Chi ha paura delle Collane: da Harmony ai Meridiani
Quand’ero un ragazzino, nei primi anni Ottanta, il nonno mi spediva volentieri all’edicola del paesello a comprare l’ultimo Segretissimo. E quante volte son dovuto tornare indietro a restituirlo, perché l’autore non gli garbava! Il vecchio Egidio era sì un fiero magütt comunista, ma alle storiacce spionistiche di Gérard de Villiers non sapeva rinunciare. Quegli avanti e indré di quarant’anni fa mi sono tornati in mente leggendo l’ultimo libro di Bruno Pischedda, La competizione editoriale. Marchi e collane di vasto pubblico nell’Italia contemporanea (1860-2020), da poco uscito presso Carocci. Dove il sottotitolo lascia intravedere il taglio originale al quale è sottoposta una materia sulla quale negli ultimi anni si è lavorato come non mai: basti dire che solo un anno fa lo stesso editore ha pubblicato un’informatissima storia dell’editoria italiana del XX secolo, Il Novecento dei libri, firmata da Irene Piazzoni.
Sembrano dunque finalmente tramontati i tempi in cui Vittorio Spinazzola, spazientito dal disinteresse degli specialisti, scriveva che «Insomma, il quesito è poi semplice: ha contato di più, nelle vicende letterarie novecentesche, il tale o talaltro scrittore dignitosamente mediocre, oppure editori come Mondadori, Rizzoli, Einaudi, Adelphi, e mettiamo pure Del Duca o Fabbri?».
Con tutto ciò, quella di Pischedda è la prima ricostruzione complessiva a porre in primo piano un fattore cruciale quale è la collana. Ne valeva la pena. Di recente infatti sono andati accumulandosi gli studi su singoli casi notevoli, ma latitavano sintesi efficaci. Era tempo che qualcuno tirasse le fila, valorizzando l’importanza che riveste l’inserimento in una serie nell’orientare i lettori e determinare la sorte di un libro. Lo sappiamo: il prestigio di una collezione è in grado di emancipare un autore, come insegna il Maigret adelphizzato, capace di oscurare la memoria degli Oscar ferroviari dove campeggiava in copertina il volto di Gino Cervi. Quanto al caso inverso, fa ancora testo la lettera risentita di Giacomo Leopardi all’editore Stella, per scongiurare l’inserimento delle Operette morali nella sua Biblioteca per Dame, convinto che il libro sarebbe scaduto «infinitamente nell’opinione, la quale giudica sempre dai titoli più che dalla sostanza».
Proprio qui sta il punto che rende così stimolante e diciamo pure coraggioso il libro di Pischedda, al quale con ogni evidenza interessano più le collane destinate a donne, operai o fanciulli che le ammiraglie pensate a uso e consumo delle élite culturali: per cui dedica poche righe ai Meridiani Mondadori e una dozzina di pagine agli Harmony, nella consapevolezza che non si tratta di inoltrarsi nel dominio del sempreuguale, dove prodotti e imprese editoriali in buona sostanza si equivalgono, come vorrebbe ancora oggi una certa vulgata di matrice francofortese.
Anche i lettori dal palato meno fine, come imparai trottando per mio nonno, sviluppano gusti e preferenze ben precisi. Muovendo dagli anni dell’Unità, dunque, Pischedda analizza le funzioni assunte da collezioni spesso neglette dagli studiosi eppure apprezzate da vastissime platee e capaci di incidere a fondo nell’identità culturale italiana. Ecco dunque le molteplici iniziative sul versante musicale della Casa Ricordi, ecco Hoepli libraio-editore che sforna una pletora di manuali, dall’ingegneria alla pollicoltura, ecco sigle gloriosamente popolari come Donath, Salani, Bietti, Perino, Nerbini, Dumolard (una parola avrebbe forse meritato anche il Romanzo Quattrini, in gran voga nel primo Novecento).
Compaiono poi collane Mondadori fondamentali per l’introduzione in Italia della letteratura estera, come la Medusa, oppure – sul versante del genere – i Gialli. Nel dopoguerra è il turno delle universali, come Colip e la Bur, e delle benemerite dispense dei Fratelli Fabbri, che a milioni invasero le nostre case. Non manca un discorso articolato sugli Oscar, che approdando nel 1965 nelle edicole diedero una risposta magistrale ai problemi di distribuzione causati dal rado e irregolare tessuto delle librerie nella penisola. Un problema che favorì anche lo sviluppo delle vendite per corrispondenza (prima o poi bisognerà riflettere puntualmente sulla storia del Club degli Editori). E ancora i Millelire, i Miti, i collaterali…
Sfilano insomma quegli oggetti consunti dalla passione dei lettori che vediamo spuntare nei cestini di vimini all’ingresso delle biblioteche di provincia, sovrapporsi disordinati sugli scaffali destinati al bookcrossing, accartocciarsi vinti dall’umido in uno stipo in cantina. Ma ci vorrebbe Laforgue, o Gozzano, per cantare il loro malinconico crepuscolo. Pischedda invece ragiona sull’efficacia della proposta che rappresentarono, restando in qualche caso sulla cresta dell’onda per decenni.
