonda del testo, dove è possibile coglierne i segni? Il filo che Orlando segue accomuna nella Recherche situazioni diversissime e lontanissime, ma nelle quali il verbo “cercare” o i suoi derivati sono sempre impiegati in un contesto che allude a due possibilità, a una riuscita e a un fallimento. Dal mosaico dei passi giustapposti emerge, ben riconoscibile, la costante che struttura il romanzo intero. Rileggendo oggi questo saggio magistrale, viene da accostarlo a Machiavelli, l’eccezione e la regola di Carlo Ginzburg, dove il ricorrere della congiunzione “nondimanco” svela nell’opera dell’autore del Principe la tensione tra regola generale ed eccezione, mutuata dal pensiero giuridico medioevale. 

Ancora a una costante – l’opposizione tra “sapere” e “”vedere” – è dedicato l’altro saggio maggiore della raccolta, “Sapere” contro “vedere”. Metamorfosi e metafora, la cui genesi rimanda alla metà degli anni Ottanta, anche se la pubblicazione risale al 2008. 

La distinzione tra “sapere” e “vedere” è introdotta da Proust per la prima volta nel 1900, in un articolo destinato a confluire nella sua prefazione alla Bibbia di Amiens di John Ruskin. Secondo un aneddoto, raccontato proprio da Ruskin, un ufficiale di marina aveva fatto notare a Turner che aveva dipinto una nave da guerra senza le aperture per le bocche dei cannoni. Turner gli aveva risposto che, dalla sua prospettiva, quelle aperture non erano visibili. “Ma voi sapete che ci sono”! aveva esclamato l’ufficiale. “Il mio compito – gli aveva risposto Turner – è dipingere quello che vedo, non quello che so”.

In questo contesto l’opposizione tra “vedere” e “sapere”, evocata per difendere il primato dell’impressione, non ha ancora nulla di drammatico. Ma nella Ricerca acquisterà ben altra importanza. Nel romanzo, tutta la vita del narratore è disseminata di esperienze nelle quali “vedere” e “sapere” si contraddicono: illusioni sensoriali, miraggi, conflitti tra la certezza di una prima impressione ingannevole e la sua successiva dissoluzione. Al centro di questo mondo di metamorfosi e fantasmagorie, l’eroe della Ricerca si trova in una situazione contraddittoria: l’Ignoto lo affascina ma, irrompendo nella sua vita e spazzando via le sue certezze, è fonte di angoscia; l’Abitudine, che interviene ad addomesticare, a rendere sopportabili e indolori tutti i cambiamenti, lo protegge dall’angoscia, ma racchiudendolo in un guscio di indifferenza.

Ognuna di queste due forze – l’Abitudine e l’Ignoto – che modellano l’esistenza del narratore ha un volto positivo e un volto negativo. “L’Abitudine-sicurezza è l’opposto dell’Ignoto-angoscia, l’Ignoto-fascino è l’opposto dell’Abitudine-indifferenza. Fra l’Ignoto-fascino e l’Ignoto-angoscia si profila precisamente il percorso dell’amore e della gelosia, così come fra l’Ignoto-angoscia e l’Abitudine-indifferenza si svolge il percorso impercettibile e lento dell’oblio”. Soltanto due esperienze, nel mondo di Proust, riescono a sfuggire alle polarità negative dell’Angoscia e dell’Indifferenza: quella della memoria involontaria e quella dell’arte, nelle quali “l’Ignoto non insorge da fuori, ma risale eccezionalmente da dentro.” L’esperienza dell’arte concilia sicurezza e fascinazione: è esperienza del Nuovo, ma anche di quel che di più arcaico vive in noi, dal momento che non è altro che “il volto tanto certo quanto eternamente promettente, di quel che ci è noto da sempre”.

Ricorrente, attraverso una ricchissima esemplificazione, nei corsi universitari di Orlando degli anni Ottanta – dei quali purtroppo non sussistono registrazioni –, la dissociazione tra vedere e sapere è agli occhi del critico “la forma stessa della presentazione proustiana del mondo”. Possiamo supporre che sarebbe stata centrale nel grande libro su Proust che Orlando progettava quando, nel 2010, la morte lo colse improvvisamente. Insieme alle altre costanti e varianti da lui identificate nella Ricerca, sarebbe probabilmente confluita nelle complesse ramificazioni di un “albero semantico”, uno di quei fascinosi schemi in cui amava sintetizzare e problematizzare le sue conclusioni di lettore. Di quel libro a venire, a cui Orlando si sarebbe dedicato con la consueta passione, nella raccolta ottimamente curata da Luciano Pellegrini possiamo esplorare le fondamenta e intravedere gli sviluppi, ricchi come sempre di inedite intuizioni e suggerimenti geniali. 

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