La gioia della partita / Cesare Garboli

15 Gennaio 2017

È meno curioso di quanto non si creda pensare come Cesare Garboli si sia prima sottratto alla visibilità e poi abbia occultato le tracce di se stesso. Era per natura molto visibile, in figura e nelle prese di posizione, ma tale natura richiedeva allo stesso tempo una selettività che presentasse quasi una immagine ideale dell’arte della critica (e anche della scienza). Dunque Garboli fu critico molto selettivo, tanto da lasciare parte assai abbondante della propria attività a uno stato gassoso, non avvicinabile, variamente e volutamente dispersa: ora ciò che fu a lungo accantonato, e forse dimenticato in varie sedi viene rimesso in circolazione con La gioia della partita. Scritti 1950-1977 (a cura di Laura Desideri e Domenico Scarpa, Adelphi, pp. 331, € 30,00), che è il primo dei due volumi destinati a raccogliere gli scritti dall’autore mai radunati durante la vita. Non solo si ha così un’idea più compiuta dello svolgersi del saggismo e della scrittura di Garboli, che sarebbe già cosa in sé di grande interesse, ma si può osservare come di scorcio, di lato, il clima di varie stagioni letterarie. Si tratta di un paesaggio per frammenti, con tessere che si intrecciano a quelle finora già agevolmente leggibili nelle sue raccolte: ne conseguono interessanti risultanze sulle dinamiche di come Garboli lavorava, sulla provvisorietà di pagine preparatorie di altre poi compiute in seguito, sulla precarietà che ogni critico militante si trova di fronte. Ma anche si vedono idee schiarite immediatamente e poi solo perfezionate e si scorge una percezione (o un’idea) di letteratura nata matura nella propria sostanza. 

 

Se si osserva qualche data ci si accorge che la selettività fu una costante di Garboli: il suo libro d’esordio, La stanza separata, va in libreria che l’autore ha quarantuno anni, nel 1969: il libro di un critico che scrive per capire, diceva la fascetta editoriale: e ciò rimarrà nel tempo: la scrittura di Garboli dà conto del modo con cui ci si avvicina all’oggetto, è essa stessa conoscitiva né più né meno delle idee e dei giudizi che porta. Una strana forma di conoscenza pericolosissima da imitare, se ci sono pagine di Garboli incantatorie, da illusionista. Riassumerle è impossibile: egli rifugge dalla formula o, raggiuntala per qualche caso, la accantona per procedere in un’altra direzione, provando e riprovando, come succede in uno dei suoi maestri, Giacomo Debenedetti.

 

Ci vorranno tre lustri per vedere un nuovo volume, dall’impostazione assai originale, tra filologia e critica, Penna papers, del 1984 (una filologia sui generis, perfino prevaricante ma non illegittima); ma per avere altre raccolte di saggi dopo La stanza separata ci vorrà addirittura il 1989 (Scritti servili, nonostante il semi-paradosso del titolo, davvero un libro di servizio, ma non meno adatto alla definizione del critico che a quella degli autori trattati), anche se con Falbalas, l’anno dopo, Garboli sembra accelerare i tempi del recupero alla visibilità di se stesso. Falbalas è il libro garboliano per eccellenza, con l’interferenza autobiografica funzionale al racconto critico; ed è anche una specie di memoir, col gusto dell’aneddoto esemplificativo, del dialogo con i coetanei, con gli autori di poco più anziani, col passato: il vero punto centrale di tutta la riflessione di Garboli: non soprattutto la storia, ma soprattutto il passato. Con Falbalas, Garboli diventa un autore di culto, ma solo nel 2002 si deciderà a una nuova raccolta, Pianura proibita: nel frattempo avrà delegato a Ferdinando Taviani la raccolta degli scritti sul teatro in Italia negli anni settanta, Un po’ prima del piombo (1998).

