Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik

22 Aprile 2023

Blackbird, dei Beatles, è un piccolo capolavoro silenzioso. Uno di quei pezzi che di solito non diventa mai una grande hit, ma compie il suo percorso in sordina, come il metronomo discreto ma martellante che si avverte in sottofondo nei 2 minuti e 20 secondi della sua durata, una di quelle canzoni che non ti immagini a gridare nella folla di un concerto, ma a sussurrare tra i denti stesa su un prato a guardare il cielo. 

È la storia di un merlo che canta nella notte, ripara le sue ali spezzate e impara a volare.

Alejandra Pizarnik, nota poeta e scrittrice argentina, paragona spesso sé stessa a un uccello, e sembra davvero somigliare a quel merlo che canta nella notte mentre si conquista a fatica la sua libertà. 

L’uccello è la mia anima. L’uccello non si sente forte, ha paura di cadere, non può spiccare il volo. Aiutalo! Come? E perché? Perché è il “tuo” uccello. Alzò gli occhi e sorrise al disegno che, appeso alla parete, rappresentava quello che lei voleva: un uccello che spicca il volo.

Lo scrive il 24 settembre del 1954, nelle primissime pagine dei suoi diari, recentemente pubblicati in Italia con il titolo Il ponte sognato, un piccolo gioiello finalmente disponibile per i lettori grazie al lavoro della casa editrice indipendente La noce d’oro, nella traduzione di Roberta Truscia e con la postfazione e la curatela di Ana Becciu.

Il volume raccoglie la prima parte dei suoi scritti, dal 1954, quando Alejandra Pizarnik era una giovanissima e talentuosa poeta di diciotto anni, al 1960, anno in cui lascerà Buenos Aires per volare a Parigi alla ricerca della sua voce, e dove frequenterà alcuni tra i maggiori intellettuali e scrittori del ‘900.

Il 24 settembre del 1954 però, Alejandra Pizarnik non è ancora una dei più grandi poeti argentini, ma la geniale secondogenita di una benestante famiglia ebrea, dotata di un prodigioso talento per la scrittura e di una sensibilità fuori dal comune, di nervi fragili e una spiccata propensione alla vitalità e all’amore per la vita che fa da contrappunto a pulsioni autodistruttive e suicide.

È ancora un uccellino che prova a volare, che sta imparando a vedere, anche nei tratti: gli occhi grandi e verdi, la mano che non scrive che tiene una sigaretta sempre accesa tra le dita, i capelli corti e scuri, la bocca grande, vorace, spalancata a chiedere amore, sesso, cibo, alcol, fumo a cercare di articolare un suono che non sia balbuzie e ci riesce solo nella scrittura, nella ferma musicalità dei versi.

Alejandra scrive sapendo di essere una scrittrice, scrive con la cognizione di scrivere un diario per i lettori del futuro, e lo inaugura con una sua poesia, a cui segue una narrazione in terza persona che ricorre spesso nelle pagine, quasi a volersi percepire come un altro da sé, a voler fare già letteratura, ma anche a cercare in quella terza persona qualcosa di sé che ancora non conosce. Nelle pagine si rincorrono citazioni di scrittori amati, a validare o confutare i pensieri, estratti dei libri che sta leggendo e vere e proprie note di lettura: si alternano Cervantes, Proust, che legge per intero appuntando interi periodi della Recherche, Katherine Mansfield, Virginia Woolf e Vallejo, l’amato Vallejo che non smette di essere punto di riferimento poetico ed esistenziale. Preferisce Mansfield a Woolf, che trova adorabile, ma datata: legge Una stanza tutta per sé, riconosce il debito che Il secondo sesso di de Beauvoir ha verso quest’opera ma sostiene che l’assunto di Woolf non basta a essere scrittrici, a sentirsi libere: lei possiede una stanza tutta per sé e denaro a sufficienza ma ancora sono l’essere meno libero che esista. […] Ma la mia mancanza di libertà è dovuta al fatto che non affronto la realtà. Al contrario si ritrova nell’ironica malinconia di Cesare Pavese: quando legge Il mestiere di vivere prova Profonda sorpresa. E paura. Perché quasi tutto quello che ha scritto mi sembra pensato da me. C’è di più: io l’ho pensato – o meglio: sentito – e ne ho persino scritto nel mio diario. Una somiglianza che al tempo stesso la delude, e la salva.

Vorrebbe la determinata pazzia di Don Chisciotte, che ci mette quattro giorni a scegliere il nome del suo cavallo, e non la sua follia sfaccendata, carsica, capace solo di inibire la creazione in quel che ama di più, scrivere.

Insieme alla scrittrice consapevole coabita la ragazza nevrotica, insicura, ossessionata dalla possibile mancanza di talento e dall’aumento di peso, che le fa odiare un corpo che la riporta alla terra mentre lei vuol farsi spirito, aria, respiro. 

