D’Arrigo riscrive Gogol’

22 Febbraio 2024

È l’alba del 30 gennaio 2024, potremmo dire scimmiottando l’incipit dell’opera, quando Rizzoli dona al pubblico dei lettori un testo di Stefano D’Arrigo rimasto troppo a lungo nel cassetto dello scrittore prima, e poi nel faldone 8 dell’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del “Gabinetto Vieusseux”. Si tratta di Il compratore di anime morte, «libera riduzione», come la chiama lo scrittore, della celebre opera di Nikolaj Gogol’, che vede finalmente la luce grazie alla curatela di Siriana Sgavicchia, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università per stranieri di Perugia. 

Stefano D’Arrigo è figura ben nota nel panorama letterario, eppure autore che non ha ancora ricevuto la considerazione che meriterebbe. Nasce ad Alì Terme, in provincia di Messina, nel 1919, ma trascorre la maggior parte della sua vita a Roma, lontano dalla terra siciliana (dato centrale per la sua produzione letteraria tutta), dove vive con la moglie Jutta Bruto, figura fondamentale per l’uomo e per lo scrittore. Lavora come giornalista e critico d’arte, intrattenendo rapporti di amicizia con artisti e intellettuali e, in particolare, con il suo conterraneo Renato Guttuso, che risulterà di particolare importanza per l’opera appena pubblicata. 

Esordisce nel panorama letterario con un libretto di poesie intitolato Codice Siciliano, che esce per la prima volta nel 1957 per Scheiwiller e con il quale si aggiudica il Premio Crotone. L’opera vedrà poi una seconda edizione nel 1978 con Mondadori, nella prestigiosa collana dello Specchio.  

Già durante gli ultimi anni dedicati alla raccolta poetica, D’Arrigo comincia però a lavorare a quello che poi si rivelò un vero e proprio caso editoriale: la pubblicazione di Horcynus Orca, che avviene finalmente nel 1975, dopo un lavoro di gestazione quasi ventennale, e con immenso sforzo dell’autore e di Mondadori, da sempre grande sostenitrice dell’opera. 

Nel 1985, questa volta senza il clamore mediatico che aveva accompagnato il romanzo precedente, dà alle stampe Cima delle Nobildonne, opera totalmente diversa per lingue e tematiche, ma che conserva, per dirla con Wittgenstein, una certa Familienähnlichkeit, una somiglianza di famiglia che lega tra loro tutte le opere dell’autore di Alì, Compratore incluso. 

Oggi, in un’atmosfera che sembra profumare di lenta riscoperta dello scrittore siciliano, dopo l’uscita nell’ottobre dello scorso anno della traduzione francese dell’Horcynus, ad opera di Antonio Werli, e quasi traghettandoci dolcemente verso l’occorrenza del cinquantenario dell’uscita del romanzo orcinuso, Rizzoli rende disponibile un nuovo e originalissimo capitolo della storia letteraria darrighiana, con una postfazione di Siriana Sgavicchia che fa luce su questo nuovo colpo di coda dello scrittore siciliano. 

L’opera, a dire la verità, era già stata dischiusa al pubblico dei darrighiani nel 2017, nel bellissimo libro di Daria Biagi, Orche e altri relitti, cui va il merito di averne proposto un’analisi dal grande acume critico-interpretativo. 

Il testo è la riproduzione fedele di un dattiloscritto non datato, dal titolo Il compratore di anime morte. Da “Le anime morte di Nikolaj Gogol’, contenuto nel Fondo D’Arrigo, donato dalla moglie dello scrittore nel 2007 all’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti. 

La scrittura è collocabile tra l’immediato dopoguerra e la prima metà degli anni ’50, cioè certamente prima che lo scrittore fosse assorbito dalla pubblicazione di Codice Siciliano e, ancor di più, dal lavoro per la prima stesura di Horcynus Orca, che divenne poi totalizzante.

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Guttuso - Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio.

Si tratta molto probabilmente di una sceneggiatura per il teatro o per il cinema, che l’autore potrebbe aver ripreso anche negli anni successivi alla pubblicazione del suo romanzo maggiore. Tuttavia, la comicità del racconto, le modalità di rappresentazione degli episodi, la lingua e i riferimenti al mondo del teatro sembrerebbero renderlo più verosimilmente tarato per il primo, piuttosto che per il secondo. 

