Danilo Donati, costumista da Oscar
Una performance percorre l’Europa: Embodying Pasolini, dopo Roma (spazi del Mattatoio, 25 giugno 2021) è approdata a Parigi (Festival d'automne, 9 settembre - 31 dicembre 2022) e ci si augura, viaggerà ancora.
Ad idearla sono stati Olivier Saillard e Tilda Swinton che l’ha anche interpretata. Lo storico della moda ha scelto di mettere in scena quaranta costumi disegnati da Danilo Donati (6 aprile 1926 – 2 dicembre 2001) per alcuni film diretti da Pier Paolo Pasolini: Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini, Edipo Re, Porcile, Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Nella drammaturgia inscenata da Saillard e dalla Swinton protagonisti assoluti dell’agire, in luogo dei personaggi normalmente interpretati dagli attori, sono invece i costumi di Danilo Donati. Ed è proprio attorno ad essi e con essi che accade l’azione performativa: la pluripremiata attrice scozzese li estrae dagli scatoloni in cui sono riposti, li indossa o li fronteggia, interagisce con essi, li accarezza, li culla, li anima, oppure li contempla, li fa vivere, insomma, come se, anziché ‘cose’ essi fossero persone o, meglio, come se i personaggi in scena fossero proprio loro: abiti in assenza dei corpi. Nella performance non vi è trama, né vicenda e neppure si può dire vi sono rispettate le unità aristoteliche di azione-spazio-tempo che da secoli presiedono il teatro e delle quali i costumi-protagonisti celebrano proprio la mancanza. Svuotati dai corpi degli attori, essi si ergono a simulacri di quelle assenze. Sono, insomma, monumenti di bellezza in quanto tale.
Realizzati dalla sartoria Farani, nella cui sede romana la maggior parte di essi si conserva, alcuni non erano mai più stati mostrati dopo le riprese dei film per i quali il maestro li aveva creati, altri, invece, si era potuto ammirarli nella mostra (2014) Trame di cinema. Danilo Donati e la sartoria Farani costumi dai film. Il catalogo che la accompagnava (Silvana Editoriale, pp. 144, € 20) è oggi l’unico testo scritto sul magnifico Donati reperibile in commercio, essendo ormai introvabile quello relativo alla rassegna romana, che si era tenuta al Complesso del Vittoriano nel 2002, a un anno dalla scomparsa del maestro, intitolata L’arte di Danilo Donati. Scene e costumi per Benigni, Fellini, Pasolini, Zeffirelli.
Compaesano di Cesare Zavattini, anch’egli infatti è nato a Luzzara (RE), Danilo Donati si è formato prima all’Istituto d’Arte di Firenze e quindi all’Accademia di Belle Arti della stessa città, dove ha frequentato l’atelier di Ottone Rosai. Compagno di studi di Franco Zeffirelli, sarà a partire dalla fine della guerra che inizierà quasi per caso a lavorare nel mondo dello spettacolo, dapprima con Luchino Visconti, per alcune opere liriche alla Scala di Milano, in qualità di assistente di Lila De Nobili e di Maria De Matteis, quindi a Roma, ivi chiamato dagli amici di gioventù, primo fra tutti proprio Zeffirelli. Ma è nel 1959, che esordirà nel campo del cinema, il suo habitat d’elezione, e lo farà alla grande, nientemeno che sul set di quel capolavoro che è La grande guerra di Mario Monicelli, vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero (1960), del Leone d’Oro e di innumerevoli altri premi.
Una vita da Oscar, quella di Danilo Donati, infatti lui stesso se ne aggiudicherà ben due, il primo nel 1969 per i costumi di Romeo e Giulietta del suo amico Zeffirelli e il secondo nel 1977 per i costumi di Il Casanova di Fellini, per cui aveva firmato anche la scenografia e l’arredamento. Ma l’Oscar a cui avrebbe tenuto di più, quello per i costumi di Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini, nel 1967, non gli venne assegnato, contrariamente ad ogni previsione e ad ogni sua aspettativa, avendogli la giuria del premio preferito la costumista americana Irene Sharaff per il film Chi ha paura di Virginia Woolf? diretto da Mike Nichols.
