Recensione a Paul Mason / Immaginare il postcapitalismo

26 Aprile 2016

Flashback. Nella notte tra il 12 e il 13 luglio 2015, dopo 30 ore consecutive di negoziati a vari livelli, si chiude l’accordo tra il governo greco e le istituzioni della Ue. Nella memoria è la notte in cui si consuma ciò che il giornalista del Guardian Ian Traynor definirà un extensive mental waterboarding subito da Tzipras a opera di Merkel e Hollande, con il giovane premier che butta la giacca sui tavoli di Bruxelles, “prendetevi anche questa”, mentre in rete si insegue il tweet. #TspirasLeaveEUSummit (Tsipras abbandona l’Eurosummit). È la conclusione di una tragedia greca contemporanea ambienta nell’epoca del dominio della finanza, climax di un percorso traumatico che si è trascinato per mesi, dopo la vittoria del partito di sinistra Syriza al governo del paese. Segnerà la crisi, a questo punto irreversibile, di un sistema complessivo di punti di riferimento, rendendo ostile lo spazio europeo nel quale prevalgono le previsioni unilaterali di grandi apparati totalitari. Per molti, è proprio tra tali rovine che prenderà vita, nonostante tutto, una nuova consapevolezza e un nuovo desiderio di pensare il cambiamento. 

 

Parto da qui per introdurre la lettura del libro di Paul Mason, giornalista britannico di Channel 4, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, pubblicato in Italia da Saggiatore dopo l’edizione inglese dello scorso anno per Penguin. Scrive Mason nell’introduzione al libro: “Come dimostra l’esperienza greca, un governo che scelga di sfidare l’austerità andrà istantaneamente a scontrasi con le istituzioni globali che proteggono “l’Uno per cento”. Dopo la vittoria elettorale del partito di sinistra radicale Syriza, già nel gennaio 2015, la Banca centrale europea […] stacca la spina scatenando una fuga dei depositi da 20 miliardi di euro e costringendo il governo di sinistra a scegliere tra bancarotta e sottomissione”. E, aggiunge, si lascia che sia lo Stern, un periodico tedesco di destra, a spiegarlo bene al mondo: “hanno demolito la Grecia”. Lo scopo, altamente simbolico, serve a rafforzare il messaggio centrale del neoliberismo, cioè l’assenza di alternativa agli ordinamenti attuali (il there is no alternative di thatcheriana memoria).

 

Il “mondo grigio di strade sporche” del versante moldavo del fiume Dnestr, con anziani accovacciati a vendere rape e formaggio è “prodotto dal capitalismo, non dal comunismo”. Ci troviamo all’apice della realizzazione del disegno d’ordine delle élite finanziarie globali, apparentemente prigionieri di un dispositivo che non esita a reggersi sulle guerre ma è altresì capace, come molte volte abbiamo sottolineato, di penetrare al di sotto della soglia di soggettivizzazione, e che per garantirsi le condizioni della propria perpetuazione non esita a forzare, crudamente, la sfera della riproduzione, emozioni e affetti, facendo della colpa e della paura i baricentri dell’universo sensibile contemporaneo. Eppure, la mitologia di invincibilità del brave new world neoliberale è, appunto, solo una costruzione che può essere smontata, contando sulla sfasatura “tra sistemi di mercato e un’economia basata sull’informazione”, promette Mason.

 

I quadri rigidi delle ideologie novecentesche della “sinistra” e molti bagagli teorici connessi faticano a reggere, l’intelaiatura scricchiola, soggetta agli sfondamenti continui operati da un capitalismo dal comportamento modulare, adattativo e complesso, che ha fatto della frammentarietà, della temporaneità e della scala ridotta la propria forza. Le figure sociali che si muovono in questo spazio globale componibile fanno esperienza di una pauperizzazione trasversale della società che tende a confondere i confini di classe, sparigliando, soprattutto in determinati contesti, perfino i piani della più classica delle classiche separazioni, quella tra capitale e lavoro; la crisi economica si trasforma e innesca la crisi sociale ma non gli esiti eclatanti di una rivoluzione che assomigli a ciò che abbiamo conosciuto in altre epoche. L’autore insiste sul punto: “negli ultimi venti anni a crollare è stato il progetto della sinistra: il mercato ha surclassato la pianificazione, l’individualismo ha sostituito il collettivismo e la solidarietà, e la forza lavoro mondiale allargatasi enormemente ha le sembianze di un “proletariato” ma non pensa e non si comporta esclusivamente come tale”.

