Coworking e millenials o delle rivoluzioni addomesticate
Parlare di coworking è alfine un espediente per osservare la geografia attuale del lavoro e le difficoltà politiche e organizzative che incontriamo sul tema. Il coworking è infatti un’utile idea, nata dal basso, per tentare di fare emergere il lavoro dalla situazione individualizzata e isolata indotta dalla precarietà, insistendo sull’aspetto sociale e collaborativo del processo. Storicamente, la condivisione degli spazi in cui il lavoro si compiva ha contribuito a costruire la consapevolezza, la cognizione, anche epica, della sua forza antagonista. Oggi, essere al lavoro vuole spesso dire anche essere simbolicamente “fuori” dal lavoro così come per tradizione è stato visto, interpretato e validato. Sandra Burchi che, a partire da dieci racconti di donne alle prese con il loro ufficio domestico, ha dedicato una ricerca importante al fenomeno aggiornato del “lavorare da casa” condensata nel libro Ripartire da casa, invita a perlustrare la nuova dimensione in cui il lavoro si svolge, considerandola come uno “spazio terzo” da reinventare. Luogo tutt’altro che privo di resistenza proprio perché incarna, concretamente, la collisione tra produzione e riproduzione, tra lavoro e non-lavoro, lavoro concreto e lavoro astratto, dunque esprime la fenomenologia dirompente di una realtà che andrebbe – finalmente – considerata congiuntamente perché inseparabile. Effettivamente, non è banale rapportare questa dimensione esistenziale del lavoro precario all’esperienza del lavoro domestico delle donne: la domestication del lavoro diventa l’occasione per disarticolare ogni precedente separazione, prima voluta e sancita, tra sfera pubblica e sfera privata, che significa un prodigioso ampliamento delle possibilità di far “comunicare, lavorare ed essere”, contemporaneamente, il soggetto precario. Tuttavia, i punti di blocco sono significativi e viene da domandarsi se la risignificazione del lavoro imposta dalla crisi economica, dall’impermanenza generalizzata del lavoro, dal degrado del diritto e delle forme di assicurazione sociale (“l’inibizione della giustiziabilità dei diritti da parte dei lavoratori cognitivi”, scrivono Alberta Giorgi, Ulisse Morelli e Valeria Verdolini), dunque il suo avvitamento verso il basso, verso aspettative continuamente decrescenti, non sia passata, non stia passando, anche da questa domesticazione che si presta ad assumere la forma dell’addomesticamento poiché il lavoro risulta più difficilmente “riconoscibile”.
Il problema va, evidentemente, inquadrato nella sparizione di ogni forma di mediazione istituzionale, giuridica, sindacale, che ha lasciato posto a una letale frammentazione della società in differenziati centri normativi, privi di un baricentro regolatore e portatori ciascuno di una propria interna autoreferenzialità. Ma non è comunque possibile ignorare anche “il venir meno del luogo, del legame che costringeva sia il lavoratore che il capitalista dentro uno spazio e dentro un tempo vincolanti”. Tale dissolvimento ha fatto evaporare insieme a conflitti e salari la fatica a percepirsi come lavoratori. La solitudine insieme all’ipertrofia dell’orario di lavoro che viene sperimentata si oppone alla riuscita “in proprio” dei processi di soggettivazione mentre l’inseguimento della propria “reputazione” non può conoscere cedimenti, mancanze di ispirazione, malattia o semplice disgusto. Ci si proietta allora in una tensione continua per ottenere status da tradurre in senso di sé, spingendo fino ai limiti il proprio attivismo, a cavallo tra produzione e riproduzione (riproduzione produttiva). Anche qui, per inciso, e ci tornerò nelle conclusioni, i crinali critici non mancano e riguardano, sempre più precisamente, l’osservazione di una soggettività che, nella frantumazione orchestrata delle vite e dei percorsi, sembra davvero, drammaticamente, non trovare altri specchi se non quelli offerti dal potere attraverso promesse di cooptazione, di riconoscimento di status, sottolinea Olivia Fiorilli. Oppure, di “legittimazione dal punto di vista simbolico, sociale e, residualmente, economico” aggiungono Giorgi, Morelli e Verdolini, già citati.
