Speciale

Chi sono i tiranni contemporanei?

7 Maggio 2023

Nella nostra epoca della post-verità non mancano immagini che rinviano a un’età premoderna. La foto del brindisi tra Vladimir Putin e Xi Jinping è una di queste. Due autocrati, sorridenti e compiaciuti, sicuri di sé e padroni del mondo, brindano ai fasti del loro potere assoluto, che assomma in sé tanto elementi ultramoderni (tecnologie militari, informatiche, finanziarie, amministrative, comunicative) quanto una hybris premoderna, cioè una tracotanza paranoica fatta di violenza, paura, congiure e denaro, come nelle figure di Dionisio di Siracusa e di Cesare Borgia. Questa compresenza di elementi premoderni e ultramoderni rende difficile catalogare la natura del dominio di Putin e Xi: si tratta di tirannide, dittatura, assolutismo, dispotismo, autoritarismo, totalitarismo? Forse non è questo il problema principale o, almeno, non è il primo problema, anche perché esistono sensibili differenze tra i due regimi, in termini non solo ideologici, ma anche strutturali: Xi è un prodotto dell’onnipervasività del Partito comunista in Cina, mentre Putin è l’emblema di un potere personale che costituisce il perno di tutte le istituzioni, totalmente piegate alla sua volontà. In realtà, prima ancora di interrogarci da un punto di vista razionale su queste distinzioni filosofico-politiche, l’immagine del brindisi ci atterrisce perché presenta l’esito attuale di una potenza irresponsabile e senza limiti, scatenata a livello globale e capace di dominare tutti gli spazi di vita individuale e sociale grazie all’uso di una ragione puramente strumentale, senza alcun confine istituzionale e morale. È quindi comprensibile lo spaesamento che coglie un cittadino autenticamente democratico di fronte a quell’immagine. Alcune domande sorgono in lui spontanee. Dove ha fallito la modernità? Perché le speranze di progresso sono state disattese? Qual è la responsabilità dell’Occidente nella formazione di tali forme di assolutismo? Perché questi regimi riescono a espandersi in varie aree del pianeta? Come è stato possibile realizzare un tale connubio tra pulsioni premoderne e tecnologie ultramoderne? È possibile fermare queste derive autoritarie?

Domande legittime e degne di rispetto, di fronte alle quali non è facile trovare risposte immediate. C’è però un problema che precede tali domande e sul quale non cade spesso la nostra attenzione, nonostante esso non riguardi solo gli Stati autoritari ma anche quelli liberal-democratici: il cambiamento radicale della natura e della grandezza di scala del potere nell’età contemporanea. Non si tratta di una questione recente perché prende avvio negli anni Cinquanta ed è segnata dalle prorompenti innovazioni tecnologiche e militari, dalla diffusione dei consumi, dall’allargamento del commercio internazionale, dalla globalizzazione finanziaria e produttiva, dalle migrazioni: tali fattori modificano la struttura nazionale degli Stati, producono nuovi colonialismi, influenzano i sistemi di vita e di lavoro, creano forme di consumo che sono allo stesso tempo forme di controllo sociale. Riguardo al cambiamento di natura del potere, potremmo qui parafrasare, modificandola, la celebre frase di Clausewitz, affermando che oggi l’economia e la tecnologia costituiscono la continuazione della politica con altri mezzi. Infatti, il controllo delle masse non si realizza solo con la forza e la coercizione ma anche attraverso azioni di persuasione legate al consumo (social media, moda, pubblicità ecc.) che generano dunque consenso, cioè un’inedita alleanza tra classi dirigenti e classi subalterne, eliminando così il tradizionale conflitto sociale. Riguardo al cambiamento della grandezza di scala, è evidente che oggi lo spazio decisionale degli attori politici (parlamenti, istituzioni nazionali ecc.) è sempre più ristretto a favore della crescente potenza di attori globali senza vincolo di rappresentanza (corporations, banche d’affari, istituzioni sovranazionali ecc.). Infatti, mentre la politica ha spesso un radicamento localizzato in un territorio e in un contesto (sociale, linguistico, culturale), l’economia e la tecnologia contemporanee sono senza confini: gli Stati, se vogliono realizzare azioni efficaci, devono utilizzare più le leve finanziarie o il controllo tecnologico che le operazioni militari, tanto che la politica estera è spesso commercio estero, cioè organizzazione della produzione e dello scambio su scala globale.