 

Gli scritti ora qui raccolti appartengono al periodo in cui Garboli visse a Roma, dove si era trasferito da Viareggio (era nato nel 1928) nel 1944; da Roma andrà via nel 1978 per tornare in Versilia, nella casa-cubo di Vado di Camaiore: la motivazione sarà quella dell’omicidio di Moro, e la meditazione su quei fatti sarà consegnata ad alcune pagine (La storia di via Fani) di un piccolo quanto importante libro, forse troppo poco ricordato, Ricordi tristi e civili (2001). Nella – come di consueto per lui – ben informata postfazione a La gioia della partita (le notizie sui testi si devono a Laura Desideri, compilatrice nel 2007 della fondamentale bibliografia), Scarpa riporta brani di una lettera inviata da Garboli a Fortini, datata 1960, allo scopo di declinare l’invito a compilare un manuale di letteratura italiana. C’è molto Garboli e non in potenza ma in atto: «mi sembra di essere portato a vedere le cose piuttosto come un problema da risolvere che come un tema da svolgere… non si tratta tanto di scrivere un libro scrivendo un manuale, ma di concentrare in un manuale una somma di libri da scrivere, come se fossero già stati scritti. Insomma un manuale omologa, generalmente, il risultato di tanti libri; e in questo caso, invece, non si tratta soltanto di omologare un risultato, ma anche di disputare la partita».

 

 

Il titolo del presente volume nasce qui, con l’aggiunta della «gioia», che i lettori di Garboli sanno essere la parola finale del leggendario saggio-introduzione ai Diari di Antonio Delfini; ma viene in questa forma da un articolo del 1976 «sul gioco degli scacchi, al quale Garboli si dedicò in più modi: per svago, come inviato a grandi tornei mondiali e infine … come kibitzer, qualcosa tra lo spettatore e il disturbatore» (Scarpa).

Il linguaggio sportivo («omologare il risultato», oltre che «partita») riporta agli occhi e alla memoria un vecchio ritaglio di giornale relativo all’esperienza di Garboli con gli scacchi, che, come Il fanalino della Battimonda, chissà dove sarà andato a finire, ma che però fu a suo tempo copiato. In un articolo scritto per la scomparsa di Carlo Caracciolo («la Repubblica», 17 dicembre 2008: curiosità o coincidenza astrale, sarebbe stato il giorno dell’ottantesimo compleanno di Garboli), Gianluigi Melega ha ricordato: «[Caracciolo] negli scacchi era convinto che, non essendoci possibilità di trucchi, fosse possibile arrivare ai vertici della specialità studiando a fondo la tecnica e i risultati dei grandi maestri. Lo aveva indotto a questo errore Cesare Garboli, altro appassionato scacchista, che cercò di conculcargli questa tesi quando, con Emanuele De Seta, prendemmo tutti un aereo per andare a Reykiavik, in Islanda, per la sfida mondiale tra Spasski e Bobby Fischer». Ma poi, «dopo tanto teorizzare, a un torneuccio per dilettanti organizzato lì per lì, Garboli venne sconfitto in poche mosse da un ragazzino adenoideo».  La dove c’è gioia della partita, la sconfitta è sempre in agguato, ma perché non giocare? Ed è sempre in agguato soprattutto quando, come Garboli, le partite si giocano al modo che, nell’arte della critica, Šklovskij chiamava «la mossa del cavallo», ovvero la capacità di spiazzare senza requie.

 

In copertina della edizione Mondadori della Stanza separata, sopra il nome a grossi caratteri dell’autore, lo si è ricordato, stava una frase: «il libro involontario di un critico che scrive per capire». Non si passerà sotto silenzio l’«involontario»: come molti critici di valore, Garboli fu refrattario alla forma-libro, soprattutto alla monografia. In che cosa consistesse il «capire» lo si è visto dalla lettera a Fortini; e c’è anche una esplicita dichiarazione di Garboli: «Più dei libri mi hanno sempre interessato, almeno in passato, le persone. Più della “letteratura”, tutto quello che la letteratura nasconde e rivela. Pacifico quindi che mi piacesse togliere ai libri la loro maschera, la loro empia e sacerdotale veste di attori». Occorre aggiungere che un critico della specie dei saggisti deve la propria vicenda anche alla qualità dei libri che il destino gli mette sotto gli occhi, alle occasioni editoriali e no. Può andare a cercare occasioni nel passato, ma resta legato all’arbitrio dei libri che il suo tempo gli propone. Garboli non è stato sfortunato, ma, anche e più, ha saputo approfittare delle fortune che gli sono capitate: accentuandone i tratti e creando nessi inattesi.

 

Comunque: ha ragione Scarpa a dire che La stanza separata «è l’opera postuma del giovane Garboli, fondata per giunta sulla rimozione dei suoi ‘brevi anni Cinquanta’». Benché «La gioia della partita corra in parallelo con La stanza separata e, per gli anni 1969-1977, con la prima parte di Falbalas, bisognava guardarsi dal far retroagire il Garboli maturo sul Garboli più giovane».

