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Lettere a Milena. Tenere in camera un uragano

2 Settembre 2024

Nella prima decade del secolo scorso, quando Praga era ancora una città dell’Impero austro-ungarico e i suoi abitanti si dividevano tra il sentirsi tedeschi o boemi, c’era un luogo in città in cui queste distinzioni sfumavano, e ci si ritrovava ogni sera in nome di un’appartenenza più grande e inclusiva, quella letteraria: il Caffè Arco. Ogni sera, attorno ai tavoli in penombra del locale, i più noti intellettuali del paese, che Karl Kraus chiamava ironicamente gli arconauti, si riunivano per dibattere di letteratura, politica e arte. Il fulcro di quel circolo era Ernst Polak, un brillante corrispondente di lingue estere, impiegato in banca durante il giorno e intellettuale poliedrico nel tempo libero. Polak era un uomo coltissimo, erudito e con una precisa idea di stile, non creativo ma in grado di riconoscere il genio altrui e di riunire attorno a sé le menti più innovative della nuova gioventù praghese. 

È lui che farà incontrare, proprio ai tavolini fumosi del Caffè Arco, la sua giovanissima amante, Milena Jesenska, e Franz Kafka.

Kafka descrive così quell’incontro in una delle prime lettere di quello che senza dubbio è tra i più intensi e appassionati epistolari del secolo scorso, le Lettere a Milena: “mi viene in mente che in realtà non riesco a ricordare alcun particolare preciso del Suo viso. Solo come Lei se ne andò passando tra i tavolini del caffè, la Sua figura, il Suo vestito, questo lo vedo ancora”.

Al Caffè Arco non c’è nessun colpo di fulmine, nessuna agnizione, solo un’andatura che resta, forse un’aura di luce nella stanza. La loro relazione inizia proprio per lettera qualche anno dopo quel primo incontro, tra il marzo e l’aprile del 1920, quando Milena non è più Jesenska ma è diventata ormai da due anni la signora Polak e si è trasferita con suo marito a Vienna dove, un po’ per curiosità un po’ per nostalgia della sua terra, legge i primi racconti di Kafka e se ne innamora al punto che inizia a tradurre in ceco Il fuochista.

Milena non mastica bene il tedesco, la sua traduzione necessita di una revisione, e chi meglio dell’autore, che parla entrambe le lingue pur ritenendo la sua lingua madre il tedesco, per avere dei consigli sul suo operato? 

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Scrive così a Franz Kafka, ricoverato nel sanatorio di Merano per la tubercolosi che lo affliggerà sempre e che lui riteneva psicosomatica, una specie di golpe alle sue spalle ordito dal cervello e dai polmoni. Kafka riceve la lettera della Signora Polak e le risponde, criticando la traduzione in alcuni punti e lodandone altri.

È questo l’innesco di una delle più intense relazioni amorose del secolo scorso: l’amore per le parole e la letteratura che lettera dopo lettera si fa disvelamento di anime, fino a diventare una mano tesa al di là dei confini doganali, in grado di oltrepassare vincoli e unire due temperamenti in apparenza così dissimili.

Milena porta nel nome la sua vitalità: in tedesco significa amante o amata, e Kafka lo articola così in una lettera del 13 giugno 1920: “Milena (quale nome ricco, pesante, difficile da sollevare per la sua pienezza, e da principio non mi piaceva molto, mi sembrava un greco o un romano smarritosi in Boemia, violentato in ceco, ingannato dall’accento, eppure, per forma e colore, è meravigliosamente una donna che si porta sulle braccia fuori dal mondo […])”.

In questa onomastica, Kafka riesce a rendere l’intera personalità di questa giovane donna (quando inizia la loro corrispondenza lei ha ventiquattro anni, lui trentotto) che è stata tra le più importanti giornaliste, traduttrici, scrittrici e intellettuali del suo tempo. 