Alejandra frequenta l’Università, vorrebbe studiare e dare gli esami, ma la balbuzie la inibisce, la frena, e così si rifugia nella scrittura, l’unico posto dove si sente al sicuro, dove può provare a essere sé stessa senza altro giudice che la sua capacità di autocritica, che le fa scrivere poesie per poi strapparle, feroce. Si aggrappa alla penna, lotta, incessantemente, insieme al suo quadernetto.

Che m’importa dei titoli! Dico che voglio essere scrittrice! Bah! Dicono che sono cose marginali. Marginali! Loro non sanno cosa significhi piangere su un foglio vuoto e riempirlo pazientemente con sogni creati da sé. Sembra una magia. Riempire un quadernetto che era nudo e triste. Dargli vita e consegnargli il meglio di sé. Ah! Scrivere. Che bello scrivere!

La scrittura diventa il tutto a cui aspirare, la realizzazione di una vita e di una identità, in cui Pizarnik avverte subito il peso di un destino. Vuole essere il suo destino. Pensa di non essere bella come le altre donne e se da un lato ne soffre, in fondo sa che non è una vita comune quella che il destino le ha preparato.

Ama essere amata, e si dispera quando non accade, ma non sa vedersi come una moglie né come una madre, è in questo profondamente autonoma, moderna, consapevole che se accettasse le convenzioni e le aspirazioni che la società riserva alle donne potrebbe normalizzarsi, ma non le interessa innamorarsi o aspettare l’amore, le interessa solo scrivere, creare più che procreare. 

Il 22 agosto del 1955 scrive:

Procreare. Procreare. Rifletto sul fatto che ogni uomo che passa ha un fallo e che in lui ci sono vari esseri in potenza. Che ogni donna che passa ha un proprio utero atto a portare esseri. E continuano a passare! Continuano! Volti. Tutti uguali. Raddrizzo il mio corpo. Guardo il cielo e mi sento trascendere. Mi sento chiamata, supremamente chiamata. Devo creare! È l’unica cosa importante nel mondo. Aggiungere qualcosa. Lasciare qualcosa.

Negli anni in cui scrive questi diari, Alejandra Pizarnik pubblica tre libri di poesie ma vorrebbe scrivere un romanzo, è il romanzo a cui aspira, lo desidera ma non ci riesce. Pensa che solo con un romanzo si consacrerà scrittrice. Matura e pianifica propositi suicidi: arrivare a trent’anni al massimo, scrivere fino ad allora e poi morire. La scrittura è vita, l’assenza di scrittura la fine di ogni cosa.

Ho un sogno che lascerò nel romanzo. La scrittura diventa così il suo ponte sognato, l’elemento da far detonare per realizzare sé stessa e smettere di oscillare tra il desiderio di scrivere e l’azione, essere non la ragazza di talento ma il genio che passa dalla potenza all’atto, mentre recrimina costantemente la sua volontà che si rifugia nell’inconcludenza, in bilico sul filo sottilissimo dell’inchiostro che è il ponte percorribile tra il limite e l’infinito. 

Il diario diventa il suo ponte scritto, la letteratura che accade quando sembra non stia succedendo nulla.

Desidera con tutte le sue forze diventare sé stessa, Voglio vivere ed essere me stessa. (Non starò lottando con la pazzia?) e ancora «Voglio essere ciò che già sono», scrive tra un martedì e un mercoledì del 1958.

Vuole la libertà, Alejandra, di alzarsi in volo di notte raccogliendo le sue ali spezzate, ma essere liberi è una lotta contro la malinconia, le pulsioni all’infelicità, l’oscillare di un pendolo tra la vocazione e l’insicurezza.

Così va la vita, Alejandra. Sento un gusto amaro! Una sensazione di perdita! Prima ero euforica d’allegria. Ora è il turno dell’angoscia. Per un istante di gioia, mille giorni di tristezza.

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In questo dualismo opposto, la vita: gli amici, gli amori, le lezioni all’università e le sbronze, gli incontri, la fame vorace di sesso, l’attrazione verso le donne, per cui prova desiderio e repulsione fino al punto di arrivare ad affermare di poter amare solo una donna, ma di avere bisogno degli uomini per essere soddisfatta sessualmente. 

Perché mentire a me stessa. A me piacciono le donne, solo le donne. Ma non sessualmente. Questo è il problema.

E l’ironia come strumento affilato per sopravvivere, per dissacrare la paura e poterla guardare negli occhi.

Non so parlare di nient’altro che della vita, della poesia e della morte. Tutto il resto mi inibisce, o diventa oggetto del mio senso dell’umorismo, che è la stessa cosa. (Il mio senso dell’umorismo: il grande complice).