 

Il terreno è cambiato, il vecchio sentiero perduto, la classe operaia si ritrova espropriata di un ruolo di traino che si avvaleva della fabbrica come incubatore di forme alternative di democrazia: “l’intera società oggi è una fabbrica e le reti di comunicazione vitali per il lavoro quotidiano e per il profitto brulicano di sapere condiviso e malcontento”. Tuttavia, proprio questi cambiamenti strutturali non incrinano ma rafforzano l’urgenza di un progetto postcapitalista che dovrà essere condotto da un movimento molto più ampio, “per il quale avremo probabilmente bisogno di nuove etichette”, e da un nuovo agente del cambiamento storico: “l’essere umano istruito e connesso”. 

 

Onda su onda

 

Le complessità del passaggio non devono scoraggiare né indurre alla mera difesa identitaria. La base stessa del capitalismo cognitivo, l’essenza fondante del capitalismo contemporaneo, cioè le tecnologie digitali e l’intelligenza di rete, ciò che fino a ieri l'altro l'ha sostanziato e giustificato, rappresentano certamente l’apice del processo di sviluppo neoliberale ma anche il limite irreversibile del sistema e degli schemi che ha seguito negli ultimi duecento anni. Per arrivare a questa tesi Mason si avvale, nella prima parte del libro, di una ricostruzione estremamente dettagliata delle varie fasi di espansione del capitalismo attraverso il ricorso a molta letteratura economica classica. Nikolaj Kondrat’ev, innanzitutto. L’economista, incaricato della pianificazione dal sistema sovietico negli anni Venti, individua cicli economici discretamente regolari, di circa cinquant’anni, e dunque fasi diverse di sviluppo del sistema capitalistico governate da nuovi paradigmi tecnologici, capaci di fare superare al capitalismo il peso delle proprie crisi. Un’intuizione che rompe per sempre con l’idea che la creazione di ricchezza dipenda da fattori “naturali”: per il sistema capitalista si tratta sempre più di coniugare macchina e lavoro, di strappare, attraverso la mediazione tecnologica, la massima produttività dal lavoro, in un crescendo che punta a svuotare i conflitti laddove essi si creano. La capacità di reazione del capitalismo industriale di fronte alle proprie crisi cicliche passa dal “cambiamento di forma”, dalla metamorfosi del paradigma tecnologico verso nuove traiettorie tecnologiche, dall’invenzione trasfiguratrice. Cicli o fasi, come onde, che sfruttano il momento ascendente dell’innovazione per uscire dalla risacca di quello precedente e disegnano efficacemente la parabola delle trasformazioni che hanno consentito al sistema di riconvertirsi e di sopravvivere, dalla rivoluzione industriale a oggi. 

 

Questo processo di tensione innovativa del capitale diverrà “distruzione creatrice” della crisi, nell’interpretazione di Schumpeter, con “imprenditori e innovatori” come “elemento trainante di ogni ciclo, mentre le fasi di rottura sono l’effetto dell’esaurimento dell’innovazione”. Ed è soprattutto Marx che spiega come il capitale sia costantemente costretto a innovare per ritrovare il proprio profitto, spingendosi verso una ricerca progressiva del macchinico che ha significato, nel tempo, l’aumento progressivo della quota di capitale costante e la diminuzione di quella del lavoro (capitale variabile). E poiché, noi chioseremmo, è dal lavoro che il capitale estrae ricchezza, la riduzione crescente del lavoro (labour saving) attraverso l’innovazione già prefigura un primo problema: il capital intensive riduce il profitto e in qualche modo già innesca l' autodistruzione del capitalismo stesso. 

