Diogeni moderni / Antoine Compagnon, Les Chiffonniers de Paris

5 Dicembre 2018

L’undici maggio del 1847 andò in scena a Parigi un dramma destinato ad essere uno dei più clamorosi successi del secolo: Le Chiffonnier de Paris (Lo Straccivendolo di Parigi). L’autore era il repubblicano Félix Pyat, che qualche anno prima aveva convertito al socialismo Eugène Sue. L’entusiasmo degli spettatori di quella sera, però, non aveva origini politiche. Era rivolto piuttosto all’intreccio, patetico e ricco di colpi di scena, e all’interpretazione di Frédérick Lemaître, attore ammirato da Balzac e da Baudelaire. Frédérick impersonava papà Jean, straccivendolo di buon cuore che salvava dalla prigione la sua innocente vicina di casa, una sartina accusata a torto d’infanticidio, e riusciva a far arrestare il vero colpevole, un banchiere la cui ricchezza era fondata su un antico delitto. Ricca di coincidenze provvidenziali, la vicenda di quel mélodrame (così venivano definiti i drammi popolari in prosa) non aveva certo nulla di realistico. La messa in scena comprendeva però un “effetto di realtà” molto apprezzato dagli spettatori: Frédérick non solo portava la gerla (la hotte) e il gancio di ferro dei veri chiffonniers, ma era andato a lezione di alcuni di loro per imparare a imitarne alla perfezione i gesti, l’accento e perfino la tipica andatura, resa un po’ incerta dalle irregolarità del pavé e dalle frequenti libagioni. Nella scena più famosa dell’opera, papà Jean vuotava la sua gerla dopo una notte passata a frugare nei mucchi di rifiuti, all’epoca abbandonati a cielo aperto sino all’alba. “E dire – sospirava – che ho tutta Parigi, in questa gerla di vimini… Ci finisce tutto quanto, la foglia di rosa e il foglio di carta… tutto finisce qui dentro, presto o tardi… E dire che da tutto questo rinascerà della bella carta per i biglietti d’amore, delle belle stoffe per le signore eleganti, carta e stoffe che poi torneranno di nuovo qui, sino alla distruzione finale… È la fossa comune, la fine del mondo… È più che la morte, è l’oblio!”

 

 

Il 26 febbraio del 1848, due giorni dopo la proclamazione della Seconda Repubblica, di sua iniziativa, Frédérick aggiunse al mucchio di rifiuti estratto dalla gerla una corona. Cogliendo l’allusione alla recentissima cacciata di Luigi Filippo, il pubblico lo acclamò lungamente; in seguito Pyat accolse l’innovazione, integrandola al dramma. La Storia faceva così irruzione nel mélodrame, modificandolo; ma anche il mélodrame entrava a sua volta nella Storia, perché il giubilo degli spettatori davanti alla fine miseranda della corona del Re Cittadino era agli occhi degli storiografi futuri un segnale ricco di significato. 

Al culmine della sua carriera, Frédérick Lemaître aveva già creato figure poi divenute proverbiali: Antony, ad esempio, l’eroe di Dumas che lancia la sua sfida a tutte le convenzioni sociali, o Robert Macaire, il cinico bandito che doveva ispirare a Daumier una celebre serie di ritratti. Con lo chiffonnier Jean, però, faceva qualcosa di più: portava sulla scena una figura chiave dell’immaginario dei suoi contemporanei. Lo chiffonnier, attraverso la cernita dei rifiuti, veniva a saperne sui retroscena della vita privata più dell’autore della Commedia umana; il suo gancio ricordava la falce della Morte; il suo aspetto di vegliardo evocava il Tempo personificato. Il pubblico riconosceva in lui un mito della Parigi moderna, già consacrato da decenni di caricature, articoli, quadri e racconti. Proprio questo mito è l’oggetto del volume pubblicato da Antoine Compagnon, che ne ripercorre la genesi e la fortuna sull’arco di circa un secolo.

Già sotto l’ancien régime lo chiffonnier o biffin circola di notte per Parigi, confondendosi con la folla dei vagabondi e dei mendicanti; sulla schiena porta una gerla e in mano ha un lungo gancio di ferro, il croc, a forma di sette. Agli inizi del periodo rivoluzionario, nel 1790, una caricatura lo ritrae con la didascalia scherzosa: “Un membro del Comitato delle Ricerche”. Era il Comitato creato dalla Costituente per indagare su quanti cospiravano contro la sicurezza dello Stato; la formula scherzosa del caricaturista assimilava la rimozione delle immondizie, svolta dallo chiffonnier, all’opera del Comitato, incaricato di spazzar via i controrivoluzionari. Dal 1828 l’attività degli chiffonniers viene regolamentata dalla Prefettura di polizia: ognuno di loro riceve un numero, inciso su una medaglia e scritto sul vetro della sua lanterna, e deve svolgere il proprio lavoro seguendo regole precise.