Così raccontava Donati a proposito dei costumi per questo film:
“Ma tutto quello che era ufficiale si è tentato di renderlo con l'iconografia; però non uguale ai santini: abbiamo preso come base una purezza di linee una purezza classica. Sai, i costumi sono stati fatti in un mese. E mi ricordo che è costato 10 milioni di costumi, che allora era già una cosa eccezionale. Ma il mio incontro con Pier Paolo è stato anche questo: che qualsiasi cosa noi facessimo a Roma, senza neanche vedere niente, quando si era sul posto funzionava subito.”
Tuttavia, sebbene con esse non abbia vinto alcun Oscar, le creazioni di Donati per tutti i film di Pier Paolo Pasolini sono degli assoluti capolavori, ricche come sono di citazioni tratte dal mondo dell’arte figurativa: ad esempio, pittoriche come nei costumi dei sacerdoti, dei magi e degli apostoli del Vangelo Secondo Matteo (1964), dove egli evoca gli affreschi aretini di Piero della Francesca, specialmente nei cappelli dalle ampie dimensioni e negli elmi dei soldati; tecniche, quali la tessitura al telaio nei costumi di Edipo Re (1967); formali, come nei costumi a "cartucciera" dei soldati protagonisti del martirio del sogno in Porcile (1969); materiche: la rigidità del feltro, il cangiantismo dei velluti e lo scintillio dei laminati in Il Fiore delle Mille e una Notte (1974), dove “gli elmi, le lance di metallo argentato, le tuniche e i mantelli di lana e ciniglia tessuti a mano rivelano la straordinaria capacità inventiva di Danilo Donati” (R. Chiesi); fino a raggiungere il minimalismo dell’arte concettuale, il Less is More maesiano negli abiti da lui progettati per Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).
Così raccontava lo stesso Donati a proposito dei costumi per Edipo Re:
“Per l’Edipo [Pasolini] mi ha detto: ‘Vorrei dei costumi ispirati agli Incas’. Io non tremo mai di fronte a un paradosso, perché sono un paradosso per natura. Io, invece, gli ho fatto una cosa tutta diversa. Mi disse: ‘Era questo che volevo.’ Ho fatto una cosa che non mi aveva chiesto.”
Farani racconta: “Nell’Edipo credo non sia stato adoperato neanche un metro di stoffa normale, fatta a macchina comprata dalle manifatture, tutta è stata lavorata a mano, in maniera artigianale. I materiali usati erano diversissimi: c'era la pelle, il rame battuto, la lana. Usavamo anche il sughero per certi copricapi, usavamo per altri abiti tessuti larghi sempre fatti a mano e poi c'erano collane pesantissime di piombo e conchiglie.”
Danilo Donati creava i suoi costumi direttamente con la stoffa, sui manichini, senza eseguire i cosiddetti figurini preliminari, attratto com’era dalla tattilità della materia e sensibile com’era al suo colore. Tutt’al più, quando gli veniva un’idea, la fermava sul foglio con rapidi schizzi, dei semplici appunti visivi affinché non gli sfuggisse, ma poi, come fanno gli scultori, la sviluppava subito nel volume. Infatti, sebbene egli traesse spunto, come già detto, dalla pittura del nostro Rinascimento, operava nello spazio traslando quelle suggestioni bidimensionali nella terza dimensione alla quale i suoi costumi, giocoforza, dovevano appartenere.
“Un sognatore di cinema come pochi” ha scritto di lui Vincenzo Cerami “che inventava a colpi di folgorazione: insieme artista di rara finezza e sensuale manipolatore della materia."