 

In tutto questo, gioca un ruolo la soggettività antagonista che si muove all’interno dei processi di aggiornamento tecnologico, sviluppo immanente al capitale: la macchina non serve solo allo sviluppo oggettivo ma è anche determinata dal capitale per accentuare la subordinazione del lavoro. Sono allora, per lunghi decenni, i conflitti che si intessono sul terreno del lavoro a determinare questi salti in avanti. In effetti, il vuoto di prospettiva nel quale si aggira, a tentoni, il capitalismo neoliberista, è anche sintomo della crisi del proprio antagonista storico, degli “splendidi piantagrane” che, dagli esordi, gli hanno conteso la strada. Mason parla di “sconfitta e resa morale del movimento operaio”. Operazione condotta a suon di “delocalizzazioni, deindustrializzazione, leggi antisindacali e una guerra ideologica senza quartiere”. E tuttavia questa apparente impasse della soggettività, resa precaria e posta fuori dai confini della fabbrica, è anche l’esplicita figurazione, immaginifica, dell’ingresso in una nuova fase, quella della possibilità delle forme di autorganizzazione che possano darsi esattamente al di fuori della mercificazione del lavoro, laddove l’estremo movimento del capitale l’ha posta: le tecnologie informatiche rendono possibile l’orizzonte dell’abolizione del lavoro, il lavoro perde centralità, l’automazione può ridurre il lavoro a quantità esigue, facendone un optional. 

 

Ciò che Mason chiama postcapitalismo è la presa d’atto del disfacimento del capitalismo a partire dallo scompaginamento della legge del profitto e la crisi della teoria del valore e a partire dalle innovative valenze implicite nelle sue stesse infomacchine che introducono gli effetti del “costo zero” e lo scenario della gratuità, così come la difficoltà a creare nuovi mercati quando quelli vecchi si sono esauriti: “quello a cui assistiamo è un infocapitalismo che cerca affannosamente di sopravvivere […]. Un’economia basata sull’informazione con la sua tendenza a generare prodotti a costo zero e diritti di proprietà deboli non può essere un’economia capitalistica”. È, insomma, la focalizzazione di un processo, inarginabile, di transizione verso un Altrove.

 

 

 

Orfani dei “piantagrane”

 

Fino a un certo punto di questa storia che Mason ricostruisce con ritmo appassionante, l’innovazione ha rappresentato un meccanismo di compensazione e ha consentito al capitalismo di uscire dai propri inverni, di riprendere l’onda e, di nuovo, il largo. Oggi questa dinamica, dice l’autore, si è inceppata. Il capitale –

 bisogna sottolinearlo anche se le argomentazioni sono attraenti – ancora resiste, non molla, pretende di farsi umano (capitale umano), penetrando dentro il lavoro, cioè nei corpi-mente che sono i mezzi di produzione contemporanei che interagiscono con le infomacchine, cercando di rendere produttivo ciò che prima non lo era e allargando, in modo pressoché smisurato, smarginato, scomposto, il bacino del lavoro e il tempo al lavoro dedicato (riproduzione sociale produttiva). 

 

Questo ultimo passaggio sbatte, scrive Mason, contro ciò che André Gorz chiamava “i limiti della razionalità economica”: oltre un certo livello, “la vita e le interazioni umane oppongono resistenza alla mercificazione”. Nel frattempo, la rivoluzione digitale, l’ultimo cambio di paradigma tecnologico di Monsieur le Capital, ha aperto la porta al general intellect, figurazione del limite del capitalismo, della nemesi, del punto di rottura. Intelletto generale, dinamica istintivamente cooperante che gode dell' accumulazione algoritmica della conoscenza resa possibile dalla connessione e porta con sé la creazione di “un’umanità reticolare interconnessa”, una classe operaia sublimata, come la definisce Mason, intellettualità di massa come qualità pervasiva di tutto il lavoro, al di fuori di ogni antica segmentazione settoriale. Sia chiaro, Mason non banalizza le differenze esistenti nei quattro angoli del mondo tra lavoratori alle prese con la divisione internazionale del lavoro e la descrive con abbondanza di particolari. Ma preferisce insistere sul tratto comune, straordinariamente ricompositivo, rappresentato dalla relazione consentita dalle infomacchine: “grazie agli smarthphone ogni operaio cinese si porta in tasca un internet caffè”, il che significa social network, messaggistica istantanea e microblogger. Una massa immensa di persone con interessi diversi è potenzialmente riunita da tali motori e dalla propria enorme insoddisfazione per il sistema. Il terreno della battaglia è diventato la vita, sono i corpi, è la fabbrica sociale, oltre il lavoro, cosicché l’agente del cambiamento è l’abitante della terra, l’essere umano. 