Al lavoro artigiano, alle forme tradizionali di impiego domestico si è aggiunta la multiforme schiera di coloro che, scorrettamente, sono stati anche chiamati “lavoratori immateriali”. Questa è forse la presenza scomoda che ha connotato i processi contemporanei di domestication, imprimendo loro un nuovo andamento. Come se la precarietà connessa alla smaterializzazione della fabbrica e della produzione fosse servita proprio a occultare il lavoro (astratto) e la fatica a esso connessa, facendolo slittare in un’altra dimensione. Dove, insieme allo spazio-tempo in cui l’azione si svolge, entrando in crisi la teoria marxiana della misura del valore, sparisce pressoché del tutto lo sfruttamento. Si può azzardare che le parole del tutt’altro che sguarnito ministro del lavoro Poletti rappresentino una sorta di spallata finale: “l’ora lavoro” collegata ai contratti collettivi e alle retribuzioni conseguenti è un vecchio arnese, va piuttosto “misurato l’apporto dell’opera”.
Dalla disciplina di fabbrica al capitalismo bio-cognitivo contemporaneo, la soggettività precaria fa oggi paradossale esperienza di una sollecitazione continua di capacità auto-regolative, auto-normative, auto-realizzative, auto-organizzative, autoimposte dagli stessi soggetti precari a sé stessi. Ed è questa la nuova, paradossale, forma assunta dalla taylorizzazione applicata al lavoro cognitivo e sottesa alla sua stessa potenza. Un sistema “extragiuridico” e “suadente”, tutto orientato alle logiche indicate da un mercato del lavoro che vuole “lavoratori competenti e qualificati ma anche politicamente disarmati”, ha notato Laura Bazzicalupo, la cui organizzazione è basata “sulla grandezza domestica”, come aggiunge ottimamente Federico Chicchi in Soggettività smarrita.
In tutto ciò, il corpo dei lavoratori precari che lavorano a casa, a domicilio, rischia di essere un corpo che non parla se non con se stesso, se non al telefono, che usa propaggini verso l’esterno come la mail, come i social. È un corpo che, in una solitudine tutta telematica, risulta aperto a introiettare i dettami di un capitalismo che scimmiotta e sollecita l’organizzazione reticolare, neuronale, abbassa progressivamente la soglia di attenzione (12 secondi nel 2000; 8 secondi oggi, secondo i dati di una ricerca canadese commissionata da Microsoft) per fare più cose contemporaneamente (multitasking), deve imporsi l’auto-controllo per poter ottemperare alla propria medesima auto-organizzazione anche se la pianificazione (la decisione) rimane ancorata al cuore centrale dell’impresa (il committente). È un corpo che, piegato dalla necessità di essere il proprio stesso guardiano, essendo sottoposto alla perennità della valutazione e della misurazione che piace a Poletti, si ammala: la produzione è sprovvista di “tempo sensato” e in questo continuum temporale, esaltato dalla dimensione casa/bottega nella quale l’azione potenzialmente incessante del lavoro si svolge, emergono stress e ansia connessi alla paura di “sparire”, appunto. Paura non solo di non essere pagati ma perfino dimenticati.
Retoriche del talento e della “cultura” di impresa
L’idea del coworking nasce all’interno di siffatto contesto. Nasce da un desiderio di uscire dalla casa-ufficio, di ricomporre la frantumazione alienata e di incontrare fisicamente gli altri. La Rete dei redattori precari ha dato vita a Milano al Suc, Spazio ufficio condiviso, a partire da queste considerazioni: “Le aziende chiedono sempre più spesso ai propri lavoratori di lavorare da casa, la partita iva sta diventando il rapporto di lavoro più diffuso, soprattutto nelle professioni in campo creativo/cognitivo. Ormai i “freelance” sono più numerosi dei dipendenti e l’esistenza di tutti è quanto mai precaria. A Milano, e in tutte le grandi città, sono spuntati come funghi gli spazi dedicati al coworking: spazi in cui è possibile affittare una postazione di lavoro e fare “networking” con altri “liberi professionisti”. L’idea di lavorare insieme, e non nella solitudine delle nostre quattro mura, a noi della Rete dei Redattori Precari è sempre piaciuta; ma dover pagare per lavorare e socializzare, questo proprio no”.