A queste trasformazioni del potere le tirannidi contemporanee si adattano con facilità e rispondono in modo efficace (dal loro punto di vista) perché non hanno alcun vincolo di rappresentanza, non hanno alcuna istituzione di garanzia cui rendere conto, sono in grado di decidere velocemente sulle ripetute sfide del contesto internazionale e controllano in toto gli strumenti della politica, dell’economia, della burocrazia e della tecnica, generando così un’inedita forma di onnipotenza secolare. Le tirannidi attuali, contrariamente alle tirannidi classiche, si fondano infatti su una volontà di potenza che mira al controllo totale della natura e della società reso possibile dalle nuove tecnologie. Queste tirannidi sono ovviamente esercitate a vantaggio di una classe o di un gruppo, e in funzione di ambizioni personali o famigliari, ma esprimono anche la convinzione secondo cui l’innovazione tecnologica è necessaria e sufficiente per la soddisfazione delle nostre facoltà umane, in modo così da delineare nuove forme di “potere pastorale”, allo stesso tempo violente e persuasive. Se volessimo utilizzare una concettualità filosofico-politica classica – a metà tra Marx, Schmitt e Kojève – potremmo dunque dire che le tirannidi contemporanee gestiscono l’intero processo di appropriazione, spartizione e produzione, intrecciandolo con l’attuale fase di riorganizzazione dei “grandi spazi” e con le nuove dinamiche del consumo.

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Agli occhi di quel cittadino autenticamente democratico, spaesato di fronte a una tale onnipotenza, tutto ciò potrebbe risultare in qualche modo rassicurante, pur all’interno di un quadro di generale preoccupazione. Questa concentrazione di potere assoluto, che unisce terrori premoderni e tecnologie ultramoderne, che afferma la propria volontà senza limiti in uno spazio globale e con una prospettiva neo-coloniale, non sembra potersi realizzarsi in Occidente. Quel cittadino avrebbe ragione. La separazione tra i poteri, le garanzie costituzionali, il pluralismo politico e sociale, la presenza di diversi attori economici (imprese, sindacati, terzo settore, ecc.), le interdipendenze politiche, economiche e militari a livello internazionale rendono del tutto improbabile una trasformazione degli Stati occidentali in chiave autoritaria. Ma, se una tirannide come quella rappresentata nel brindisi tra Putin e Xi non è all’ordine del giorno nelle democrazie liberali, tuttavia il cambiamento radicale della natura e della grandezza di scala del potere nell’età contemporanea riguarda anche noi perché siamo parte costitutiva della nuova età degli imperi competitivi su scala globale. E questo cambiamento dovrebbe costituire il centro della nostra interrogazione, in quanto cittadini e non sudditi, perché investe il futuro delle nostre democrazie.

In Occidente il problema del potere si pone in una forma diversa rispetto a quella presente nelle tirannidi contemporanee, perché nelle democrazie liberali gli elementi premoderni della violenza e della paura sono presenti – per fortuna – solo in forma residuale. Tuttavia, gli elementi ultramoderni hanno un livello di diffusione molto capillare, tanto da mettere radicalmente in crisi l’idea stessa di democrazia rappresentativa, fondata sull’esistenza di un’opinione pubblica consapevole e di uno spazio di discussione politica protetto a livello istituzionale. Dobbiamo infatti essere consapevoli che oggi, nelle democrazie, l’autorità non si esprime necessariamente ed esclusivamente nello spazio politico: è il caso, per esempio, delle corporations e delle tecnocrazie, nelle quali l’idea di autorità perde la propria visibilità e la propria trasparenza, pur esprimendo la massima potenza effettuale e persuasiva. In questi casi, infatti, l’autorità è legittimata attraverso il ricorso alle dinamiche di mercato e ai saperi specialistici, per loro natura non democratici, cui viene socialmente attribuita fiducia grazie al loro presunto status di imparzialità, autorevolezza e scientificità. In quest’ottica non è necessario che una società sia autoritaria de iure, ma rischia di diventarlo de facto, in quanto caratterizzata da “stati di dominio” presentati in forma suadente, visto che possono darsi evidenti dislivelli di autorità tra cittadini senza che questi vengano percepiti come prodotto di una disuguaglianza strutturale: in fin dei conti, il signor John Smith ha gli stessi diritti di cittadinanza di Bill Gates, Jeff Bezos o Mark Zuckerberg, anche perché nelle democrazie occidentali non cambia la forma dell’eguaglianza politica (mentre cambiano le opportunità concrete di eguaglianza, perché gli Stati abbandonano sempre più il loro ruolo di promotori della redistribuzione sociale). Tali dislivelli non appaiono essere legati a una dimensione gerarchica predefinita e dunque si presentano come “neutralmente” orizzontali, cioè socialmente accettabili in quanto frutto di diseguali disponibilità di risorse, ma non di status, visto che le libertà e i diritti individuali continuano a essere tutelati.