A tale proposito, per realizzare alcuni suoi costumi si dovettero addirittura ‘inventare’ delle macchine, come quella per la plissettatura che venne usata per i costumi del Satyricon di Fellini. Così, in proposito, racconta Luigi Piccolo, attuale responsabile della Sartoria Farani:
“L’estro creativo di Donati è stato talmente esplosivo da contraddistinguere ogni film, ogni spettacolo con un segno preciso ed unico. Basti pensare che per il Satyricon di Federico Fellini venne creata una enorme pressa (da noi, in sartoria, ribattezzata la macchina infernale) utilizzata per plissettare a mano chilometri di cotone e seta, una vera fucina d’altri tempi. Per quanto riguarda il Casanova, sempre di Fellini, che ha vinto l’Oscar per i costumi nel ’77, è interessante notare come nello stesso film convivono mondi diversi per fogge e colori. La scena a casa della marchesa d’Urfè è raccontata con impalpabili taffetà nei toni pastello, i costumi della gara di sesso nella casa romana, ancora di sapore seicentesco rispetto agli altri, sono di vistosi velluti e rasi colorati, decorati a motivi geometrici. E ancora la cena di Parma tutta giocata sui neri, forme essenziali decorate con enormi rouches di paillettes.”
Ma quello per la plissettatura non fu l’unico marchingegno inventato per realizzare i suoi costumi per i film. Infatti, per il cortometraggio La ricotta di Pier Paolo Pasolini (1963), Donati e Farani insieme costruirono un telaio arcaico per poter tessere trame tribali; i tessuti ottenuti venivano poi tinti "in grandi pentoloni bollenti con colori inusitati. […] Fin da questo primo film, la ricerca dell'arcaicità della materia, che Pasolini privilegiava e voleva catturare con la macchina da presa, si coniugava quindi alla sperimentazione di colori inusitati." (Piccolo)
In questo corto, inoltre, il personaggio di un regista, interpretato da Orson Welles, inseguendo un suo progetto estetico, ricreava in tableaux vivants tanto la scena della Deposizione del Rosso Fiorentino che quella del Pontormo, in cui i figuranti dovevano restare perfettamente immobili, indossando costumi donatiani identici a quelli dei quadri. Protagonista principale sia dei tableaux vivants pasoliniani che delle opere manieriste, è ovviamente il panneggio, reso a colpi di pennello e di lumeggiature nelle tavole dipinte, mentre nel film è ottenuto con dei panni il cui drappeggio viene sorretto con del fil di ferro, esattamente come si usa fare in scultura, nella modellazione della terracotta, per costruire il volume. Ancora una volta, dunque, Donati, attinge a piene mani al mondo dell’arte, al quale il suo lavoro appartiene senza ombra di dubbio, perché, per dirla ancora con Cerami, egli è “un artista di rara finezza”.
Un altro Oscar mancato ai suoi costumi è quello per il Pinocchio (2002) di Roberto Benigni, costumi ai quali il nostro stava lavorando quando morì.
"Danilo dovrebbe vincere l'Oscar per i costumi e le scenografie” ha dichiarato lo stesso Benigni, “è lui il vero artefice del mio Pinocchio; un divino fanciullo, mezzo dio e mezzo uomo, costruttore di scenografie meravigliose, fondamentali per i miei film. Erano come la terra, il nostro nutrimento."
Quelle di Danilo Donati sono state “invenzioni figurative che sarebbe stato impossibile concepire senza il suo talento, e che hanno radicalmente sovvertito la qualità visiva del cinema italiano, proiettandolo a vette di fantapoesia che nessun effetto speciale riuscirà mai ad eguagliare.” Così ha scritto di lui Gianfranco Angelucci su Trame di Cinema.
Le creazioni di questo irraggiungibile maestro di creatività si conservano in parte a Roma nella Sartoria Farani; altre sono nel Fondo Donati istituito dai suoi eredi; altre ancora sono presso l’Archivio Cinemazero-Images, del Fondo P.P. Pasolini di Bologna; altre nella Fondazione Fellini di Rimini; qualcuna è nell’archivio Tirelli a Roma; qualcuna ancora è nel Fondo Piero Farani allo CSAC di Parma; qualcun'altra è alla Fondazione Massimo e Sonia Cirulli di San Lazzaro di Sevena (Bo); ed altre ancora, quelle per gli spettacoli televisivi, si conservano nelle Teche Rai.