Dunque qui cominciamo a intravedere i problemi. I coworking, nati come una buona idea (lavorare insieme così si dividono le spese di affitto, telefono, rete, si sta insieme, ci si scambiamo idee, i saperi si cumulano) sono in molti casi (non in tutti, ovviamente) diventati un business da un lato, un vettore di ideologie neoliberali dall’altro. Noto è l’esempio di “Talent Garden”, network internazionale di spazi di coworking, che ha sedi in 11 città italiane, a Barcellona, a Tirana e a Kaunas, in Lituania, il quale si definisce come “coworking campus” o “community di innovatori del digitale” e si rivolge “ai talenti, che si incontrano per lavorare, vivere, condividere idee, trasferire conoscenze e crescere insieme”. In questo esempio, insieme alla commercializzazione della socialità si profonde a piene mani il nuovo spirito del capitalismo che è la fede nelle start up. Questo tipo di retorica ha lo scopo di segmentare ulteriormente il già frantumato mercato del lavoro precario, dividendo la grande massa dei precari impoveriti trasformati in disoccupati e poi in persone che un lavoro non lo cercano più, da quelli che invece ce la fanno (o se la raccontano).
Si è aperto, insomma, un grande terreno di conquista: dalla smaterializzazione della “fabbrica”, intesa qui soprattutto come fabbrica cognitiva, ma dentro la necessità di mantenere una organizzazione reticolare del lavoro, senza costi per le imprese, si arriva fino ad esempi come Regus, società quotata in borsa, fondata in Belgio, con sede in Lussemburgo, “fornitore mondiale di spazi di lavoro flessibili”. Il gruppo, composto da oltre 2.300 business center, dislocati in 850 città e 106 paesi, offre “spazi pratici e completamente attrezzati” per pochi minuti o per più anni. La filosofia è “organizzare modalità di smart work o lavoro agile”. Le offerte vanno dal coworking a uffici a giornata alla domiciliazione postale (con la creazione di “indirizzi prestigiosi per la tua azienda da 49 euro al mese”) a uffici virtuali per cinque giorni al mese, messa a disposizione di sale riunioni, servizi di segreteria, eccetera. Si lavora soprattutto sull’immagine, cercando, contemporaneamente, di ripristinare un ordine dalla scomposizione.
Dunque, ha probabilmente ragione Salvatore Cominu nel suo recente saggio Lavoro cognitivo e industrializzazione a ricordarci di non dimenticare che siamo anche in presenza di forme di industrializzazione del lavoro cognitivo, finalizzate a organizzarne l’autonomia (apparente), senza oneri per l’impresa. E ha ragione Matteo Pasquinelli ne Gli Algoritmi del capitale quando afferma “il capitalismo di oggi valorizza e organizza la conoscenza e le informazioni prodotte dal lavoro di una moltitudine globale ovunque assoggettata ad almeno una catena di montaggio numerica e a un dispositivo digitale (tutti hanno almeno un telefono cellulare)”.
Pensando alla forma assunta da una parte dei coworking, tradotti in incubatori di start up, vale la pena di aggiungere che trasformarsi in imprenditori non è un gioco e non può essere spacciato con leggerezza come l’alternativa possibile alla disoccupazione. Eppure, una recente ricerca Censis, svolta nel corso di Expo 2015, enfatizza una volta di più “la voglia di impresa” delle giovani generazioni, raccontando che quasi “32 mila nuove imprese, nate nel secondo trimestre del 2015, fanno capo a un under 35”. Sarebbero cioè nate più di “300 imprese al giorno guidate da giovani, con una crescita del 3,6% rispetto al trimestre precedente a fronte del +0,6% riferito al sistema d’impresa complessivo”. Nulla si dice, in tutto questo, della elevatissima mortalità di tali imprese, all’interno di un sistema arretrato, incapace di accogliere le innovazioni, con un sistema creditizio paludato e chiuso, con immense difficoltà di accesso al credito.
