Prof, mi ridice il nome di quel libro?
Quando andavo al liceo, odiavo Manzoni. Il mio spirito inquieto, mobile, novecentesco, che erigeva cattedrali al dubbio, si trovava a disagio con le sue granitiche certezze ottocentesche. Sui promessi sposi, poi, gravava lo stigma del segno grigio dell’obbligo che a me, lettrice precoce, onnivora e autodidatta, urticava sulla pelle come i pesanti collant di lana che mi avevano obbligato a mettere da bambina.
Su Lucia scagliavo la maggior parte della mia insoddisfazione: la trovavo un personaggio piatto e piagnucoloso, con quel suo modo di fare perfettino e dimesso che la rendeva ai miei occhi la manipolatrice perfetta. Adoravo, di contro, Don Abbondio, definito da quella litote (molto novecentesca) che non lo rendeva un cuor di leone, il povero curato di campagna che per sopravvivere, vaso di coccio tra vasi di ferro, sceglieva prima la carriera ecclesiastica e poi la piaggeria verso i potenti. Quella piaggeria contro cui mi scagliavo con passione nella vita vera, tanto da aver appeso nella mia stanza i celebri versi in latino dell’Agricola di Tacito, in Don Abbondio mi affascinava, lo rendeva ai miei occhi profondamente fallibile, imperfetto, umano. Ero in grado di provare empatia per lui come per l’indole pettegola di Agnese e l’onesto coraggio di Fra Cristoforo.
I Promessi sposi l’ho poi ripreso in mano anni dopo, da professoressa, e l’ho riletto con occhi puliti, liberi, gli stessi con i quali avevo accostato Dostoevskij, Tolstoj, Brontë, Austen, Shelley, Alcott, Dickinson, Moliere, Dumas, Shakespeare, ecc., i grandi classici della letteratura ottocentesca europea e americana che solo per il fatto di non esserci imposti mi sembravano più desiderabili, degni di rispetto e attenzione.
Quale stupore invece in quella rilettura: scoprivo ora, con enorme interesse, che sui Promessi sposi ci si sarebbe potuto imbastire un intero corso di scrittura: la scelta del narratore onnisciente, la suddivisione dei capitoli, le zoomate prospettiche nella parte del borgo, la crescita dei personaggi, i dialoghi, le descrizioni dettagliate e vive sia dei paesaggi che dei personaggi, con i cavalli purosangue guidati da un condottiero esperto che scalpitavano negli occhi di quella testa calda di Fra Cristoforo. Mi piace pensare che, fra tutti i personaggi da lui inventati, Manzoni avesse messo un po’ di sé proprio in Fra Cristoforo, quel personaggio ribelle che la fede aveva disciplinato.
La riscoperta di Manzoni non è stata senza conseguenze, ai miei occhi di docente: ho iniziato a chiedermi perché le statistiche indicano che i bambini fino ai tredici anni leggono moltissimo e nell’adolescenza li perdiamo come lettori? Cosa accade di preciso nelle loro giovani menti che li porta, salvo una pur nutrita minoranza, ad allontanarsi dalla lettura? L’adolescenza, certo, i primi amori, le uscite, i problemi in famiglia e con gli amici che si fanno più pressanti, tutto questo può contribuire, ma da soli non mi sembrano motivi sufficientemente validi per privarsi della bellezza, della creatività, dell’emozione, dell’immaginazione e del ragionamento che i libri, i bei libri, contengono. Perché la maggior parte dei ragazzi non trova rifugio nella letteratura, come era accaduto alla me adolescente?
Dobbiamo senz’altro avere una responsabilità anche noi professori. Ho iniziato a guardarmi intorno: cosa facciamo per suscitare in loro curiosità, passione per la lettura (perché di passione si tratta)? Incontri con gli autori, iniziative di promozione del libro, e va bene, ma quante volte diamo classici da leggere durante le vacanze, chiedendo loro recensioni, assegnando valutazioni, obbligandoli a leggere pena un brutto voto sul registro?
