Per Pino Spagnulo / Col fuoco in mano a scolpire lo spazio della notte
In questo luogo, antro e caverna, quasi tempio,
(che c’è anche per la luce di Clara, grandissima donna),
si addensa un cammino di forza e potenza
dentro quella strana arte che è la scultura:
a lei, una volta, era delegato di incarnare gli dei
nell’argilla, nel legno, nella pietra, nel ferro:
o di creare immagini capaci di tenere in vita
i re, le regine, gli amanti, al tempo dei miti:
ma oggi, tempo senza miti, chi è la scultura?
Dice Pino:
“Quando mi domandano: fai l’artista?
No, rispondo, faccio lo scultore, è diverso.
Fare scultura sembra un mestiere idiota, oggi.
Se vuoi farla devi trovare una buona ragione.
La mia ragione è dare una nuova vitalità alla scultura.”
Caro Pino,
in questa tua officina della scultura
della scultura nuovamente viva
in cerca della ragione di se stessa
ascoltiamo i nomi che le hai dato:
porta
respiro
cerchio
volo di un piccione viaggiatore
cubo in cubo
gioco
libro
muro
ferro spezzato
manimani sole nero
carro di fuoco
turris
triangolo
scogliere
la grande ruota
orizzontale-verticale
prigione
testa (autoritratto)
guerriero
l’ombra di Napoli
pozzo dei desideri
triangolo rotto
linea
rose
rapporto
elmo
tancredi
falce e martello (per Angela Davis)
ascesa diagonale
la grande montagna nera
amadigi
nero
black panther
la grande bandiera
piano spezzato
dafne
ali di fuoco
questa parola pronunciata sfiora davvicino la morte
pala
voce
labbra
passione
autoritratto
la grande ruota
rosa dei venti
il blu del cielo e del mare
croce
altare
la geometria distrutta
paesaggi
panorama scheletrico del mondo
il resto del tempo è sempre lo stesso silenzio di morte
antigone
le armi di Achille
minotauro
disco
archeologia
Londonderry
ritratto della follia
lavoro elementare
l’albero degli impiccati
tondo (autoritratto)
omaggio a Brancusi
quadrato profondo e fuga dalla morte
diagonale-verticale
il ritratto della fierezza
le porte di Bagdad
Baalbeck
campo sospeso
ritratto della mia diletta
erotico
i volti del dio Pan
la foresta d’acciaio
nerofumo
mortanatura
albero
le mie rose le tue rose
colpito a morte
sole rosso sole nero
vecchio uomo cieco che guarda il mare
cantico
infinito
ho incontrato Pino Spagnulo intorno al 1960 – tramite Claudio Olivieri –
nello studio antro che aveva insieme a Nanni Valentini –
ai tempi del legno (“col legno ho affrontato la prima volta il problema dello spazio”)
e dei lavori con l’argilla e il tornio –
c’era povertà, freddo:
un giorno d’inverno Pino ha tirato fuori le friselle, le ha bagnate sotto il rubinetto –
ha versato olio e origano – le mangiavo per la prima volta –
eravamo Olivieri, Valentini, Schiavocampo, io:
mi colpì come Pino teneva in mano le friselle:
ma guarda, ho pensato, in mano sua sono subito sculture, come le bagna, le spezza:
cosa c’era allora alle spalle di un giovane che a tutti i costi voleva fare lo scultore?
Fontana, Brancusi, Arturo Martini?
Martini, il più grande scultore italiano del 900,
dopo la catastrofe del fascismo (era stato fascista)
aveva scritto un testo radicale,
Scultura lingua morta:
dove dice che non era più possibile fare statue, sculture:
ecco il lascito di Martini, 1945:
“Il Tempio non è la Fede, la statua non può essere l’essenza della scultura. Oggi gli scultori non sono dei creatori, bensì dei semplici fedeli che non sanno ritrovare una speranza e non sanno pregare se non dinanzi a una immagine o a una chiesa.” (Il trucco di Mich., pag. 67)
“Se a qualche giovane immacolato balenerà la speranza di una rinascita , lascio, suggeriti in solitudine dalla scultura, questi comandamenti.
Fa che io serva solo a me stessa.
Fa di me un arco dello spirito.
Fa che io non sia più rupe, ma acqua e cielo.
Fa che io non sia piramide, ma clessidra per essere capovolta.
Fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione.
Fa che io non sia un confronto, ma un’unità.
Fa che io non sia un’immagine, così non mi esalteranno.
Fa che io non sia una pietra miliare dell’uomo, ma della mia natura.
Fa che io non sia un vistosa virtù, ma un oscuro grembo.
Fa che io non sia un peso, ma una bilancia.
Fa che io non serva come una moneta per comodità pratiche.
Fa che io non resti nelle tre dimensioni, dove si nasconde la morte.
Fa che io non sia prigioniera di uno stile, ma una disinvolta sostanza.
Fa che io sia l’insondabile architettura per raggiungere l’universale.”
Proprio da qui mi sembra abbia voluto partire,
ri-partire Spagnulo –
radicalmente: verso la scultura ancora possibile:
chissà quanto discutendone con Nanni Valentini,
fra terra, acqua, aria e fuoco
partire da dentro la materia – dalla sostanza della scultura,
dal legno che esplora lo spazio,
dal peso dell’argilla e da quello, immane, del ferro –
dalle spaccature – spezzature – piegature – saldature –
cavando segnali dalla materia
e dal pensiero della materia, dal suo concetto:
fare segni:
verso dove?
verso dove fanno segni le stelle, e le galassie, bruciando?
Dice Pino:
“a me interessava la memoria della scultura”:
Quale memoria?