Rendita e riproduzione sociale
Che cosa suggeriscono queste scarne considerazioni, in termini generali? Che la necessità sempre più impellente di trovare qualche forma di reddito viene piegato dalla falsa retorica, tra l’altro neppure originale, dell’autoimpiego, mentre il bisogno di socialità, di contatti, di visibilità sociale vengono trasposte in offerte di servizio alla persona, a pagamento. Da qui in su, verso l’alto, fino alla privatizzazione della sanità e alle pensioni integrative, verso l’infinito e oltre di un “tutto a pagamento” siamo dinnanzi a un processo, che, nelle difformità, per gradi di separazione e di problematicità, trasla in profitti privati i bisogni reali delle persone, insegue sul proprio terreno e ingloba all’interno del mercato le invenzioni agite dalla cooperazione sociale come forme di difesa o di reciproco sostegno.
Adam Arvdisson lo ha sottolineato con ancora maggiore nettezza: “il coworking non si costituisce mai come un’alternativa al mercato. Anzi, nei coworking si impara principalmente come posizionarsi in modo efficiente sul mercato”. Dunque non si ritraccia, anche in questi contesti, vera critica, né vera alternativa bensì la creazione di una “solidarietà debole” che è “una solidarietà di mercato, una solidarietà imprenditoriale”.
Guardando tali esempi, inoltre, viene da domandarsi se il paradigma del lavoro gratuito non sia già superato, come messo in luce, del resto, dai diversi master che promettono di introdurti in talune professioni: per lavorare si paga, si paga per essere messi in contatto, per essere introdotti, per avere accesso a una rete di relazioni. Si tratta, in concreto, di una prova ulteriore del nostro essere immersi in quel modello antropogenetico di produzione che trasferisce i costi della produzione/riproduzione ai lavoratori medesimi, con risparmio netto per lo stato e assicurazione dei profitti (a questo punto rendita) a pochi attori.
Autogestione inclusiva
Nel libro di André Gorz, Ecologia e libertà, che Emanuele Leonardi ha appena tradotto e curato per Orthotes, in una nuova edizione italiana che arriva quarant’anni dopo l’uscita in Francia (1977), si evocano forme di autogestione inclusiva, intendendo con ciò il recupero delle “capacità creative sussunte dal capitale e atrofizzate dallo stato”. Il passaggio che va fatto, però, non è all’indietro, verso una specie di arcadia, un’economia di sussistenza, un processo di decrescita o una comunità locale ma, dice Gorz, si tratta di “subordinare le tecniche industriali allo sviluppo permanente di autonomie individuali e comunitarie” invece di fare il contrario e “subordinare queste autonomie allo sviluppo permanente di tecniche industriali”.
Riprendo da qui le sollecitazioni di Sandra Burchi sugli spazi e sulle resistenze che citavo all’inizio. Per seguirla su questo terreno penso potremmo, da un punto di vista politico, provare ad appoggiarci al concetto dell’autogestione inclusiva che recupero dal libro di Gorz nelle differenze di tempi e di impostazioni rispetto all’autore. Resto estremamente convinta che nelle attuali forme lavorative venga sempre più spesso interiorizzato un fare perenne che tende a smarrire i connotati del piacere e del valore d'uso insiti nella relazione, nel contatto, nell'incontro (davvero privo di finalità mercantili), per assumere invece quelli dell'attività indirizzata solo a produrre valore di scambio. Condivido, e credo di averlo scritto in passato, la convinzione che vada messo a fuoco un agire anche in termini di cura e di senso – e si potrebbe aggiungere anche di rifiuto della crisi come rifiuto dell’infelicità che ne deriva. Declino tuttavia il concetto di cura come cura di sé ovvero composizione che si ottiene sempre e solo con gli altri, sempre e solo all’interno di una dimensione sociale. Le modalità in cui il lavoro oggi si esplica favoriscono invece una cristallizzazione sull’Io, l’occultamento della cooperazione sociale, la cura delle relazioni utili, l’introiezione di un sistema di dominio annichilente. Il modello della cura diventa allora, come notavo qualche anno fa, una strategia di governo della complessità e insieme di depotenziamento delle conflittualità. L’effetto nuovo e grave di questa predisposizione zelante appresa dalla solitudine e dalla paura di sparire, dalla “solidarietà imprenditoriale”, dopo venti anni di retoriche sul merito e sulla valutazione, dal bisogno di reddito ma anche dall’anelare al compenso simbolico (riconoscimento) che viene dall’autorità, dal protagonismo del web, insomma nella frantumazione alienata del presente, è che essa punta a stornare progressivamente energie ed attenzioni dai contesti “senza fini di lucro”, comune, militante o cooperativo, mentre l’autorità viene interiorizzata.
