Cosa ci resta del paesaggio / Camille Pissarro nei campi

6 Agosto 2017

Siamo alle soglie del Novecento. È già valida, tra i critici francesi, l’equazione tra natura e impressionismo: a un amico che non aveva potuto vedere il Salon del 1904, il geografo anarchico Élisée Reclus suggerisce di andare direttamente a passeggiare nella foresta. Celebrati dai critici entusiasti, i tratti corti e sovrapposti di Seurat chiudono una fase di ricerca formale iniziata con la ricerca dell’impressione spontanea, e la sigillano nella rigidità delle regole geometriche. Oltre, per le avanguardie, resta solo l’astrazione. E così, da Parigi a Washington e Hong Kong, le sale degli impressionisti sono sempre affollatissime. Giverny strabocca di turisti. In Italia si va sul sicuro con l’ennesima mostra su Monet. Ma proprio laddove il libro di storia dell’arte del liceo ci lascia più sicuri di aver compreso, si celano contraddizioni profondissime. Se continuiamo a considerare l’impressionismo come una questione di tecnica e ottica pittorica, come possiamo vedere la natura come soggetto? E che valore estetico possono assumere i disegni e le stampe, in cui la linea è solida e continua, rispetto alla verità raggiungibile in pittura dagli impressionisti?


La cuillette des pommes.

 

Negli ultimi vent’anni di carriera Camille Pissarro utilizza tecniche e supporti molto diversi che deformano in parte la sua figura rassicurante di ‘padre degli impressionisti’ (cit. Paul Cézanne). Ci sono i ventagli, dipinti su seta in cui delle contadine chinate sotto un sole brillante per effetto della seta diventano quasi delle forme astratte, perdendo peso; oppure le tele dalla maglia grossa in cui figure patetiche di ragazze sono chine sui loro orti strettitra muretti del villaggio. Sono gli sforzi finali di un artista stremato dalla ricerca di un linguaggio. A scene di vita della piccola borghesia di paese – vedute di giardini, di frutteti, e di strade attraversate da carretti – si alternano grandi dipinti dal tono epico in cui i contadini e i pastori sono quasi trasfigurati. L’unica costante in quest’ultima fase sembra essere iconografica: la riflessione di Pissarro si concentra tutta sulla vita di campagna. Oggi lo chiameremmo il fieldwork di un antropologo, il lavoro sul campo, o meglio nel campo, di un uomo che ha passato la propria vita a osservare, e anche a partecipare talvolta, al rituale lavoro dei contadini e dei pastori nelle campagne intorno a Parigi. Quale rapporto tra questa urgenza narrativa, lo scontro sociale sempre più presente nel dibattito politico, e la storia dell’impressionismo? Come ha scritto TJ Clark (Farewell to an Idea, 1999), a partire dalla mostra personale del 1891 Pissarro sembra affrontare direttamentele tensioni – iconografiche e ideologiche – proprie della modernità (del modernismo) liberando fino agli estremi il proprio linguaggio pittorico. Per questo è così difficile interpretare l’ultima fase di Pissarro, e per questo vale la pena provarci ancora.

 

Travaux des champs/Femmes.

 

La serie di vignette Travaux des champs, la cui faticosa gestazione avveniva in quegli anni, può essere considerata come il suo testamento artistico. Queste scene di vita rurale dovevano confluire in un libro di illustrazioni, accompagnate da testi di scrittori contemporanei o anche da stralci delle Bucoliche, ma furono pubblicate solo in forma ridotta. Oggi restano centinaia di disegni preparatorie prove di stampa coperti di annotazioni sul colore, sui gesti esulla composizione, che Pissarro poi inviava al figlio maggiore Lucien, incisore ed editore residente a Londra. Una tensione tra la descrizione di una realtà mutevole e il sogno utopico della sinistra attraversa le vignette dei Travaux e la voce delle lettere.

 

Pissarro si era fatto aiutare da un compagno anarchico in quest’impresa di tradurre il lavoro nei campi creando categorie precise per dividere la giornata in fasi distinte, la vita in riti di passaggio, le persone in base alle loro mansioni: il matrimonio del villaggio, le contadine al mercato, la mungitura, la mietitura, e via dicendo. In una prova di stampa colorata ad acquarello tre contadine raccolgono erbette a mano o con dei piccoli coltelli, chine, senza guardarsi, mentre una luce rosa intensissima annuncia la fine della giornata.

 

Come nel resto della sua opera pittorica, le donne sono le vere protagoniste della vita rurale: di queste donne senza volto si percepisce la posizione complessa e fragile in questa fase di cambiamento sociale e di assenza di uomini, occupati in fabbrica o partiti in guerra. Assorbite dal proprio compito, spesso con lo sguardo abbassato, queste contadine sembrano le stesse domestiche assorte che l’arte francese si porta dietro dai tempi di Chardin. Eppure no. Accucciate, le schiene piegate, le ginocchia dolenti, le immaginiamo riprendersi per qualche istante, quando appare la luce rosata che annuncia la fine della giornata. Pissarro insiste con il figlio nelle note sulla prova di stampa sulla necessità di esprimere tutta la gamma cromatica della sera. Il tratto nel legno è deciso, semplificato, mentre le pennellate d’acquarello, di colori chiari e diluiti, donano alla scena un’atmosfera malinconica e dolcissima, che durerà forse solo un momento. La pastorale, anche nella versione moderna, è una forma di rappresentazione del tempo più che dello spazio che mostra quel momento anche fugace di autocoscienza che Michael Fried chiamerebbe absorption. Ma a differenza delle governanti di Chardin, confinate tra le mura di casa, almeno quelle di Pissarro possono godere della bellezza di un tramonto.

