Speciale

“Che bello, che bello!”

17 Ottobre 2011

Rifugiati in un bar all’inizio di Viale Aventino, all’incrocio col Circo Massimo. Quasi tutti gli amici in T-shirt bianca si sono incamminati verso casa. Manco a farlo apposta, sono las cinco de la tarde. Siamo in una zona perfettamente intermedia, Terra di Nessuno fra l’Area del Disastro (con lo sciamare dei reduci dalla battaglia di Via Labicana) e la Città che non l’ha Visto (coi soliti turisti, vagamente perplessi per il casino che frigge nell’aria). Il barista, fiutato l’affare, ha sintonizzato il maxischermo al plasma su RaiNews 24, gigantografando la diretta terroristica da una Piazza San Giovanni annuvolata di battaglia, la gimkana dei blindati nella mezzaluce rossastra dei fumogeni. A decine, transfughi e turisti, in silenzio contemplano il Disastro. Non si sente un commento; il silenzio, nel locale stracolmo, è surreale. Stefano, Nicola, Daniela, Christian e Giuseppe guardano assieme a me le immagini. Arriva un sms da Maria Grazia, in mezzo alla testa del corteo col figlio di dieci anni: «Gente di merda con i caschi che brandiva cartelli stradali. Ci hanno caricato mentre venivamo».

 

Vedo una sedia libera – inconcepibile in tempo normale, a bar così affollato –, me ne impossesso, vi depongo le membra dolenti per le tre ore di marcia sui sampietrini. E mi compiaccio della supersnobberia, prendere un tè e sorseggiarlo con calma mentre tutti attorno a me, in piedi, continuano a contemplare il Disastro. Non è l’ora del tè? Il barista, con tutto il pelo sullo stomaco che si ritrova, mi disapprova visibilmente. Siamo tutti in attesa del momento ufficiale di disperderci in via definitiva; basta che uno di noi faccia un passo verso l’uscita del bar per autorizzare tutti gli altri a fare lo stesso.

 

È esattamente in questo momento, 17:34, che arriva la telefonata di Sara: «Che fate lì? Qui c’è il carro del Valle, il corteo prosegue!»

 

*

 

Stamattina non leggo i giornali, non ne ho la forza. Mi limito a scorrere i titoli, a casa di Maria Teresa. Ed è la consueta, ovvia, scontatissima narrazione consolatoria. Dei pochi scellerati, i cattivi Neri che hanno rovinato la «festa bellissima» dei Colorati indignados.

 

Ma stavolta non erano pochi – come pochi non erano il 14 dicembre a Piazza del Popolo. Non erano pochi i Neri (erano diverse centinaia, li abbiamo visti tutti, raggruppati in punti differenti del corteo), e soprattutto non erano pochi i ragazzi che gli sono andati dietro. Erano migliaia. Ecco il clou della battaglia, a San Giovanni. Si noti il crescendo, da 1’50” circa in poi, e da 2’30” in poi. Non solo è tanta gente – è una quantità di gente che aumenta. Istante dopo istante.  

 

 

 

Sin dall’inizio si era visto. Non erano pochi cattivi. Erano un altro corteo: dentro il nostro corteo, o insieme al nostro. E non erano lì per caso. Anche noi, del resto, eravamo stati avvisati. Tutti lo sapevamo, quello che sarebbe successo. E ciò malgrado, noi, siamo andati. E proprio per ciò, loro, sono andati.

 

«Fascisti»? Troppo facile raccontarsela così. Di sicuro è «gente di merda», quella che in assetto di guerra spinge famiglie con bambini sul campo di battaglia – per farsene scudo umano. Quando davvero erano pochi, si limitavano a mimetizzarsi nel folto del corteo e a sgusciarne fuori quando il gioco si faceva duro. Ora prendono la testa del corteo: chi ci sta lo trascinano in piazza e chi non ci sta, lo costringono.

 

È gente di merda perché è gente che pensa di merda – più esattamente non pensa, non ha progetto politico di sorta. Non tacciono più sul loro vuoto – ora lo rivendicano (vedi qui, e alcuni commenti da questa utilissima discussione).

 

Ma c’è gente ancora più di merda. Riprendiamo il video di sopra. E facciamo attenzione all’audio, durante il secondo assalto. Al minuto 2’45” una voce molto vicina, verosimilmente appartenente a qualcuno che se ne sta appollaiato al sicuro sulle mura del Laterano, accanto a chi fa le riprese, grida a squarciagola: «che bello, che bello!». Lo so, la citazione è ovvia. Ma a volte quelle ovvie restano le citazioni giuste: «L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è divenuta per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine». Così scriveva Walter Benjamin nel 1936. E aggiungeva una definizione non inutile: «Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue».