A questo punto della ricetta neoliberista, la generazione più giovane, in particolare quella che va dagli anni Ottanta al 2000, generazione millennials, in sostanza i trentenni, viene descritta, nella vulgata giornalistica, come un corpus globale e poliglotta, tuttavia individualista e competitivo, per il quale “fare business in modo responsabile” diventa una “religione” (a proposito di coworking), benché di fatto manchi la fiducia negli altri sul posto di lavoro (a proposito di solidarietà debole o d’impresa). La banalizzazione di una propaganda ideologica, ma significativa, aggiunge altri tasselli: nativi digitali, stressati se stanno “un giorno senza il web”, alla ricerca di “valori tradizionali”, di “felicità e successo”, convinti (“questo è il bello”, si aggiunge) di dover “lavorare per ottenerlo”, in pace con la famiglia, con mamma e papà. La soddisfatta conclusione finale della stampa italiana non sorprende: “sono dei riformatori, non dei rivoluzionari”.
Questo tipo di letture, come si è tentato di dire troppo velocemente sopra, cercano di sbarazzarsi dell’antico moloch dello sfruttamento. Evidentemente, espungono completamente anche le differenze di classe, gli effetti percettivi dei processi di impoverimento e dell’assenza di mobilità sociale, senza, per altro, valorizzare pienamente le forme di vita multiculturale e i poliamori (tutto si riduce all’essere favorevoli ai matrimoni omosessuali) che sono portato innovativo, espansivo, delle nuove generazioni, ben più significativo di certo nichilismo raccontato dalla cronaca. Tutto ciò andrebbe approfondito e decostruito meglio di quanto qui si stia facendo, ad opera della stessa cosiddetta generazione millennials che dovrebbe prendere parola e creare una narrazione in proprio, evitando vittimismi o costruzioni estetizzanti, recuperando quella rabbia che manca, portandosi definitivamente in attacco. Viceversa, il silenzio in cui molte e molti sono precipitati o si mantengono, la crisi delle esperienze politiche radicali o di movimento, l’arrancare della parola “non legittimata” dall’autorità, la mancanza di tempo, la cattura dell’economia della promessa, finiscono per fornire una specie di conferma di come la sudditanza materiale si vada facendo sudditanza mentale e morale oppure ritorno nel privato o senso di sconfitta, da cui le derive descritte. Generalizzo, ovviamente, cerco di problematizzare e un po’ provoco.
Per non buttare la palla ad altri e volendo operare un processo analitico della difficoltà attuali dei processi cooperativi e di rete, parto da me e dalla mia generazione, generazione di mezzo che con l’autorità ha avuto un rapporto non lineare, se non “difficile”. Rileggo le parole di un testo di Sandra Burchi e Adriana Nannicini, del 2011: “restano da ripensare le modalità di lavoro realmente cooperative […] l’invenzione di forme di mutualità durevole resta un desiderio mentre la creazione di piattaforme rivendicative comuni sembra limitarsi alle questioni fiscali. Ogni desiderio di mutualità sembra fermarsi sulla soglia di atteggiamenti di tutela, di ricerca di miglioramento delle condizioni di lavoro, sempre più presenti e incisive nella vita quotidiana […] Più difficile è oltrepassare questa soglia e inventare mutualità che attivino modalità “solidali” e non concorrenziali nello stare sul mercato del lavoro. Quanto e come la frammentazione e l’individualizzazione hanno agito così da inibire questo nostro desiderio, poco verbalizzato è vero, ma sommessamente circolante? Vanno trovate parole collettive. Su questo punto sarebbe interessante capire cosa stia facendo un sindacato come la Cgil, che ha aperto alle giovani generazioni attraverso la campagna “non più disposti a tutto”, per organizzare quelli che restano “i non organizzati”.
