Camilla Cederna, pervestita sarà lei!

19 Febbraio 2025

È un dato di fatto che per un lungo periodo, a cavallo tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del ‘900, per le donne che volessero scrivere sui giornali lo spazio fosse limitato ad argomenti considerati femminili, come la moda e la società.

Eppure da quello spazio così circoscritto e limitato molte grandi scrittrici si sono ritagliate la loro finestra sul mondo, raccontando con grazia e una certa dose di ironia i cambiamenti del mondo intorno a loro, insieme ai vezzi e alle idiosincrasie del proprio tempo, rivelandosi non solo acute osservatrici ma anche penne eleganti e affilatissime.

Tra Matilde Serao, Sibilla Aleramo, Irene Brin e le tante altre che in quegli anni si affacciavano al mondo delle lettere, spicca una firma dalla verve brillante e dalla profondità ineguagliabile anche nella leggerezza, Camilla Cederna, che diventerà giornalista delle più brave e apprezzate nel nostro Paese, firma importante di testate come l’Europeo e L’Espresso, su cui terrà una rubrica, diventata poi celebre, dal titolo Il lato debole.

L’attitudine a unire il serio e il faceto, leggerezza e profondità, emerge in Cederna fin dai tempi dell’università, quando sceglie di laurearsi in letteratura latina con una tesi dal titolo “Prediche contro il lusso delle donne dai filosofi greci ai padri della Chiesa”, rivelando quanto già intravedesse, negli scritti di costume, il termometro per definire ogni società. Di nuovo, durante l’armistizio del 1943, la sua firma balza agli occhi del regime per un articolo dai toni sarcastici sulle tetre divise fasciste, La moda nera, uscito su Il Pomeriggio del Corriere della sera. Cederna conosce la capacità della parola nello smascherare il potere, tanto più potente quando il linguaggio si fa tagliente, ironico, provocatorio. Niente come l’ironia è infatti in grado di smascherare il re nudo, o di detronizzarlo semplicemente prendendo in giro quello che indossa, e lei lo sa bene.

Le mancate ristampe dei suoi titoli hanno reso negli ultimi anni i libri di Cederna sempre più difficili da reperire in libreria, sottraendo ai lettori una delle menti più intelligenti e controverse del ‘900, ma per fortuna negli ultimi tempi i suoi tesori letterari perduti stanno iniziando a essere riportati alla luce da editori illuminati tra cui spicca la casa editrice nottetempo, che sta facendo un meritorio recupero di tutta l’opera di Cederna, a cura di Irene Soave. Dopo il bellissimo libro su Maria Callas, fra i titoli recuperati di recente, nottetempo ha portato nuovamente in libreria uno dei suoi libri di costume più riusciti, Le Pervestite, pubblicato per la prima volta nel 1968 per Immordino editore e che da tempo non era più reperibile. Le Pervestite raccoglie i ventiquattro articoli che Cederna scrisse per l’Espresso dal gennaio 1967 al gennaio 1968, e restituisce da subito l’atmosfera, i vizi e i vezzi dell’Italia degli anni ’60.

Leggerli significa ritrovarsi catapultati nell’Italia del boom economico, in cui Milano è punto di osservazione privilegiato, microcosmo industriale che funge da lente di ingrandimento per l’intero paese. È un’Italia che sta cambiando travolta dalla modernità che arriva da oltreoceano e dall’Europa, in cui i vestiti si accorciano, le gambe si scoprono e persino le ginocchia si truccano, in cui gli uomini rivendicano per sé la cura e le crinoline che erano sempre state a esclusivo appannaggio femminile e le donne prediligono i pantaloni e il seno piatto, anticipando la fluidità che sarà del glam rock anni ’70 e poi della nostra contemporaneità. Sono loro le pervestite, irriducibili modaiole con sempre meno centimetri di stoffa addosso e sempre più pelle scoperta, che affollano i salotti milanesi e le feste a tema dell’alta borghesia e della finanza, che segnano attraverso la moda l’apertura di una strada nuova di zecca, che può lasciare nel passato l’Italia rurale del dopoguerra.

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“La mia ambizione”disse una volta di sé a Grazia Cherchi “era quella di descrivere le persone come un entomologo descrive un insetto, catalogando stereotipi, comportamenti, linguaggi, forme, abitudini, particolari” e per farlo lavora con grande maestria sul linguaggio, lo affila con sapienza, rendendolo sempre più ironico e ricercato, colto e colloquiale, spaziando tra registri linguistici differenti, alla ricerca dello strumento migliore e di uno stile unico in grado di dissezionare il proprio tempo e cercare di comprenderlo. Ecco che compaiono termini come “farsi una romilata”, per indicare chi prende venti pasticche una o due volte al mese, “gialappa” per l’effetto lassativo di un impasto di semi di acido lisergico, o il “burnous”, un mantello di lana pesante, fino ai “Buñuelloni”, i negroni solo “molto più forti” del regista Buñuel alla Mostra del cinema di Venezia. Cederna si cala nel linguaggio del suo tempo, lo utilizza, lo scompone, a volte ne prende in giro la rapida evoluzione, come quando, per raccontare il mondo in affanno delle nuove trentenni tutte tese a seguire le mode, scrive:

Ha appena imparato un frasario e già deve rinunciarvi, aggiornandolo all’impazzata. Continuava a dire infatti “Zen”, “yoga”, “complesso”, “op”, “pop”, “barbecue” e “cabinato”, e adesso le giurano che son parole da non pronunciare mai più, insieme ad altre sue favorite, nomi propri e modi di dire, come “mods”, “paradisi artificiali”, “intellighenzia”, “conigliette”, “Günther Sachs”, “bondite”, “Paco Rabanne”, “debuttanti”, “Sadik”, “boyfriend”, “Pablo il visagiste”, “pigiama-palazzo”, “fantascientifico”, “astrale”. Ha appena imparato “Carnaby Street” e già deve dimenticarlo, mentre deve dimostrarsi informata su argomenti attuali, come gli abatini, il clergyman, il difensionismo, la Bibbia laica e gli zombi.

E però sbaglierebbe chi cercasse negli articoli di Cederna solo una cronaca modaiola, il suo tratto distintivo, per sua stessa ammissione, è sempre stato quello della varietà: così accanto alla descrizione della nuova borghesia e delle sue eccentricità, la giornalista affronta tematiche sociali cruciali come la necessità di svecchiare la scuola e le sue istituzioni, o la scoliosi nei bambini e l’importanza dell’educazione sessuale per le nuove generazioni. Emerge dai suoi testi la contrapposizione stridente tra il bisogno di cambiamento della società degli anni ’60 e le problematiche ancora gravissime che la nazione doveva fronteggiare per potersi definire davvero moderna.

Il ’68 deve ancora manifestarsi, ma già lo si può leggere in controluce negli esilaranti pezzi scritti sulle droghe e il mondo beatnik:

ed ecco il ragazzo che a braccia in fuori corre rombando attraverso il traffico perché si crede una motocicletta, quell’altro che in piena notte galoppa e nitrisce al parco, dandosi grandi pacche sulle natiche perché è convinto e felice di essere un focoso destriero; un terzo che con la pupilla dilatata grida che vede sciami di farfalle tropicali e fa per acchiapparle sfiorando paraurti in marcia e passanti sbalorditi

e corre a descrivere nel dettaglio usi e costumi legati ai diversi tipi di droga in commercio e persino come riconoscerne il consumatore a seconda degli effetti collaterali, ma la sua non è una visione bigotta, piuttosto è una valutazione senza giudizio, di chi osservi tutto da lontano con occhio divertito.

Alla nuova generazione di capelloni che invade le strade, e che si riproduce come una divertente fiera dell’est in cui c’è il padre capellone, madre capellona con annesso neonato capellone, attribuisce il potere eversivo di rigettare il mondo capitalistico e mettere in discussione la società e il suo sistema produttivo, e di farlo attraverso l’impegno politico, la pace e l’amore, anche se con la pecca di non proporre nessuna alternativa vera.

Punte di vera maestria narrativa – in cui viene fuori quella sua volontà programmatica di “trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi”, come ricorda Irene Soave nella bella prefazione alla raccolta – Cederna le raggiunge quando parla dei due grandi temi caldi degli anni ’70, il divorzio e l’aborto. Nel leggere in questi pezzi delle manifestazioni di immaturità dei separati e la facile strumentalizzazione dei figli, oppure l’odissea delle donne che ricorrono all’aborto clandestino proprio perché è vietata o moralmente sconsigliata la contraccezione, ci si accorge che il testo di Cederna non ha un valore meramente documentale, non rappresenta semplicemente uno scorcio su un mondo che non c’è più, ma tocca invece i nervi scoperti del Paese, aprendo squarci e sollevando domande su tematiche e problematiche che cinquant’anni dopo appaiono tutt’altro che superate.

Camilla Cederna.

Tra campagne pro vita ante litteram e medici e mammane che praticano aborti clandestini o semi clandestini, Cederna intinge la penna nel vulnus di una società cattolica e moralista, che nega l’aborto sicuro a donne sposate, operaie, lavoratrici, liceali o semplici ingenue che come unico contraccettivo usano la fiducia nel consorte che “promette di stare attento”, racconta di donne che lavorano e che perdono il posto se rimangono incinte o che magari ricorrono all’aborto perché hanno già una famiglia che non riuscirebbero a mantenere con l’arrivo del nuovo venuto, riferisce di ragazze che fanno collette per pagare l’interruzione di gravidanza come gesto di solidarietà per chi non può permetterselo.