 

Goodbye, Capitalism

 

“Viviamo in un momento di possibilità: la possibilità di una transizione controllata per andare oltre il mercato, oltre gli idrocarburi, oltre il lavoro obbligatorio”, scrive l’autore nella terza parte del libro propriamente dedicata al progetto postcapitalista, dopo un lungo excursus che serve a sostenerne il lancio, quasi un manifesto. 

Ultimamente si sono raccolte realistiche descrizioni della crisi, quadri sull’aumento della povertà e delle diseguaglianze, analisi sulla sconfitta e sulla fragilità dei soggetti precari contemporanei, succhiati fin dentro l’anima dal capitalismo e indotti ai compromessi, ci siamo rattrappiti a pensare (a sperare) che il cambiamento potesse passare da qualche forma di rappresentanza, siamo stati impegnati a inseguire “lavori del cazzo, mal retribuiti e svalorizzanti” (per dirla con David Graeber), oppure abbiamo vissuto con la “preoccupazione costante di perdere tutto”, abbiamo provato ansia e tristezze. Questo libro ha il pregio indubbio di esplicitare tali consapevolezze e sensazioni diffuse e il coraggio di strutturare una proposta su come provare a uscire da una serie di gorghi (e non è facile).

 

La letteratura neo-operista italiana ha già delineato alcuni passaggi, offerto chiavi di lettura; le tesi sul capitalismo biocognitivo, per chi le conosce non astrattamente, stanno alla base di tali possibili tendenze, in potenza. In effetti, le stesse domande su possibili exit strategy, su alternative, processi autorganizzativi, pratiche di cooperazione sociale, autogestione e mutualismo che alludono alla riappropriazione di attività di produzione, riproduzione e distribuzione, si inseguono e girano, ultimamente, a partire anche da tale background, proprio in tali variegati contesti di pensiero. 

“Non fatevi prendere dal panico” di fronte alla complessità del disegno, suggerisce Mason, il capitalismo ha solo duecento anni, possiamo spingerci a immaginare un mondo che ne veda il superamento senza che tutto intorno a noi crolli. “I socialisti del primo novecento erano fermamente convinti che qualsiasi atto preparatorio fosse impossibile all’interno del vecchio sistema: abbandonare questa convinzione è la mossa più coraggiosa che possa fare una sinistra capace di adattarsi al nuovo. È perfettamente possibile costruire per parti gli elementi del nuovo sistema all’interno del vecchio”. E incalza: “dobbiamo smetterla di guardare a tutto questo come a elementi pittoreschi, dobbiamo promuoverli con una regolamentazione decisa, […] dobbiamo costruire alternative all’interno del sistema, concentrare le nostre azioni verso un percorso di transizione, non su una difesa raccogliticcia di qualche elemento del vecchio sistema”.

 

Mason si porta molto in là, immaginando la socializzazione dei sistemi bancari e dell’energia, una banca centrale attenta alla sostenibilità, una moneta fiduciaria, “la conservazione di un settore privato il più esteso possibile nel mondo non finanziarizzato, aperto a un ventaglio di imprese diverse e innovative”; “un settore pubblico che può esternalizzare alcune funzioni a imprese private ma senza lasciare loro la possibilità di competere su salari e condizioni di lavoro”; "modelli di impresa collaborativi il cui l’assetto legale poggi su una forma di produzione e di consumo realmente collaborativo e con risultati sociali visibili”. 

Il reddito di base è un architrave del sistema, come forma di perequazione al dumping salariale nella prima fase del progetto postcapitalista, mentre l’obiettivo finale resta “ridurre al minimo le ore necessarie di lavoro per produrre solo ciò di cui l’umanità ha bisogno, con salari che diventerebbero sempre più sociali sotto forma di servizi forniti collettivamente o sparirebbero”.

 

Può essere tutto discusso e discutibile ma certamente si tratta di una fatica apprezzabile nella ricerca di una vita diversa, intorno alla quale aumentano, nel tempo, gli sforzi di elaborazione.