Milena Jesenska è figlia di Jan Jesensky, un medico severo e autoritario proveniente da una antica famiglia ceca, da cui eredita – tra mille conflitti – il carattere indomito e la forte personalità. Perde la madre a poco più di tredici anni, e si ritrova a crescere in fretta, da sola, e con una libertà rara per una ragazza ai primi del ‘900. Sviluppa un senso dell’ironia tagliente e un acuto spirito critico, che le consentono di reagire all’autorità del padre con un’intensa ribellione del cuore: lui prova a farle studiare medicina, ma lei la abbandona dopo pochi anni, dedicandosi alle arti e alla letteratura. La sua personalità imprendibile e affascinante, la libertà con cui viveva e che sprigionava dalla sua intera persona, alimentano i pettegolezzi nella cerchia dei letterati praghesi, che la raccontano come amorale e imprevedibile, disposta a fare follie per chi ama, smodata nelle pretese come nei regali, una donna straripante di vita, che brucia come una candela accesa alle due estremità.

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Con lo stesso ardore, nel 1916 Milena inizia la sua relazione con Ernst Polak, di dieci anni più anziano e per giunta ebreo. Nonostante la contrarietà paterna che la costringe a passare nove mesi a Veleslavin, una casa di cura per malattie mentali, Milena lo sposa e si trasferisce a Vienna, rescindendo ogni legame con la sua famiglia d’origine.

Vienna non è il sogno d’amore che Milena si aspettava: Polak è carismatico e brillante, ma è anche un donnaiolo impenitente, che spende tutto quello che hanno in vizi e lascia spesso Milena sola e sovrastata dai debiti. Iniziare a lavorare è per lei una necessità, comincia così a insegnare ceco in una scuola, a scrivere i primi articoli di moda per la Tribuna e si accosta alle traduzioni. Non è per infelicità però che si accosta a Franz Kafka, che fa breccia nel suo cuore come l’antitesi perfetta e speculare di suo marito: è un uomo alto e dinoccolato, dagli occhi grandi e seri e dall’intensa riservatezza, è un essere puro, spirituale e ascetico tanto quanto Polak è sanguigno e carnale, e il cui viso non è altro che carta da lettera coperta di scrittura. Quando inizia la loro relazione anche Kafka è fidanzato, con Julie Wohryzek, ma è una relazione che non dura, sopraffatta dal sentimento che lo lega a Milena. Eppure Milena e Kafka, nonostante le affinità intellettuali e spirituali, sono come correnti ascensionali opposte, calde e fredde, che insieme originano vortici, tornadi.

La discrasia tra Milena e Franz è esattamente qui: è questo il punto da cui si vede l’ordito, si smaglia il piccolo buco che da subito si è creato tra loro: lei è una colonna di fuoco che passa sopra la terra, un essere in grado di scatenare gli elementi, capace di suscitare amore ma anche di alimentare la paura angosciante che cova sotto l’aria compassata di Kafka, che le scrive: “e ho paura e paura, cerco un mobile sotto il quale possa nascondermi, prego tremando e fuori di me in un angolo perché tu, come sei entrata rombante in questa lettera, possa volare fuori dalla finestra, non posso tenere in camera un uragano”.

Sono, agli occhi di Kafka, come la morte e la fanciulla, e la morte non può avvicinarsi a una vita rigogliosa senza provare il rimorso d’averla spenta, per questo lui non osa porgerle la mano sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda.

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La loro corrispondenza è fatta di corteggiamenti serrati, parole avvolgenti e intense e appuntamenti mancati, promesse non mantenute, scelte non prese. Lui rifiuta di incontrarla più volte di quante si conceda di farlo. Mille volte si danno appuntamento a Praga, a Vienna, a Berlino, ma in due anni e centinaia di lettere si vedranno solo quattro volte, per poche ore in cui anche il sesso sembra avere un ruolo secondario. 