Forse è questo il nostro problema: spinti dalle migliori intenzioni didattiche, obblighiamo a leggere, nella speranza che dal nostro obbligo possa scaturire il desiderio, che costretti a leggere quelli che sono universalmente riconosciuti come capolavori si appassionino e vengano poi a dirci grazie di avermi forzato, altrimenti non l’avrei mai fatto.
A volte accade, va riconosciuto, ma credo che questo sia in gran parte un errore, perché la lettura viene associata nella stragrande maggioranza dei casi a qualcosa di noioso, di costrittivo, qualcosa che presuppone un giudizio di merito e che disintegra la gioia pura del leggere, il piacere che è la lettura.
Più spesso invece finiamo per somigliare a quei mezzo-colti di cui parlava Virginia Woolf in un suo celebre saggio, intermediari di media intelligenza che si muovono confusamente da una parte all’altra, che cercano di accattivarsi allo stesso modo il favore dei colti (in questo caso gli scrittori) e dei non-colti (gli studenti), con esiti ovviamente mediocri.
Cosa allora possiamo fare? Io ho deciso di procedere per tentativi: come prima cosa, ho eliminato le liste di letture obbligatorie e ho iniziato a suggerire invece di imporre, e spero che funzioni, che siano loro a cercare i libri. Quando faccio lezione tendo ad aprire lunghe digressioni, parentesi di collegamento, e allora non posso fare storia e parlare della Seconda guerra mondiale e della Resistenza senza citare La storia di Elsa Morante, Una questione privata e I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio, La casa in collina di Pavese e Lessico famigliare di Ginzburg, Dalla parte di lei di Alba de Céspedes ma anche Mattatoio n.5 di Vonnegut o Comma 22 di Heller, o Maus di Spiegelman, solo per citarne alcuni. Calvino mi aiuta con Montezuma e Ariosto, e non posso fare a meno di spiegare le figure retoriche con gli Esercizi di stile di Queneau e la punteggiatura grazie all’arguzia di Cortázar, le descrizioni con La scopa del sistema di Wallace, la non neutralità della lingua con Sabotaggio d’amore di Amélie Nothomb, lo schiavismo con La ferrovia sotterranea di Whitehead o con Il colore viola di Walker, e la situazione in Iran senza nominare Persepolis o Leggere Lolita a Teheran.
La mia idea è che la storia della letteratura sia un Se una notte d’inverno un viaggiatore continuo, una catena ininterrotta di letture e riferimenti, e allora il Romanticismo europeo non può prescindere da Frankenstein, Jane Austen o dalle sorelle Brontë, il decadentismo da Dracula o Dottor Jekyll e Mr Hide, e il novecento non posso iniziarlo senza aver letto loro l’incipit di Mrs Dalloway – affido a lei il compito di portare fiori sulla tomba di Anna Karenina – o il monologo di Molly Bloom dell’Ulisse, in un lungo continuum spazio temporale letterario.
Vorrei lasciar balenare la possibilità che non ci sia un unico percorso diacronico da seguire, e che invece si possono leggere insieme autori contemporanei – viventi e non – e grandi autori del passato, che si possano mischiare romanzi, poesia, fumetti e graphic novel (tanto amati dai ragazzi e tanto stupidamente snobbati dagli aduli). E poi recuperare le autrici, le grandi dimenticate dalle antologie scolastiche e dai manuali di storia della letteratura, perché i libri sanno dare voce a chi non ne ha mai avuta.