 

È l’inizio della forzata collaborazione degli straccivendoli con le forze dell’ordine: schedati e controllati, questi conoscitori di tutti i misteri della metropoli diventano preziosi informatori per la polizia. Figure ai confini tra le classi lavoratrici e le classi pericolose, recano ben visibile lo stigma di un’antica ambiguità: fanno parte del mondo popolare, ma da parassiti e da marginali; sono al servizio della municipalità, ma un’aura di trasgressione circonda la loro esistenza notturna, che ha come sfondo le stesse infime taverne, gli stessi loschi ritrovi frequentati dai criminali. È durante la monarchia di Luigi Filippo che la loro professione conosce il massimo splendore: la raccolta della carta, degli stracci, dei pezzi di vetro e di metallo è allora estremamente redditizia. Tutto viene riciclato; non c’è residuo della vita urbana – dalle carogne di gatti e cani ai capelli, dai detriti vegetali agli oggetti più inservibili – che per l’industria del tempo non abbia valore. Il declino arriva lentamente, con le nuove tecniche di fabbricazione della carta dal legno – e non più dagli stracci – e con l’igiene moderna delle strade, che mette al bando i mucchi di immondizia abbandonati accanto ad ogni paracarro. Imponendo l’uso di recipienti chiusi per la raccolta dei rifiuti, il prefetto Poubelle, negli anni Ottanta, dà il colpo di grazia allo chiffonnage e relega definitivamente nel passato il più pittoresco tra tutti i petits métiers di Parigi.

 

 

Perché, di tutti i tipi che popolano la “capitale del XIX secolo”, quello dello chiffonnier è di gran lunga il più rappresentato nella letteratura e nell’iconografia del tempo? La capillare ricerca di Antoine Compagnon risponde a questa domanda nel modo più convincente, esplorando il fenomeno in tutte le sue sfaccettature. Lo chiffonnier incarna con particolare pregnanza l’età in cui vive, la sua instabilità, i suoi rovesciamenti: tutto muore nella sua gerla per poi rinascere in nuove forme, proprio come le gerarchie sociali e le istituzioni politiche nel secolo delle rivoluzioni. Tra le leggende che lo accompagnano, c’è quella del rinvenimento di un tesoro nascosto, che in ogni momento potrebbe arricchirlo; è una leggenda che fa di lui il double carnevalesco del re, il sovrano in potenza delle ricchezze segrete della metropoli. Ma i suoi rapporti con il potere sono più complessi e contraddittorî. La sua gerla è una cornucopia d’abbondanza, ma è anche simile al famigerato paniere in cui rotolano le teste mozzate sulla ghigliottina; è il punto d’arrivo di una Danza della Morte che non ha nulla da invidiare a quelle del Medioevo. Questo risvolto macabro del mito è illustrato con particolare efficacia da una pagina di Chateaubriand sul periodo del Terrore, pagina che trasforma – nota Compagnon – lo straccivendolo in “operaio dell’Apocalisse”:

 

“Quando i monarchi furono dissepolti a Saint-Denis, nel momento in cui la tromba suonava la resurrezione popolare; quando, strappati alle loro bare sfondate, furono in attesa di una sepoltura plebea, gli chiffonniers arrivarono a quel giudizio finale dei secoli; guardarono con le loro lanterne nella notte eterna; frugarono tra i resti sfuggiti alla prima rapina; i re non c’erano più, ma la regalità c’era ancora: la strapparono dalle viscere del tempo, e la gettarono nel paniere dei rifiuti.”

 


È impossibile, nello spazio di un articolo, dar conto della ricchezza dell’indagine portata avanti da Compagnon e illustrata da un apparato iconografico davvero imponente. Lo chiffonnier, vero Proteo delle notti parigine, ci viene incontro da queste pagine in mille forme. È il prototipo dell’uomo libero, il Diogene moderno; quando, sotto l’effetto del vino, sogna di essere a capo di un esercito, somiglia a Napoleone a Sant’Elena; è la personificazione di Parigi, che porta sulle spalle, nella gerla, tutto il suo passato; fornisce modelli ai pittori, ai caricaturisti e ai primi fotografi. Tra gli scrittori, i più sensibili al suo mito sono Hugo e Baudelaire. Hugo è affascinato dal ruolo dello chiffonnier nell’economia della modernità; vede nel riciclaggio, di cui il biffin è strumento, il simbolo della gloriosa, trionfante continuità della vita. Avverte inoltre un’affinità innegabile tra letteratura e chiffonnage: lo scrittore si addentra nei segreti, spesso ripugnanti, della vita sociale, così come il suo double, lo straccivendolo, fruga instancabilmente tra scarti e rifiuti. La stessa affinità è declinata, con diversa accentuazione, da Baudelaire, che della modernità ha una visione certo meno euforica di Hugo. Le pagine su Baudelaire – di cui Compagnon è un grande specialista – sono tra le più dense del libro, e restituiscono alla fraternità dello chiffonnier e del poeta tutta la problematicità rimossa dall’interpretazione ideologica di Walter Benjamin. Il lessico baudelairiano è scrutato nei dettagli, interrogato con il metodo indiziario di Carlo Ginzburg. Possiamo dire che l’opera, nel suo insieme, guarda la letteratura “di lontano”, come vuole Franco Moretti, senza restringere il suo campo visuale al ristretto canone dei capolavori. Ma la lettura di Baudelaire che racchiude è straordinariamente illuminante perché è condotta, invece, molto “da vicino”: come voleva Marcel Proust.

 

Antoine Compagnon, Les Chiffonniers de Paris, Gallimard, 2017, pp.496, € 32.

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