Questo fenomeno non si è realizzato solo sotto la pressione di potenti corporations e di anonime tecnocrazie, ma anche a causa del plurisecolare processo di individualizzazione che ha segnato il passaggio dalle società tradizionali alle società moderne e contemporanee. In poche parole: questo processo è senza dubbio eterodiretto “dall’alto” (cioè dalle autorità vigenti de facto), ma ha agito su fattori che si muovono “dal basso”, cioè dal desiderio di riconoscimento e di appartenenza simbolica alle élites che negli ultimi decenni i singoli individui hanno visto sempre più come obiettivo centrale delle loro esistenze, altrimenti considerate prive di senso e significato. La trasformazione da un individualismo accumulativo e proprietario (potremmo dire “calvinista”, à la Max Weber) a un individualismo edonistico e narcisistico ha permesso alle corporations di ampliare il proprio dominio nello spazio globale, attraverso pratiche che, lungi dall’essere coercitive in senso tradizionale, sono fondate proprio sul consenso degli individui. Questa dinamica complica, pertanto, la concezione tradizionale secondo cui i sistemi di potere dominano contro la volontà degli individui: in questo caso le due polarità non entrano in conflitto, visto che il desiderio individuale verso l’innovazione tecnologica – che costituisce lo strumento per la realizzazione “efficientistica” e/o narcisistica della propria immagine di sé – dispone l’individuo a porsi in un rapporto di servitù volontaria nei confronti dei sistemi di potere (basta pensare all’impatto dei brand e degli influencer sul consumo di massa e sugli stili di vita).

Naturalmente sarebbe un grave errore equiparare i problemi posti dalle tirannidi fondate sulla forza a quelli posti dalle “società dell’abbondanza”. Tuttavia, quel cittadino autenticamente democratico, spaesato di fronte all’onnipotenza delle tirannidi di Putin e Xi, non dovrebbe dimenticare che nelle democrazie è intervenuto un radicale cambiamento nel rapporto tra governanti e governati, oggi non più fondato sul rispetto di un’autorità riconosciuta come politicamente legittima, ma sulle illusioni di milioni di persone, desiderose di reinventare la propria identità individuale secondo un’immagine edonistica e narcisistica della propria esistenza, dominata dal potere di fascinazione emanato – in modo non trasparente – dalle autorità de facto. Questa fascinazione costituisce il presupposto ideologico che consente la pace sociale, prefigura inedite forme di narcisismo di massa e crea schiere di individui narcotizzati e reificati, dominati da uno spasmodico desiderio di riconoscimento di sé nella piazza pubblica (reale e/o virtuale) che realizzano la massificazione dell’io (evidente, per esempio, nella moda). Di fronte a un tale apparato ideologico, politico, economico e tecnologico, che presenta se stesso come la “società migliore”, dovremmo chiederci dove possa trovarsi la via d’uscita. Perché è vero che è ben diverso essere cittadini nella Russia di Putin rispetto alla Francia di Macron; ma è anche vero che questa constatazione può bastare al consumatore che vive beato sotto un governo “pastorale” (meglio suadente che tirannico!), non a un cittadino autenticamente democratico.

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