“Dobbiamo essere utopisti senza vergogna”, afferma Mason. Da questo punto di vista, ragionando su diverse ambiguità non risolte del progetto postcapitalista, mi sembrano calzanti le osservazioni di David Graeber dedicate alla strategia delle recenti “notti in piedi” parigine e ai vari movimenti occupy che si ripropongono, a ondate, in questi anni, nelle piazze di varie parti del mondo: “Creare un territorio completamente al di fuori del sistema e, se possibile, al di fuori dell’ordine legale dello stato: uno spazio prefigurativo in cui nuove forme di democrazia diretta possano essere immaginate”. 

Fragile, per non dire impossibile, il fuori. D’altro lato, debole appare ciò che Mason scrive a proposito dello Stato: “probabilmente il suo potere diminuirebbe nel tempo e alla fine le sue funzioni verrebbero assunte dalla società”, né, a mio avviso, sarebbero la stessa cosa un progetto postcapitalista anarchico, uno statalista oppure uno di destra. Dunque qui ci resta, effettivamente, un nodo fondamentale non sciolto, una aporia – e, aggiungo a margine, anche i riferimenti alla “sinistra” sono vaghi e spesso il termine viene usato per classificare sia il marxismo più ortodosso che il pensiero di Negri e Hardt che disposizioni più “socialdemocratiche”. 

 

Dal mio punto di vista, la crisi dell’ideologia proprietaria del neoliberismo, legata alla sofferenza esistenziale che genera e che dà origine all’urgenza obbligata di contendere al capitalismo biocognitivo la potenza del General intellect, non può non passare dal dibattito sul comune, forma della condivisione e della distribuzione degli attributi dei diritti proprietari, di resistenza e di alternativa all’esistente, “oltre il privato e il pubblico”. Inoltre, temo, l’economia finanziaria non si farà così facilmente addomesticare: “Di fronte a un sistema finanziario che rappresenta la forma più astratta e distaccata del comando nel momento stesso in cui investe concretamente la vita intera, il comune rappresenta il bisogno di ritrovare un’indispensabile forma di convivenza e di mutuo sostegno […]. È ambiguo far credere che uno zoccolo duro capitalista, come per esempio quello del controllo delle energie fossili, si trasformi magicamente senza che alcuna lotta intervenga” (Giorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, 2016: 188-192).

 

La discussione su questo terreno prosegue, si mantiene vivace, cito un testo collettivo curato da Benjamin Coriat che vede tra i contributi anche quello di Michel Bauwens, noto teorico del P2P, Le retour des Communs. La crise de l’idéologie propriétaire, Les liens qui libèrent, 2015.

In tutti i casi, nelle differenze, ciascuna di queste disposizioni di ricerca creativa itinerante, innestate direttamente sui bisogni della società, sono il contrario dell’antipolitica, anzi ne rappresentano il contravveleno: la Politica con la P maiuscola, nell’era dell’intelletto generale e della cooperazione, è più che mai la potenza immanente, creativa, alla dimensione sociale – mentre talune rivisitazioni dell’“autonomia del politico”, declinate di questi tempi, sembrano più dettate dalla voglia di ripararsi che di avanzare da qualche parte.

 

 

Mi convince soprattutto la spinta utopica a cui si appella Mason, intesa come voglia di sperimentare, di praticare, come necessità di mettere a critica la vita quotidiana, dato il suo sottosviluppo, e di trovare le modalità per riprendercela. La mescolanza di violenza e ontologia del capitalismo globale contemporaneo è un fatto completamente nuovo, spiazzante. Nessuna protezione è data dalla storia e ultimamente sembra mancare una narrazione che sappia appassionare profondamente, restituendo pensiero e fiducia. Eppure, da più parti, e in modi diversi, affiorano varchi e sforzi dell’immaginazione a cui dovremmo prestare più attenzione e critiche più costruttive, osando perfino l’ebbrezza di farci pervadere da qualche vigore e passione felice. Su tale versante si avanza tra slittamenti e asperità del terreno, tra sprazzi di visione e incertezze dell’orizzonte ma è precisamente qui che si cimenta un nuovo ordine del discorso all’altezza di tempi interessanti come lo sono quelli in cui si è costretti a spingersi fuori, in avanti, a cercare, a pensare, a desiderare ancora.

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