 

Un’ampia selezione dei Travaux si trova a metà del percorso della mostra Pissarro a Eragny: la nature retrouvée (finita da poco al Palais du Luxembourg), in una piccola stanza costruita forse per interrompere la sequenzadi dipinti rurali che l’artista ha fatto nel piccolo villaggio di Eragny-sur-Terne da quando vi si è trasferito con la famiglia nel 1884 fino alla sua morte nel 1903. Per il modo in cui i curatori hanno impostato la mostra, in cui cronologicamente seguiamo il lavorodell’artista in questo ultimo ventennio, i Travaux des champs sembrano una pausa gradita nel percorso quasi familiare del pittore. Ma se invece di un intervallo o di un side-project, questa stanza fosse il centro dell’ultima fase di Pissarro e anzi la chiave per capire tutta la sua opera in prospettiva?

 

Les banques de la Marne.

 

Già nel 1864, Pissarro esponeva al Salon una veduta delle rive della Marne che è in realtà un ritorno dai campi di una figura solitaria. Preceduta da un raggio di sole che rompe l’ombra proiettata dagli arbusti, questa donnina occupa il centro della composizione, e fa eco al tronco che si staglia verticale nel cielo plumbeo sulla destra.Ho visto la tela al Musée Marmottan Monet, dove una retrospettiva sull’intera carriera di Pissarro (prolungata fino al 16 luglio), a quasi quarant’anni di distanza dall’ultima, completa e per certi aspetti si sovrappone alla mostra del Luxembourg. Non potrebbero essere più diverse, queste due mostre: una dilata gli ultimi anni fino a mostrare le opere fatte in serie per il mercato, l’altra riunisce un’intera vita in una settantina di opere eccezionali. Eppure, in entrambe si preferisce reiterare il riferimento alla natura invece che al lavoro, privilegiando la continuità formale con gli impressionisti invece che la scelta politica radicale di Pissarro. I lavori che affrontano direttamente le ineguaglianze sociali sembrano così una diversione rispetto alla poetica dell’artista.

 

Nel percorso delle mostre, la Natura diventa un perfetto dispositivo narrativo – si veda il sottotitolo della mostra del Luxembourg La nature retrouvée. Da materialista qual era, Pissarro non poteva aderire alla visione idealista di certi anarchici o dei simbolisti, giacché, con qualche eccezione, reputava moralmente inaccettabile il loro sentimentalismo. Piuttosto, tentava di rimanere fedele alla natura che conosceva, quella cioè trasformata dalla Storia e abitata dall’uomo: il suo campo di osservazione. Del resto Eragny, a qualche decina di chilometri da Parigi, era uno dei paesi anonimi in cui la piccola borghesia nascente era già in conflitto con i contadini che vivevano nella zona da generazioni. Pissarro vi compra una casa-studio per la sua numerosa famiglia con l’aiuto economico di un amico, partecipando di queste contraddizioni (gentrification ante-litteram). L’idea di Natura ritrovata non è conciliabile quindi con ciò che rivelano le opere degli ultimi anni: Pissarro era molto più vicino alla Natura quando lavorava en plein air, mentre negli ultimi vent’anni praticamente dipingeva solo nel suo atelier, al piano rialzato della casa, con una grande finestra da cui guardare il paesaggio suddiviso in piccoli orti e frutteti uguali.

 

La calca di gente impedisce spesso lo sguardo distante, mi forza a vedere il tratto, artificiale, con cui l’artista ravviva questa natura altrimenti modesta. Mi forza anche a notare le cornici dorate, alcune certamente rococò altre delle copie ottocentesche, che sembrano fagocitare i dipinti sobri e delicati, e fanno a pugni con quelli più luminosi. Sono spinta a immedesimarmi nello sguardo dei collezionisti che appena dopo la morte dell’artista sono corsi a comprare i suoi quadri mentre in vita preferivano l’opera, più coerente, dei suoi colleghi. Sono anni in cui la politica deve confrontarsi con questi sobborghi anonimi a causa della rilevanza politica dei paysans. Dopo la grande vittoria parlamentare della sinistra del 1890 Jules Ferry, repubblicano opportunista, scrive a un collega deputato: “Notre victoire est rurale, non urbaine, la ville est et demeure pourrie; c’est le républicain des campagnes qui s’est levé en masse”. Allora come oggi, la piccola borghesia delle campagne sembrava già un corpo unico, distinto, con una volontà politica propria, e Pissarro ne aveva colto le radici proletarie e le contraddizioni. Al di là del linguaggio formale da cui era partita la sua carriera di pittore della natura, verso la fine sempre più lo aveva abbandonato in favore di una riflessione etnografica sul lavoratore dei campi – quasi un autoritratto.

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