E allora ecco le poesie di Carver e Grace Paley, perché poesia non è solo Il 5 maggio, ma anche Patrizia Cavalli e Valerio Magrelli, Mariangela Gualtieri e Sylvia Plath, Goliarda Sapienza e Allen Ginsberg, Zuzu e Vanna Vinci (D’annunzio è più interessante se lo accompagna la Marchesa Casati), Anna Maria Ortese e Dino Buzzati, Il maestro e Margerita e Hemingway, I nove racconti di Salinger e Bukowski, Borges e Autobiografia di una rivoluzionaria di Angela Davis, o James Baldwin e Toni Morrison per raccontare le battaglie per i diritti civili in America, e inevitabilmente finisco per suggerire la lingua viva, contemporanea di Pier Vittorio Tondelli in Altri libertini, o la creatività di Andrea Pazienza. In classi che sono per fortuna sempre più etnicamente variegate, è importante per me suggerire loro di fuggire il pericolo di una storia unica leggendo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie o Zadie Smith, ma anche italiani di seconda generazione come Igiaba Scego o Espérance Hakuzwimana. In contesti in cui non si comprende la dolorosa portata delle migrazioni, sempre avere sottomano La frontiera di Alessandro Leogrande o Ali Smith, per capire gli effetti della Brexit o semplicemente l’altro, che spariglia le carte ma arricchisce, non sottrae. Di recente in una classe mi hanno chiesto di parlare di identità di genere e inclusività, e ho creato con loro una piccola biblioteca queer in continuo aggiornamento, in cui figurano tra gli altri Jeanette Winterson e Pedro Lemebel, Camila Soza Villada e Bernardine Evaristo, Fumetti brutti e Leo Ortolani, ma anche Pasolini e Virginia Woolf. E poi porto sempre con me a scuola i libri che sto leggendo, in caso di ora buca, e succede di parlarne con loro o di prestare Vita mortale e immortale della bambina di Milano di Starnone a un ragazzo che aveva finito presto il compito in classe e si annoiava, e che ne ha letto metà e poi mi ha detto “Mi è piaciuto prof, un bel modo di parlare della morte”.
E ha senz’altro ragione Virginia Woolf dandoci la dimensione di quel che perdiamo quando scolliamo la letteratura dalla vita e la riduciamo a un vezzo snob: la letteratura scevra dal piacere della lettura diviene un insegnamento calato dall’alto, fatto di didattica, dogmi e giudizi sul registro che assimilano noi docenti ai peggiori fra i mezzo-colti, creando distanze siderali tra chi insegna e chi apprende, tra l’oggetto libro e il lettore, mentre leggere è un gesto individuale, libero, diretto, come il naturale rapporto tra i colti e i non-colti.
Scrive Woolf: «E poi, insisto io, levando in aria una focaccina sulla punta del cucchiaino da tè, come osano i mezzo-colti insegnarvi a leggere Shakespeare, per esempio? Leggetelo, piuttosto, per conto vostro. Se trovate difficile leggere Amleto, invitatelo a prendere un tè. Chiedete a Ofelia d’incontrarsi con lui: lei è una non-colta come voi. Parlate con loro come fate con me, e imparerete sul conto di Shakespeare più di quello che tutti i mezzo-colti insieme sono in grado d’insegnarvi».
Ecco, magari oggi i nostri ragazzi non inviterebbero Amleto per un tè, ma dovremmo lasciar intendere loro che possono invitarlo a uscire per una passeggiata o a fare un giro in bici, a prendere una birra o farlo salire in motorino per andare a ballare, e forse lo sentirebbero più vicino, potrebbero comprenderlo e allora amarlo sarebbe facile e chissà, magari potrebbero arrivare a pensare che leggere è cosa viva, che parla di loro, li riguarda, è un gesto di gioia e di puro piacere, alla portata di tutti, come l’amore, che leggere è fico e si può fare ovunque e in mille modi, su carta o su e-reader, seduti in poltrona o camminando con un audiolibro in cuffia, comprando i libri o prendendoli in prestito.
Quest’anno conto di uscire spesso con i miei studenti, passeremo a prendere Amleto e passeggeremo all’apparenza senza meta e forse anche senza risposte ma tenendo insieme le nostre domande, mi piacerebbe portarli in una Coney Island di letture in cerca di un giro di giostra che possa generare, almeno in qualcuno dei miei studenti (fosse anche solo uno), la domanda più bella di sempre: Prof, mi ridice il nome di quel libro?