Analisi lucida e quanto mai attuale – attuale anche la presa d’atto che l’apertura a ipotesi di alleanza con istituzioni sindacali non ha funzionato. Tuttavia non siamo, fino a ora, a nostra volta, riuscite e riusciti a oltrepassare la soglia indicata e a rappresentare un modo davvero diverso di lavorare ed essere alternativo, a fare valere il nostre essere sempre “individui integrali e polivalenti”, per tornare a Gorz. Non siamo riuscite e riusciti (nonostante gli sforzi) a incarnare, concretamente, anche uno stile di vita politico ed etico sinceramente innovativo, capace di essere attraente perché credibile e in grado di proporre una pratica virtuosa di libertà o, detto in altri termini, una pratica di completo rinnovamento sociale e un modo diverso, meno alienante e alienato, di gestire le risorse dell’uomo e della natura, oltre l’ordine costituito e le gerarchie. Quale alternativa reale abbiamo, ultimamente, rappresentato, a nostra volta, senza accorgercene, impaludati in sistemi organizzativi autopoietici e autoreferenziali?
Ha certamente senso resistere, sollecitare, comunque e ovunque, forme di autogestione che non siano alla fine, volenti o nolenti, unità eteroregolate, come invece in tanti esempi di coworking o di sperimentazioni fallimentari della sharing economy. Va recuperata appieno il senso dell’interdipendenza dei soggetti, ponendosi fuori da meccanismi di correità che trasformano la ricerca sacrosanta di spazi di autodeterminazione in atteggiamenti individualistici e competitivi, in un contesto di mutua indifferenza. L’autonomia del soggetto contemporaneo rischia al momento di somigliare alla libertà di impresa e tiene in ben poco conto i rapporti di solidarietà capaci di trasformarsi in nuovi, e più giusti, rapporti sociali.
Si potrà sorridere dei progetti di monete alternative, trovare vecchio il discorso sul reddito e tuttavia qui, insieme alle forme di sperimentazione che potrebbero esservi collegate, si gioca il nostro presente e, penso, anche un ruolo per un’area di pensiero e di lotta che molto ha investito sul tema della liberazione dal lavoro, quel lavorare senza padroni, così attraente: liberazione dal produttivismo e dall’identità che ne consegue, desiderio performante di emancipazione reale dalla schiavitù del lavoro. La capacità delle soggettività non solo di resistere ma di ribaltare rapporti di dominio che subordinano la nostra autonomia alle tecniche industriali, di mercato, di estrazione neoliberale, al professionalismo, alle gerarchie, all’autorità competente, è allora oggettivamente necessitata dal passare, nel presente, da forme concrete di micropolitica che valorizzino “la presenza e la capacità di talenti diversi, la ricchezza di scambi umani, la possibilità di adattare almeno parzialmente la produzione ai bisogni e ai desideri della comunità, un minimo di autarchia locale”, dice Gorz.
Questa dimensione pratica, incardinata intorno ad alcune rivendicazioni di base sul piano distributivo (reddito, servizi), può forse riuscire a condensare l’attenzione progettuale della soggettività contemporanea, godendo di un punto a favore: rispetto al passato è la riproduzione sociale, il tessuto della metropoli, degli spazi sociali, dei rapporti tra individui e comunità, il motore della valorizzazione e i mezzi di produzione sono già direttamente nelle nostre mani, corpi, menti. Sono i nostri talenti soggettivi, le nostre competenze, le nostre pratiche, già in atto, sono parte di noi, li portiamo con noi. Portiamoli via da loro. Per uscire dalla paralisi, possiamo, già oggi, mappare un’infinità di realtà che costruiscono “comune”, cooperazione sociale, autoproduzioni, invenzioni sul terreno della riproduzione sociale, vie di fuga. Non penso che possano essere interpretate come alternative definitive. Le penso come un passaggio, una terra di mezzo per appoggiare, per far sostare, riposare e crescere in grazia e bellezza, la soggettività precaria, consentendole di ri-cominciare a immaginare i contorni di una società desiderabile. Citando ancora Gorz, si tratta di “liberare l’immaginazione riguardo a ciò che è possibile fare per cambiare la vita”.