Chiara Valerio. Ricordi sbocciavan le more

12 Aprile 2012

Questa rubrica raccoglie una serie di interventi che esplorano il tema delle forme, della bellezza/bruttezza, da punti di vista molto diversi fra di loro. Ne parleranno storici dell’arte, scrittori, critici, scienziati, musicisti, filosofi, esperti di paesaggio.

 

 

Chiara Valerio è nata a Scauri nel 1978 e oggi vive e lavora a Roma. È redattore di Nuovi Argomenti. Il suo ultimo libro è Spiaggia libera tutti (Laterza, 2010). Per nottetempo, casa editrice nella quale lavora, ha scritto Nessuna scuola mi consola e La gioia piccola desser quasi salvi (2009). Ha pubblicato il romanzo Ognuno sta solo (2007), e i racconti di Fermati un minuto a salutare (2006) e di A complicare le cose (2003). Scrive per l’Unità, Vanity Fair e il Sole 24Ore, collabora con Radio3.

 

 

Ci sono cose che ho amato nonostante loro non avessero mai avuto nessuna intenzione di amarmi. E certe volte neppure potevano. L’amore presuppone un’intenzione, forse. Fotografie, gatti, donne, frutti, fiori, quadri, libri, discipline intere – dall’educazione fisica alla geometria algebrica. Per esempio. Al centro della, nel cuore di, au bout de e d’attorno la geometria algebrica ci sono le varietà algebriche. Una varietà algebrica è l’insieme degli zeri di una famiglia di polinomi. Uno zero è una soluzione, un polinomio è un polinomio. La geometria algebrica quindi è un buon esempio per capire che una persona, di qualsiasi età e indipendentemente, possa amare qualcosa che è troppo concentrato su se stesso per poter guardare. O troppo complesso per potersi interessare a qualcosa, altro da se stesso. Qualsiasi cosa sia un se stesso. L’amore se non presuppone una intenzione di certo si aiuta con gli sguardi. Come Clarice Sterling e Hannibal. Prima regola Clarice: semplicità. Leggi Marco Aurelio: di ogni singola cosa chiedi che cos’è in sé, qual è la sua natura. Che cosa fa quest’uomo che cerchi?, Uccide le donne, No, questo è accidentale. Qual è la prima cosa che fa? Uccidendo che bisogni soddisfa?, Rabbia, accettarsi socialmente, frustazione sessuale..., No, Clarice. Desidera, e che cosa desidera?, Quello che vede. Quello che vede. L’amore non è una cosa buona perché spesso ha a che fare con la bellezza. E la bellezza è qualcosa che, nel contempo, fa sentire a casa e fuoriposto. Quello che vede. L’amore, il desiderio e la bellezza si intersecano. Una corona di spine e una ghirlanda di fiori, un roveto, una mangrovia di intenzioni. Si intrecciano.

 

Così, via via, mi avvicinavo alle fotografie, ai gatti, alle donne, ai frutti, ai fiori, ai quadri, ai libri, alle discipline intere – dall’educazione fisica alla geometria algebrica – lieta, sempre bambina, e tornavo sui miei passi, quasi fossi caduta in un cespuglio di more. Sono belle le more. Flessuose, indolenti, circondate da spine. A casa e fuoriposto. Inaspettate così morbide in mezzo agli aculei. Le more non sono mica castagne. Così, la bellezza per me è come le more. Da sempre. Di certo dalla prima volta che nel giardino incolto di mio nonno le ho viste e, senza sapere se fossero commestibili o meno, mi sono allungata, graffiata un braccio, afferrato una mora, la più facile, soffiato non tanto per togliere la polvere ma per imitare nonno che raccoglieva le mele dall’albero e l’ho mangiata. Buona la mora. Bella la mora. Voglio sempre più more. Altre more. More, anche in inglese. Io e Oliver Twist a chiedere cose che non potevamo avere. Così, la bellezza per me è come le more.

 

Non è che la raccogli, è che ti cade tra le mani, certo tu devi disporti a un gesto, ma è la mora che sceglie. Così, la bellezza per me è come le more. Qualcosa che riesco a scorgere da lontano, un carminio che balugina in un intrico di verde, e che via, via che mi avvicino, diventa inaccessibile. Il contrario dell’orizzonte che si sposta ma è sempre uguale, il contrario del guardare le cose da vicino perché si vedono meglio. Questo detto, statisticamente, dimostra che la terra è il regno dei miopi. Io sono astigmatica. Da adolescente dicevo sempre ametropia, intervenivo con Porti gli occhiali?, sei ametrope! L’ametropia include la miopia, l’astigmatismo, l’ipermetropia, ed è stato il mio primo incontro con l’alfa privativo. La privazione, l’essere mancante, può essere anche un eccesso. Vederci troppo o troppo poco è una simmetria rispetto a qualcosa che si è perduto. Il metro, il fuoco, la proporzione. L’occasione.

 

L’amore, il desiderio e la bellezza si intersecano. Una corona di spine e una ghirlanda di fiori, un roveto, una mangrovia di intenzioni. Non hanno una forma, hanno un modo. Si intrecciano. Sono bucate, lasciano passare aria e acqua, si inumidiscono con poco e altrettanto presto si disseccano, stanno intorno, e possono soffocare, se l’intrico è stretto, se la trama e l’ordito s’accostano, possono soffocare. Sono pervasivi e dovunque, in eccesso o in difetto e per questo ognuno ha una idea propria di bellezza, amore e desiderio.

 

Da bambina, quando ho avuto la mia prima altalena attaccata in alto, molto in alto, al ramo di un noce, con le punte dei piedi toccavo la terra e davo piccole spinte rotatorie in modo che le due corde dell’altalena s’arrovellassero e mi sollevassero ancora un poco dal terreno. Quell’intrico, quel sollievo dal marrone della terra e quell’improvviso svolgersi e tumultuoso, mi faceva girare la testa. Ridevo molto, estatica, con la testa buttata all’indietro. Quando poi mi spingevo tanto da arrivare quasi sopra il roveto di more, tendevo le braccia e gettavo il busto avanti, come per un salto, un volo verso quelle more, e verso quella bellezza che forse, pure con i graffi, mi avrebbe accolto. Non l’ho mai fatto. Non ho avuto il coraggio, credo. Per questo ci sono cose che ho amato dalle quali non sono stata corrisposta. Le cose, più delle persone, hanno sempre saputo della mia vigliaccheria. Anche le more.

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