“ c’era mio padre che aveva la bottega e quella è stata una base fantastica che ti dà l’idea di questo lavoro, per cominciare; un’attività che ha un senso cosmico, per cominciare…”
“il mito è mio padre che tirava su questi vasi di quattro quintali, e vedevo queste mani che strizzavano l’argilla…”
E ancora:
“la forza mi viene da questa memoria di vedere un grande forno che respira come un grande animale, quel senso del respiro, del fuoco, e questa immagine del fuoco mi è sempre rimasta nel sangue…”
la fiamma, il dio che guida la mano dei fabbri, ha scritto Bruno Corà:
terra
legno
ferro
acciaio
cemento
ossido di ferro
manganese
vetro
bronzo
sabbia vulcanica
fuoco
cuocere
tagliare col fuoco
spezzare
con crudeltà, spietatamente:
Dice Pino:
“amo cambiare la realtà:
la realtà si fa mentre la si pensa
e non la si dice:”
E ancora:
“la scultura non è un lavoro
è una maledizione
è assurda pesa si rompe trasportarla in giro è così faticoso
solo uomini disumani sadici masochisti titani possono farla
adoro la gente che ha mani candide e affusolate come meravigliosi strumenti musicali le mie sono grandi come mattoni
una lotta per la sopravvivenza
l’argilla si accascia
il ferro è troppo rigido
la pietra puzza di morte
vedo sempre teste appese agli alberi
il saraceno come il fulmine cala la sua scimitarra sul cristiano nel punto dove la testa si attacca al corpo la testa rotola nella polvere il saraceno prende la sua lancia infilza la testa e ritorna al suo campo col trionfante trofeo”
Ma cosa hai scritto, Pino:
sei matto?
E insisti, dici ancora:
“la mano si abbatte sulla creta molle
tutti i vicini scappano via imbrattati
ancora un cristiano di meno”
“imbottirsi di odio e abbracciare il proprio nemico e saltare insieme a lui”
(note per la mostra For those trees are Elysium, 1986)
Caro Pino,
eri matto quando scrivevi questo, nel 1986?
Matto sì, ma vero, te stesso, vero come la creta molle, come un blocco di ferro.
Come il fuoco.
Allora provo a interpretarti così:
che la violenza che ci abita, che abita l’uomo,
tu la scaricavi nelle azioni del fare sculture:
tutta la violenza che abbiamo: e te ne liberavi.
Poi ancora hai detto:
“quando taglio un cerchio penso a Sade”:
Allora ti domando: per te il fuoco è amante assassino, tagliateste sadico?
So che rispondi sì, ma aggiungi che è anche un dio che affonda carezze erotiche in sculture frutto di eros, e d’amore – l’ha ben scritto Tommaso Trini:
un lavorìo d’amore là nella fabbrica del fuoco, la fucina:
“Per me lo spazio del lavoro è la fabbrica, un luogo di idee,
dove il fuoco e la fiamma producono le idee di come trattare, fare il lavoro”:
un luogo dove si forma il cantico della materia.
E la teoria?
la teoria viene dopo: prima c’è la materia:
c’è la lotta, antica, arcaica e moderna, con la materia:
con fatica, forza, potenza, violenza oscura:
forza e potenza, kratos kai bia:
così comincia il Prometeo di Eschilo,
gran teatro di Efesto il fabbro incatenatore
e del rubatore della fiamma fiore della luce,
scultore con la creta del primo uomo,
affascinato dal fuoco e dagli dei,
così umano, così punito:
scolpire col fuoco, tagliare, penetrare nel ferro,
aprire fessure, fecondare il ferro,
con l’amore del fuoco illuminare il corpo del ferro,
con la fiamma/mente del dio fuoco:
fuoco veggente, fuoco tagliatore, verso dove?
Dice Pino:
“spesso l’opera più interessante è l’ultima:
nella maturità l’artista assume un coraggio che nella sua giovinezza non ha:
un artista campa fin che ha concluso: non c’è mai un artista che è incompiuto”
è proprio così, caro Pino:
c’è un dialogo, un duello,
sempre in atto, sempre perduto:
ogni uomo nasce e vive
per compiere il combattimento,
concluderlo e vincere perdendo:
il contributo d’ognuno alla vita
è l’inesorabile combattimento:
Pino ha scritto, come sapete,
poco prima di prendere assenza,
non voglio morire:
NON VOGLIO MORIRE.
Pino, c’è dio?
“non sono credente, ma penso che c’è un dio nell’uomo –
ma nell’uomo –
nel suo spirito –
ed è quello che porta ad immaginare la bellezza…
se non ci fosse questo senso religioso,
che ti pone in rapporto coi miti,
con la tua origine nel mito…”
Nel mito.
Nel corpo complesso, paterno, oscuro, luminoso, tremendo
del mito.
Molti anni fa, nel 1971,
chiesi a Pino di farmi la scena per lo spettacolo
Scontri generali: per la Biennale di Venezia:
tutto si svolgeva su un ring, che a un certo punto,
dato che tutto diventava catastrofe, la catastrofe degli scontri generali della sinistra,
si trasformava in zattera,
barca su cui navigare nel mare degli oggetti (i rottami) della nostra civiltà:
Pino progettò un capolavoro,
un ring astratto
che gli attori smontavano e trasformavano in zattera barca:
una barca per arrivare remando all’isola di utopia,
utopia che poi, vista da vicino, era solo macerie, disastro:
ma i naviganti riprendevano a vogare,
verso un qualche luogo di speranza, con speranza:
mi pare di vederlo Pino sulla sua, e nostra, zattera,
col fuoco in mano
a scolpire lo spazio della notte:
buon viaggio dunque scultore, amico:
insieme a noi.
Orazione detta per Pino Spagnulo, 29 giugno 2016, nello studio di Gaggiano.