Riscrivendo il capolavoro gogoliano, D’Arrigo racconta le vicende di un «figlio della Madonna», Cirillo Docore, un trovatello di trent’anni che vive ancora in un ospizio a Napoli, dilaniato dal desiderio di avere una famiglia. Cirillo lavora gratuitamente come scrivano per l’Istituto della Real Beneficenza e un bel giorno, scoperta la paradossale esistenza delle anime morte, concepisce il piano di diventare ricco acquistandole e poi rivendendole come se fossero ancora vive. Il protagonista, ottenuto un po’ per caso e un po’ per furbizia il titolo di principe, decide quindi di imbarcarsi per la Sicilia, dove tutti «Muoiono come le mosche», «Li buttano a mare. Malattie, fame, fucilazioni», insomma dove di anime morte era sicuro ce ne fossero a volontà. 

La vicenda si svolge dunque per la quasi totalità nella terra madre di D’Arrigo, e il lettore assiste alle avventure di Cirillo, versione napoletana e sentimentale di un Cicikov abbastanza simile all’originale, ma dall’animo più genuino e meno interessato al denaro. 

Dalle vaste e verdi campagne russe alle più ristrette e spoglie campagne siciliane e, soprattutto, dalla prima metà dell’800 russo al 24 dicembre 1859, quando ha inizio la narrazione, che si conclude poi l’11 maggio 1860, giorno dello sbarco dei Mille a Marsala. Di conseguenza, dalla povera e decaduta aristocrazia russa all’altrettanto povera e decaduta aristocrazia siciliana, negli ultimi respiri del regno borbonico. 

Considerata la variazione del contesto però, la riscrittura darrighiana si mantiene in sostanza molto fedele all’originale gogoliano. Simili, infatti, sono i personaggi e le vicende del Cicikov darrighiano, così come simile rimane la caratterizzazione comico-grottesca. Vengono meno, invece, le lunghe ed eleganti descrizioni delle campagne russe, in ragione di una riduzione che è al tempo stesso geografica e letteraria. Inoltre, invenzione darrighiana è anche la famiglia Traina e in particolare il personaggio di Rosalia, la giovane contadina siciliana di cui si innamora il protagonista e che contribuisce al raggiungimento di quel lieto fine che rappresenta la più grande differenza rispetto all’opera originaria. 

Ma perché D’Arrigo, negli anni che seguono il secondo conflitto bellico mondiale, decide di riscrivere Le anime morte, ambientandole nel Risorgimento italiano? È proprio a questo punto che ritorna utile quel Guttuso che abbiamo citato ad apertura di testo e che troviamo qui in due opere per noi estremamente interessanti: la Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio del 1951, conservata nel museo degli Uffizi e in un’opera finora pubblicata soltanto su catalogo, uno studio preparatorio della stessa battaglia, che Guttuso donò all’allora amico D’Arrigo e che potrebbe rappresentare proprio Cirillo.

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Guttuso, Studio per Battaglia. Dalla collezione privata di Stefano D'Arrigo. Si ringrazia l'ingegner Maurizio Acri per la gentile concessione.

Com’è noto, il pittore siciliano dipinse l’episodio risorgimentale per legare gli ideali di lotta e libertà della Resistenza contro il nazifascismo con quelli del processo che portò all’unificazione italiana. Per questo motivo, Guttuso riprodusse in alcuni soldati le fattezze di amici e compagni resistenti, dipingendosi egli stesso nel personaggio al centro del dipinto e, soprattutto, rappresentando proprio D’Arrigo nel corpo del contadino esanime nel primo piano.

È quindi probabile che il pittore fosse a conoscenza del lavoro dell’amico ambientato nel contesto risorgimentale e avesse voluto celebrarlo ponendolo in primo piano ed evidenziandone in particolare le mani, dalle quali tutto ebbe origine. 

Ecco allora che la scelta di D’Arrigo non dovrebbe esser stata diversa da quella dell’amico e di tanti intellettuali di sinistra del tempo. L’autore sceglie il grottesco e il contesto risorgimentale per rappresentare indirettamente anche le condizioni dell’Italia meridionale durante e dopo il secondo conflitto bellico. 