Il pensiero di ieri, lo sguardo critico e vivace di questa giornalista del secolo scorso ci riporta all’oggi, ci incalza nel presente, se ne fa specchio, stimola all’azione e permette a chi legge di comprendere quanto le strette maglie della morale pubblica abbiano imbavagliato e trattenuto la possibilità di un rinnovamento vero, anche oggi che quei diritti, l’aborto e il divorzio, sono stati ottenuti e forse spiega anche perché siano ancora, costantemente, messi in discussione.

Non mancano poi le osservazioni in generale sulle donne, a cui Cederna guarda con partecipazione e acuta ironia, e di cui coglie, attraverso la moda e i suoi cambiamenti, un aspetto di nuova emancipazione che investe anche la vita privata: le donne che non si vestono ma si travestono non per piacere agli uomini ma piuttosto per fargli dispetto, per rivendicare l’insolente indipendenza da quanto desiderano gli uomini, il desiderio di essere sé stesse per sé stesse.

Nessun uomo trova belle le gonne col ginocchio in evidenza, ma loro non fanno che favorirne l’ascesa. L’uomo vorrebbe il seno ma loro se lo schiacciano, a lui piace la calza liscia e loro se la lavorano sempre di più, vorrebbe la scarpa smilza e loro la preferiscono tracagnotta.

E da qui è facile lo scarto verso la modernità: le donne della fine degli anni ’60, specialmente quelle borghesi, hanno degli amanti, fanno la prima mossa, vivono una nuova giovinezza a quarant’anni e si interrogano se sottoporsi o no a un intervento estetico a cinquanta. Cederna le osserva tutte, le donne, e a loro riserva uno sguardo di tenera indulgenza e complicità, come chi prenda in giro una vecchia amica con cui c’è molta confidenza.

Racconta gli sforzi, tra creme e palestre, per mantenere il fisico giovane e tonico, le corse a comprendere e utilizzare il linguaggio più giovane e alla moda, il rapporto particolare che le signore dell’upper class milanese hanno col loro parrucchiere o il personal trainer e punta il dito contro una società dai canoni smaccatamente sessisti, che usa un doppio standard per gli uomini e per le donne su temi come la vecchiaia e le relazioni extraconiugali, o sottolinea come la menopausa (mai nominata ma sottintesa) sia ancora il peggiore dei tabù:

Cosa fare allora? Possibile che al giorno d’oggi non si sia trovato nulla contro la turpe vecchiaia, che il mondo si divida crudelmente in due parti, persone fresche e persone rafferme, donne da una parte e asessuate matrone dall’altra? […] Perché l’ottenuto aumento di durata della vita umana, soprattutto per la donna deve essere drammatico, perché quella media di venticinque anni che oggi dalle donne sono stati guadagnati alla fine della loro giovinezza organica, sono spesso anni di umiliazione fisica, vita limitata e à côté?

Pur non essendolo in maniera dichiarata, Cederna sembra già tracciare la strada delle istanze femministe di oggi, rivendicando non solo il diritto delle donne di separarsi, avere accesso all’aborto sicuro e garantito, vestirsi come desiderano e smarcarsi dallo sguardo maschile, ma decostruendo anche importanti questioni sociali come l’imperativo ossessivo della bellezza e della fertilità. Sembra suggerire, tra un sorriso e l’altro, tra una affettuosa presa in giro e una sentita solidarietà, la distruzione dei cliché che vogliono la donna in declino a partire dai trent’anni e apre la strada all’idea che i quaranta costituiscano non una nuova adolescenza da crisi di mezza età, ma la possibilità di una maturità consapevole e adulta, che renda le donne finalmente libere di essere sé stesse e – perché no – anche di innamorarsi per davvero.

E aveva sicuramente ragione Rossana Rossanda quando, nella sua autobiografia La ragazza del secolo scorso, a proposito degli anni ’60, scrisse: “E ci vestimmo con il prêt-à-porter a prezzi modici, invece che sbagliare stoffa e sartina. Fu il solo periodo in cui i settimanali intelligenti ebbero qualche colonna non pubblicitaria per i consumi e i costumi femminili, da Madame Express imparammo a vivere di gonna, golf, camicette ma uno shampoo alla settimana, mentre l’occhio di Camilla Cederna ci tratteneva sull’orlo del ridicolo”.

In equilibrio su quell’orlo del ridicolo si muove infatti la scrittura di Cederna, tutta tesa a svelare Il lato debole della nostra società, quello che si è sempre divertita a raccontare intingendo la penna in una pensosa allegria o in un’ironica serietà, illuminando limiti e miserie umane, vizi e virtù del nostro Paese con il guizzo di un sorriso, indicando il sentiero di una possibile liberazione mentre attraversiamo le sue parole come un ponte teso tra il passato e la contemporaneità.

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