I momenti più intensi li vivono nei quattro giorni passati a Vienna, dal 30 giugno al 3 luglio, spesso rievocati nelle successive lettere di Kafka che proprio il 9 agosto di quell’anno le dichiara amore per la prima volta, in un a parte che rivela tutto il suo timido ardore: “(e ti amo quindi, tu tarda di comprendonio, come il mare vuol bene a un minuscolo ciottolo sul suo fondo, proprio allo stesso modo ti inonda il mio affetto – e presso di te io sono di nuovo il ciottolo, se i cieli lo permettono)”.

A questo incontro seguirà l’incontro di Gmünd e qualche viaggio di Milena a Praga e nei sanatori dove lui viene ricoverato, visite che non hanno più i connotati della passione, ma dell’affetto inscalfibile per una persona cara. I loro incontri fisici sono tutti qui, il resto sono incessanti, infuocate parole.

Come se non bastassero le dogane, i controlli e i passaporti difficili da ottenere, la reciproca paura fa il resto. È la paura infatti il controllore più severo, il cerbero più intransigente. E non la paura di essere scoperti dal marito di lei, che sa tutto quasi dal principio, ma paura di loro stessi. In Milena, agisce la paura del rigore spirituale di lui e della rinuncia ai sensi, la sua parte terrena la spinge lontano da quell’ascetismo così vertiginoso e dolente. In Kafka invece si sviluppa il timore che lei, standogli accanto, scopra il disincanto di chi è lui davvero: un uccellino arruffato e tremante, un topolino che corre atterrito su un tappeto, un piccolo insetto rovesciato sulla schiena, incapace di muoversi, o solo un uomo, inchiostrato di parole, con le sue malattie, le sue angosce, le sue debolezze. Un uomo che teme più il dolore che la morte e preferisce abitare sull’uscio di una casa immaginaria piuttosto che varcare con lei la soglia di una casa reale.

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“Talora ho l’impressione che abbiamo una camera con due porte, l’una di fronte all’altra, e ognuno stringe la maniglia di una porta e basta un batter di ciglia dell’uno perché l’altro sia già dietro la sua porta e basta che il primo dica una sola parola e il secondo ha già certamente chiuso la porta dietro di sé e non si fa più vedere. Egli riaprirà, sì, la porta, perché si tratta di una camera che forse non si può lasciare”: nonostante tutto, il sentimento reciproco è così forte e intenso che Kafka sembra doverlo reificare per essere in grado di comprenderlo ed esprimerlo, dando vita a continue metamorfosi letterarie per riuscire a dire quell’amore: desidera essere un suo studente, per poter essere rimbeccato da lei, o mesmerizzarsi in una in una piccola cosa concreta, qualcosa di vicino, tangibile, qualcosa a cui aggrapparsi quando il sé perde i propri confini nell’altro, come “il beato armadio della tua camera, che ti può guardare appieno quando sei seduta sulla poltroncina o allo scrittoio o ti sdrai o dormi (tutte le benedizioni sul tuo sonno!)”. 

L’11 giugno del 1920, nella sua ventitreesima lettera (Kafka le enumera tutte, saranno 135, perché, scrive, “voglio numerare per lo meno queste lettere, nessuna deve mancare la sua destinazione, così come io non potevo mancare te nel piccolo parco”), qualcosa oltrepassa la soglia della cortesia, rompe il velo fittizio di questo galateo per fermo posta e all’improvviso le dà del tu, poi torna al lei quasi sorpreso dalla sua stessa audacia, e poi ritorna alla seconda persona, vinto dalla potenza delle sue emozioni, tanto che in chiusa è lui a implorarla di dargli ancora, almeno un’altra volta, del tu. Arriva a perdere sé stesso, a smarrirsi nell’amore per lei, e invece del consueto Suo F, il 15 giugno 1920 si firma: “Tuo (ora perdo anche il nome, è diventato sempre più corto e ora è: Tuo)”.