D’altra parte, quella Sicilia che nel Compratore D’Arrigo definisce «una regione abbandonata dal Re e da Dio» ha non poche analogie con quella all’indomani del ’43 raccontata in Horcynus Orca, anch’essa abbandonata dai Savoia e da un Dio che appare del tutto assente dalla mole del romanzo. In generale, infatti, sono molti i punti di contatto tra l’opera orcinusa e la riscrittura gogoliana (si pensi anche soltanto al viaggio da Napoli verso la Sicilia e alle tante analogie tra i due protagonisti). 

Leggendo le varie avventure di Cirillo, il lettore è portato ad associare l’opera al genere del romanzo picaresco. Così come, considerando anche la vicinanza dell’ambientazione cronologica e alcune analogie con il personaggio di Cirillo, talvolta il testo sembrerebbe richiamare Le avventure di Pinocchio.

D’Altronde, proprio come quest’ultimo, Il compratore non è riconducibile neanche al genere del romanzo di formazione, con il quale tuttavia D’Arrigo sembrerebbe comunque rapportarsi attraverso un filtro parodico che percorre tutta l’opera. 

Cirillo, infatti, ottiene il titolo di principe, ma, di fatto, senza portafoglio. Poi, diventa proprietario di un piccolo pezzo di terreno, totalmente sproporzionato al numero di contadini in suo possesso, la maggior parte dei quali, però, sono morti o fuggiti. Infine, completa il suo percorso di formazione con il finale dell’opera, quando, invece di dimostrarsi maturato, sono gli eventi a travolgerlo e a condurlo alla conclusione.

Proprio questo tratto parodico, tanto tipico dello scrittore, risulta di fondamentale importanza. Esso si applica anche alla stessa esperienza risorgimentale. «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», diceva D’Azeglio. E a cosa rimanda D’Arrigo in Codice Siciliano prima, e in Horcynus Orca poi, quando mette in evidenza il doloroso contrasto tra Sicilia e Italia, fera e delfino, siciliani e continentali? 

Ecco allora che la mancanza di un tono celebrativo e, anzi, la scelta del grottesco, non soltanto dimostrano la volontà di D’Arrigo di non fornire un racconto epico-eroico dell’esperienza risorgimentale, ma evidenziano il desiderio dello scrittore di mettere al centro del discorso la questione meridionale. 

L’ultimo punto da toccare, prima di lasciare il lettore al suo viaggio verso la Sicilia, riguarda la lingua dell’opera, che sicuramente si profila come la più accessibile tra i testi darrighiani. Essa risulta ben lontana dall’ambiguità poetica di Codice Siciliano, così come dall’idioma tutto da apprendere di Horcynus Orca e dalla lingua chirurgica di Cima. Si tratta infatti della fase iniziale di un processo di evoluzione linguistica compiuto dallo scrittore, che lo avrebbe poi portato al raggiungimento di una sua personale identità espressiva.

D’Arrigo, infatti, a differenza del romanzo orcinuso, scrive Il compratore utilizzando pochissimi termini in dialetto. Il suo è un italiano piano ed elegante, dalla grande capacità narrativa, che assume toni grotteschi, senza però scendere mai (o quasi) nella volgarità.

Una piccola ma rilevante curiosità (anch’essa sintomo di un D’Arrigo ancora alle fasi iniziali) risulta l’utilizzo massiccio delle virgolette alte doppie per esprimere significati traslati o per introdurre parole indicanti entità fittizie come appunto le anime morte. Questa pratica verrà infatti totalmente abbandonata dallo scrittore nei due romanzi successivi, a favore di un inserimento diretto e non marcato all’interno del testo (si pensi ad esempio a «orcarca» di Horcynus Orca o a «pseudi creatori» di Cima). 

Insomma, per concludere davvero, una lettura che si presenta molto piacevole, eppure tutt’altro che banale, e anzi aperta a diversi livelli di interpretazione, com’è tipico dell’opera darrighiana tutta.

«Fra gli armadi, i tavoli, le sedie» dell’Archivio Vieusseux, fortunatamente, non troviamo il cofanetto con i contratti delle anime morte che il vento porta via, ma questo dattiloscritto del Compratore, al riparo dal passare del tempo, che, magnanimo, il trentesimo giorno di gennaio ci consegna, di nuovo, un altro D’Arrigo. 

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