Qui sta un altro punto che distingue il suo approccio, estraneo alla retorica che di norma impregna le ricostruzioni delle parabole che portano dall’ago al milione. Senza sminuire l’intraprendenza spesso spregiudicata dei nostri tycoons otto-novecenteschi, o il carisma dei loro direttori editoriali, preferisce chinarsi con pazienza su costituzioni camerali e organizzazioni aziendali: esemplari, al riguardo, le pagine sul ruolo di Luigi Rusca nella Mondadori anni Trenta.
Restano così illuminate le tappe attraverso cui un artigianato diffuso è giunto a trasformarsi nella principale industria culturale del Paese, fra i mugugni dei letterati: siano il Prezzolini che negli anni Venti guarda con diffidenza al rigoglio della “letteratura amena” o il pur progressista Moravia, sconcertato dinanzi alla comparsa degli Oscar, nei quali individua un grave cedimento al consumismo incontrollato, al dominio dell’usa-e-getta.
Per parte sua Pischedda ricostruisce l’ammodernamento della filiera editoriale senza mai alzare il sopracciglio, conscio che l’editoria agisce a scopo di lucro, per riprendere l’eloquente titolo di un’intervista concessa da Franco Tatò, recentemente scomparso, quand’era amministratore delegato del Gruppo Mondadori.
Niente di nuovo, in effetti. Non era stato forse un vecchio socialista come Émile Zola a scrivere che c’est l’argent, è il denaro che ha creato la letteratura moderna? Meglio affidarsi al giudizio del pubblico, o disprezzarlo e rimpiangere il mecenatismo magari interessato? L’editoria si fa con i conti a posto, altrimenti è masochismo o propaganda. Il che ovviamente non significa seguire ciecamente le tendenze del mercato. Siamo di fronte a un’industria atipica, in quanto tesa a soddisfare bisogni immateriali, in qualche misura imprevedibili.
Bassi margini e alto rischio, in questi paraggi. Tanto più rilevante allora l’acume di chi ha saputo interpretare con tempestività bisogni e desideri ancora in boccio, presso gli strati meno acculturati della popolazione. Pischedda guarda alle strategie di collana proprio perché meglio si misura in quest’ambito la competizione editoriale che dà il titolo al suo volume.
Sono infatti un veicolo fondamentale di concorrenza, sia nelle classiche situazioni di duopolio (vedi Treves vs Sonzogno, o Mondadori vs Rizzoli) sia quando il panorama si presenta più complesso e fluido, come nel nuovo millennio, quando tante sigle hanno saputo rilanciare l’agonismo, sfruttando le nuove opportunità offerte dalla Rete, in barba alle cassandre che temevano il crollo della bibliodiversità (forse ci siamo un po’ dimenticati dei tempi in cui un piccolo editore sudava le sette camicie già solo per annunciare le proprie novità e renderle disponibili al lettore in tempi accettabili…).
Resta da chiedersi, in ultimo, se le serie siano destinate a mantenere il ruolo cruciale svolto sino a oggi. Pischedda non si sottrae alla questione e mette in discussione una sentenza pronunciata già negli anni Novanta da Mario Spagnol: «L’acquisto per collane corrisponde a uno stadio arcaico del consumo librario». Fa perciò notare, con buon senso, che nessuna azienda può tenere botta senza un catalogo ben organizzato, e che il modo migliore per strutturarlo resta la collana, la quale si dimostra tuttora in grado di mobilitare il feticismo di ampie fasce di lettori.
Tutto vero, specie ai livelli alti del sistema letterario. Nei fatti, però, l’appeal del singolo titolo fa sempre più premio. Tanto che molti attori in campo hanno proprio lasciato perdere le divisioni in serie, siano storici come il Saggiatore, o nati da poco come SEM. E quale lettore non specialista, guardando una pila di hardcover Mondadori in libreria, è in grado di distinguere la SIS dagli Omnibus? Secondo la classica definizione di Gérard Genette, la collana costituisce «un raddoppiamento», anzi «una specificazione più intensa, e talvolta più spettacolare» del marchio.
Ma questa caratteristica può trasformarsi in un intralcio, per un pubblico che a stento riconosce i tratti distintivi delle case madri e passa con disinvoltura dal cartaceo all’ebook agli audiolibri, dove i connotati paratestuali si stemperano. Resistono collane ben riconoscibili e di enorme successo, è vero: ma non sarà che queste hanno finito ormai col sostituire il marchio, più che raddoppiarlo? Sicché in parecchi identificano tout court Sellerio con i quadrotti blu marine della Memoria.