La loro corrispondenza rivela una profonda fiducia e uno scambio intellettuale fecondo: commentano traduzioni, articoli, impressioni politiche e di vita; lui le invia, in merito al difficile rapporto tra Milena e suo padre, la Lettera al padre e numerosi racconti. 

Per Kafka Milena è l’amore nonostante, è felicità e tormento, è farmaco in senso greco, cura e veleno, le sue lettere si bevono a sorsi di gioia o lo sprofondano nell’abisso, lo mettono a nudo, come rivela nella frase più celebre di questo epistolario, diventata famosa grazie al romanzo di David Grossman e contenuta nella lettera datata Praga, 22 settembre 1920: “e forse non è neanche vero amore quando dico che tu sei la cosa a me più cara; amore è che tu sei per me il coltello col quale scavo dentro me stesso”.

Kafka con quel coltello non indica solo la fragilità esposta dall’amore, lo scavo psicologico e introspettivo o la vulnerabilità delle sue paure, ma anche la sua concezione dell’esistenza terrena che confluisce nei grandi temi della sua letteratura: lo spaesamento e la solitudine dell’uomo, la sua colpa ancestrale, il suo pensare di andare dritto con passo felice e ritrovarsi invece confuso in un labirinto, la sua condizione di ebreo gettato nel mondo, senza radici e senza luoghi a cui fare ritorno. A differenza di Milena, che può tornare a Praga, lui non ha un posto in cui tornare davvero. In Kafka la condizione di ebreo si salda così agli aspetti peculiari del suo carattere, e il suo timore verso la vita diventa il timore di ogni ebreo occidentale a cui “non è concesso un secondo di tranquillità, tutto deve essere conquistato, non solo il presente e il futuro, ma anche il passato, quello che ogni uomo ha forse ricevuto fin dall’inizio”. L’antisemitismo imperante negli anni ’20 del ‘900 non può che acuire questo sentimento di paura e smarrimento: gli ebrei sono in fuga dall’Europa e chi rimane comunque, per Kafka, possiede “l’eroismo degli scarafaggi che non è possibile estirpare neppure dal bagno”.

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La fine del 1920 sembra segnare una cesura nella loro corrispondenza, che per un anno intero è stata fitta e intensissima, fatta di sogni rarefatti e desideri di trovare la pace poggiando il viso nel palmo dell’altro. Milena non riesce a lasciare suo marito, non perché non ami Kafka ma perché, con tutta probabilità, ama entrambi di un amore diverso: a Polak è legata da un vincolo che oggi forse chiameremmo disfunzionale e che Kafka riassume, non senza ironia, così: “a proposito di tuo marito non ti ho frainteso. Tutto il segreto della vostra indissolubile unione, questo segreto ricco e inesauribile, lo riversi sempre e di continuo nella tua preoccupazione per i suoi stivali. In questo qualcosa mi addolora, non so esattamente cosa. È molto semplice: se tu dovessi andartene, o lui vivrebbe con un’altra donna o andrebbe in una pensione e i suoi stivali sarebbero puliti meglio di ora”.

A dicembre del 1920 Kafka prova a pensare a una nuova partenza a Grimmenstein, per incontrare Milena. Ma i due Kafka, quello che vuole partire e quello che non vuole partire, si dibattono dentro di lui, entrambi contro di lui. Non partirà neppure questa volta, e non le scriverà più, tranne qualche laconica missiva, che due anni dopo, nell’aprile del ’22, una lettera in cui torna al Lei e sembra spiegare la fine non del loro amore (una volta le aveva scritto “tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più”) ma della loro corrispondenza: “lei sa quanto odio le lettere. Tutta l’infelicità della mia vita […] deriva, se si vuole, dalle lettere o dalla possibilità di scrivere lettere. Gli uomini non mi hanno quasi mai ingannato, le lettere sempre, e precisamente, anche qui, non quelle altrui, ma le mie. […] Come si è mai potuti arrivare all’idea che gli uomini possono frequentarsi per lettera! Si può pensare a una persona lontana e si può afferrare una persona vicina, tutto il resto va oltre la capacità dell’uomo. […] I baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dagli spettri lungo il cammino”. 