Detto questo, anche occorre dire che in questi scritti da lui stesso considerati minori (ma nel senso in cui sono minori i lavori provvisori che poi approderanno a risultati maggiori, come fossero appunti o cartoni o schizzi all’impronta) o non rientranti nel suo disegno di autore arrivato alla maturità (come è nel caso dei saggi danteschi, per i quali sarà lasciata una spia in Pianura proibita), il paesaggio o meglio la geografia territoriale di Garboli è già chiara: alla sezione «Brevi anni Cinquanta» (dove si segnalano l’esordio di scuola dettato dal suicidio di Pavese e la replica alla stroncatura ideologica di Limelight da parte di Muscetta) seguono i testimoni dell’attività editoriale (e già ci sono, tra gli altri, i nomi poi ricorrenti di Tobino, Bassani, Ginzburg, Soldati).

 

Ma la parte più rilevante, e cioè utile non solo a riportare alla luce un Garboli disperso, ma per sua propria consistenza, è la terza del volume, con qualche sorpresa come lo scritto su Gianni Brera o un articolo dedicato a Benjamin, sulla cui opera Garboli non tornerà («Quello che Benjamin non aveva previsto, era che nella società di massa soltanto le tecniche estetiche possono diventare una forma autentica e fredda di religione»). Spicca per valore documentario la messa a punto sulla Storia morantiana quale romanzo (I conti con la Storia) e anche in quanto caso editoriale (Lo scandalo è la poesia: «Abbiamo assistito all’esplosione di un caso letterario, o all’eruzione di un formicaio impazzito? Chiunque sia dotato di senso delle proporzioni e possieda, come critico, un po’ di dignità professionale non ha fatto a tempo a indignarsi. È solo costernato, stupefatto dal grado di puerilità ‘littoria’, di stupidità ginnasiale con cui è stato organizzato il goffo tentativo di linciaggio»). Ma il capitolo di maggior rilievo è quello che porta a titolo I figli rissosi delle tenebre, un breve viaggio tra i caravaggeschi occasionato dalla mostra in palazzo Pitti del 1970 e in realtà omaggio a Roberto Longhi, scomparso il 3 giugno di quello stesso anno. Il necrologio del Maestro fu accolto in Falbalas. Non questo articolo. Ricorda Scarpa come l’incipit di I figli rissosi  – «Quando, insomma, cominciarono a dipingersi quadri caravaggeschi?» – sia una citazione dal grande saggio longhiano del 1943. «Ora, lasciare esposta una tale citazione tra le pagine di un libro pubblicato nel 1990 avrebbe significato per Garboli propalare una fonte, l’origine della detonazione che apre il saggio Longhi lettore pubblicato nel 1980: “Se non fossero mai stati dipinti dei quadri, Longhi avrebbe mai scritto un rigo?”» È una buona ipotesi, ma vale anche il contrario, se l’occultare è una mossa della partita tanto quanto l’aprire spavaldamente. In ogni caso, ci sarebbe voluto un lettore pronto a ricordarsi lì per lì di Longhi, pronto all’agnizione di lettura, o almeno al confronto immediato.

 

La gioia della partita è anch’esso un libro pronto a concedere una serie di agnizioni: andrà letto con lentezza per evidenziarne i richiami continui alle opere già raccolte in volume. Ma in sé, da solo, basterebbe alla collocazione di Garboli, come autore, in un posto di grande visibilità nel paesaggio secondo-novecentesco. E basta a dire, dunque, che l’invisibilità perseguita così a lungo aveva essa stessa un tratto d’autore. Tale tratto si scorge infatti non solo nelle tracce lasciate ma, ugualmente, negli accantonamenti così convintamente messi in atto. Si sa, per dire, che tale atteggiamento riguardava non solo gli articoli lasciati in disparate sedi – e ora qui raccolti – ma anche La stanza separata, che in vita non volle mai ristampare nonostante le richieste (preferì che la ristampa fosse postuma). Come se ci fosse la volontà di separarsi da una parte della propria vita, o di tenerla a lato, o in memoria: magari per non farla svaporare offrendola a troppi sguardi, o per tenerla come un talismano, un serbatoio di energie e di idee. Ma oltre la supposizione, almeno per adesso, non si può andare.

 

Questo articolo è già uscito in forma più breve su “Alias”.

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