 

*

 

Ovvietà, ancora. È talmente ovvio, da Genova 2001 in poi, che queste battaglie servano solo a chi le piazze vuole svuotarle – è talmente ovvio che non è possibile illudersi del contrario. E quella di ieri a Roma sarà una piccola, o non piccola, Genova. Se quella ha soffocato il movimento per anni, questa provvederà a mettere la mordacchia a tutte quelle comunità che, come la nostra in tshirt bianca, non avevano nessuna esperienza di lotta ma che negli ultimi mesi hanno pensato fosse giusto intraprenderne una.

 

Ma tutto questo, appunto, è scontato. Come è scontato additare le responsabilità di un’organizzazione della città, da parte delle forze dell’ordine, colpevolmente (se non dolosamente) deficitaria. (È toccato al vicedirettore del Sole 24 ore, a caldo a La 7 Inonda,far notare come sul percorso del corteo gli «obiettivi sensibili» fossero stati lasciati del tutto indifesi). L’abbiamo già visto; e l’abbiamo anche già detto – sino a sfinirci.

 

Quello che non avevamo messo a fuoco sino a ieri (ma il 14 dicembre poteva bastare) è che i Neri non sono più isolati. E non sono più isolabili. Questo pure è un dato politico che non vedere, come insiste a non voler vedere l’informazione generalista, nella migliore delle ipotesi è cieco. Se dieci anni fa i Neri erano pochi e isolabili, e ora sono tanti e non isolabili, è perché in questi dieci anni sono riusciti ad aggregare. Hanno preso e portato con sé migliaia di giovani (e giovanissimi) che non si limitano più a lamentarla, la propria assenza di futuro: la vivono, e la rappresentano, nel solo modo che sia stato loro lasciato. Cioè spaccando tutto.

 

La responsabilità politica, di questo isolamento, è evidente. Dei partiti della cosiddetta opposizione parlamentare, neppure mette conto parlare. Ma il Grande Sindacato di Sinistra, sfilandosi dalla manifestazione all’ultimo momento, non solo ha ribadito plasticamente una propria scelta di campo ormai a sua volta decennale (difendere solo i diritti acquisiti di pensionati e pensionandi che sono la grande maggioranza dei suoi iscritti): ha anche la responsabilità di aver lasciato centinaia di migliaia di manifestanti senza uno straccio di servizio d’ordine. Si ha un bell’idealizzare il movimento dal basso, l’auto-organizzazione. I risultati, si sono visti a San Giovanni. È stato il Disastro. E il fatto che fosse un Disastro Annunciato non lo rende meno grave – anzi.

 

Non capire questa dinamica ci condannerà a viverla nei prossimi anni decuplicata, centuplicata. Le piazze torneranno vuote. Torneranno a essere solo campi di battaglia.

 

 

Ti sei abituato a non avere rappresentanza politica. Ti sei abituato a non ricevere nessuna proposta. Ti sei abituato a vivere senza prospettive. Forse non eri abituato a venire, per soprammercato, pure preso per il culo. Quel che è davvero intollerabile è vivere nel vuoto. Quando si fa l’esperienza del vuoto, quando la si fa davvero, ci si appiglia a qualunque cosa. In tanti, in un vuoto politico siderale che dura da dieci anni, hanno finito per appigliarsi al primo che passa. Non importa se è vestito di nero – e se ha dei comportamenti di merda.

 

L’ho capito ieri perché ieri, per la prima volta, è successo anche a me. Non mi era mai successo di sentirmi meglio perché insieme a tante altre persone; come altri della mia età, al contrario, ogni assemblea manifestazione corteo mi ha sempre fatto venire la nausea, un senso di apnea nervosa cui regolarmente seguiva la mia uscita di scena. Ieri però è andata in un altro modo. Alle 17:35, chiusa la chiamata di Sara, sono uscito di corsa dal bar dell’Aventino. Ma non mi sono diretto verso casa. Quelle immagini terroristiche non mi avevano terrorizzato, al contrario mi avevano riempito di rabbia. In quell’istante, anch’io sarei andato dietro al primo che fosse passato. E nel momento in cui sono uscito, a Circo Massimo, sopraggiungeva il carro del Valle.

 

 

I ragazzi del Valle non sono gente di merda, però. A dispetto dei loro slogan inascoltabili, anzi, si comportano con intelligenza. Per qualche minuto interminabile il carro, un vero carro carnevalesco – la birra a fiumi spillata da un tizio in giacca e cravatta, un travesta in abito da sposa che balla insieme a un ubriaco in cima al sound system a palla –, esita all’incrocio. A sinistra, Via delle Terme di Caracalla. La strada verso la battaglia, il Disastro. Di fronte, alla fine dell’Aventino, la Piramide. Porta San Paolo, Piazzale dei Partigiani.

 

Ieri siamo andati dritti. Lenti e colorati verso la sera – e tutto è filato liscio. Domani, non lo so.

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