Lo stesso senso dell’umorismo amaro che le fa scrivere, il giorno del suo ventesimo compleanno, mentre prova a vestire di festa l’angoscia: Alejandra, ti hanno chiesto «come ti tratta la vita?». Tu hai detto «Non la conosco».

Cerca gli altri che non sa comprendere e da cui non si sente mai realmente compresa, sta bene davvero soltanto da sola, a leggere e scrivere, e la libertà a cui aspira sembra provarla solo una volta, in vacanza a Mar del la Plata nel febbraio del ’56, forse la parte dei diari in cui si lascia andare di più alla sua naturale propensione, la poesia, nel suo elemento, il mare, che si fa persona, in cui le onde divengono cose vive, e la scrittura si fa epigrammatica, rarefatta, tanto che si può persino intravedere la gioia:

Il mare ha urlato di gioia quanto un uccello di carta rosso gli ha calpestato la schiuma.

Il mare firma con il suo pseudonimo.

Tutti gli anni, il mare realizza un atto di allegria: La causa: la possessione della sua amata Alfonsina Storni.

[…] Il mare si incastrò nel corsetto di una donna, mentre le onde si ammazzavano di risate.

Nel 1960 realizza il desiderio di andare a Parigi, è l’anno che si apre con una preghiera:

Che quest’anno mi sia dato di vivere in me e non fantasticare né essere altre, che mi sia dato di mettermi in forma e non cercare l’impossibile ma la magia e la stranezza di questo mondo che abito. Che mi siano dati i desideri di vivere e conoscere il mondo. Che mi sia data la possibilità di interessarmi a questo mondo.

Parigi è una promessa da realizzare dall’altra parte dell’oceano, poter diventare sé stessa, comprendere l’altro, essere amata, vivere nella poesia, ma anche il luogo dove poter dare sfogo ai miei deliri omosessuali.

Nella ricerca di un’identità smette di truccarsi e inizia a sembrare una lesbica pur senza sentirsi tale, continua a desiderare con forza di scrivere un romanzo (Voglio scrivere un romanzo. Voglio scrivere un romanzo. Voglio scrivere un romanzo) e allo stesso tempo non smette di indugiare, di perdere tempo, di cullarsi nella dimensione onirica, di attraversare il suo ponte sognato avanti e indietro senza sosta.

A Parigi all’inizio del 1960 conoscerà Simone de Beauvoir, di cui penserà di essersi innamorata, e in seguito anche George Bataille, Julio Cortázar, Octavio Paz, Italo Calvino, Roger Caillois e Cristina Campo, con cui terrà una appassionata e platonica corrispondenza. Pubblicherà altri libri di poesie, collaborerà con giornali e riviste (Sur e La Nouvelle Revue Française), tradurrà Artaud, Césaire e Bonnefoy e insegnerà alla Sorbona.

Dopo la sua morte, suicida a soli 36 anni, Cortázar le dedicherà una lunga poesia densa di cose piccole e grandi aspirazioni, di musica e di manie, Qui, Alejandra, in cui la chiama Bestiolina e che sembra racchiuderla perfettamente:

Qui bestiolina,
qui contro tutto questo,
incollata alle parole
ti reclamo.

[…]

Alejandra, bestiolina mia,
vieni in questi versi, in questo quaderno giapponese
Osiride tra carte di riso,
in questo feltro che gioca coi tuoi capelli

(Amavi, queste cose senza senso
aboli bibelot d’inanité sonore

le gomme e le buste da lettera
una cancelleria giocattolo
l’astuccio delle matite
i quaderni a righe)

Vieni, resta un po’ qui.
beviti un bicchiere,
ti bagnerai a rue Dauphine,
non c’è nessuno nei caffè affollati,
non ti dico bugie, non c’è nessuno.

Sì lo so, è difficile,
è così difficile trovarsi

questo bicchiere è difficile,
questo fiammifero.

[…]

Ma nel 1960, quando si chiude questa prima parte dei suoi diari, Alejandra ancora non conosce Julio Cortázar, né gli altri intellettuali che le saranno amici e sodali, è una giovane e geniale poeta arrivata da poco a Parigi, a cui la vita si srotola davanti nei caffè parigini, anche se è destinata a non durare.

Qui, Alejandra è ancora un uccellino arruffato, un piccolo merlo scuro, gli occhi spalancati, esterrefatti, il cui canto si leva nella notte in cerca del momento giusto per essere libero.

n.d.r.

Le traduzioni dei diari di Alejandra Pizarnik sono di Roberta Truscia, in Il ponte sognato, La noce d’oro edizioni.

La poesia Qui, Alejandra, di Julio Cortázar è tradotta da Marco Cassini in Salvo il crepuscolo, Sur. 

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