Milena rispetta la decisione di Kafka di interrompere la loro relazione, ma scrive a Max Brod lettere disperate, in cui chiede notizie di lui e cerca la sua colpa, chiede a Brod se è stata lei a non capirlo o lui a essere stato divorato dall’angoscia. Si accusa di provare quella nostalgia per “una vita che non condurrò mai, una vita con un bambino, una vita molto vicina alla terra. E in me questo ha avuto il sopravvento su tutto il resto, sull’amore, sull’amore per il volo, sull’ammirazione e ancora una volta l’amore”.

In Milena l’amore non si attenua, non cessa di comprenderlo, di considerarlo l’uomo più puro al mondo, inadatto alla vita pratica ma ammiratore sincero di chi riesce a stare nella vita, di chi è in grado di battere a macchina velocemente come di chi ha molte donne. Kafka ai suoi occhi è un essere sovrannaturale, capace delle più alte vette dell’intelletto e dello spirito ma non di scendere tra le cose di tutti i giorni: andare alla posta, fare l’elemosina a una mendicante o mentire al proprio datore di lavoro per poterla incontrare. Milena sa che il suo genio non può proteggere Kafka da sé stesso, lui è senza pelle, senza protezione, incapace di mentire come di ubriacarsi, esposto alla vita “come un individuo nudo tra individui vestiti, un uomo i cui libri sono stupefacenti, ma lui molto di più”.

Ma, scrive a Brod, “Frank non sa vivere. Frank non ha la capacità di vivere. Frank morirà presto”.

Aveva ragione: l’anima di Kafka era di quelle che toccano la terra solo per un attimo, fatte di una luce troppo chiara per abitarla davvero. L’ultima lettera di Franz Kafka a Milena Jesenska è datata 25 dicembre 1923. Non ci sono parole d’amore ma è una lettera gentile, in cui la chiama Signora Milena e comunica di essersi trasferito a Berlino, di mangiare bene e non essere troppo in salute, e per questo di non stare scrivendo.

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Morirà, provato dalla malattia, qualche mese dopo, il 3 giugno 1924, a soli quarantun anni. Milena gli sopravvivrà di altri venti anni, ma morirà giovane anche lei, a quarantotto anni, il 17 maggio 1944, in seguito a un’operazione mentre era detenuta nel campo di concentramento di Ravensbrück. Fu la custode di molte delle opere di Kafka e dei suoi diari, provò a pubblicare una sua raccolta di racconti da lei tradotta con la prefazione di Max Brod, ma il progetto non vide mai la luce. Quando Kafka muore lei ne scrive un accorato ritratto, pieno d’amore senza essere sentimentale, e che si chiude con un epigramma perfetto, in cui quel volo d’amore mai intrapreso spiega finalmente le ali e rivela la grazia che ci sfiora quando siamo in grado di sentire davvero un altro essere umano nella sua interezza: “tutti i suoi libri descrivono l’orrore di una misteriosa incomprensione, di una colpa innocente tra gli uomini. Era un artista e un uomo dalla coscienza talmente sensibile che sentiva anche dove altri, sordi, si sentivano al sicuro”.

Le citazioni sono tratte da: 

Lettere a Milena, Franz Kafka, edizione critica; Giuntina 2019, a cura di G. Massino e C. Sonino, traduzione di Isabella Bellingacci;

Lettere a Milena, Franz Kafka, Mondadori 2021, a cura di F. Masini, traduzione di Ervino Pocar;

Milena, l’amica di Kafka, di Margarete Buber Neumann, Adelphi 1999, traduzione C. Zaccaroni.

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