Tra le nostre montagne / Di cosa ci interroga il terremoto

15 Settembre 2016

L'appuntamento tra le nostre montagne e il terremoto ha assunto, nel tempo strutturato in memoria, cadenza secolare, e s'avvicina. L'ultima volta fu il 1920. La scossa che da poco ha distrutto diversi paesi dell'Appennino centrale ha il suono della campanella per chi, in cuor suo, sa che sarà interrogato. Scriverne ha l'unica funzione di riequilibrare una quotidianità che nella saturazione di immagini, notizie, cronache, denunce e solenni promesse – MAI PIÙ – ha annullato la questione fondamentale: il terremoto è, tra tante cose, un modo eclatante di riposizionare l'uomo sulla soglia del mistero della vita nella sua dimensione di assoluto. Vi giova sapere che non a causa di un moto di stizza di qualche divinità ma in virtù della placca africana che spinge contro quella asiatica qualcuno morirà? In quel momento, in quel luogo, proprio lì, proprio lui? Coraggio, vivere è una faccenda un po' più complessa della sua riduzione a un sistema normativo assicurativo. Accettarne il rischio, imponderabile, è il primo dovere dell'uomo e, nel caso lo pervada l'ansia di libertà, il rischio cresce. L'opzione servile, rimettendo le proprie responsabilità, non lo diminuisce ma permette la recriminazione, nel caso incita all'indignazione.

 

Il terremoto del 1920 portò desolazione e rovine. Subito oltre il crinale in un borgo in tutto simile al nostro la sorte si accanì con indolente malvagità. Crollò tutto, anche la chiesa parrocchiale. Nell'immediato i morti furono 17, il più vecchio aveva 77 anni, il più giovane 3. Morirono 2 sacerdoti che si apprestavano a una liturgia funebre. Si ricomposero i cadaveri, si piansero i morti, si officiò per le loro anime – il tempo del cordoglio e del lutto è fondante una comunità, l'invasione mediatica, famelica di pathos, può risultare più distruttiva dei crolli – poi si ricostruì secondo le possibilità, come sempre, ma si incatenarono le case e sopra porte e finestre vennero posizionati primitivi sistemi di armature in ferro. Si ricostruì con le vecchie pietre, muri sufficientemente ampi a consentire una provvidenziale elasticità. Dagli anni '70 si è costruito con ben altri mezzi e materiali, consegnando il terremoto nello spazio della normativa e dell'oblio. Affascinati dal futuro.

 

Solo chi non costruì in quegli anni fu esente dalla foga dell'eternit: un nome, una garanzia. Poi le cose, nella dimensione privata, sono migliorate in coincidenza di un momento di benessere economico. Più attenzione ai materiali, al recupero; la voglia e la possibilità di investire nelle vecchie case di famiglia o acquistate in un mercato che sembrava destinato ad una continua progressione. Quel momento è finito. Vendesi, in vendita, è ciò che rimane del sogno di una casetta nel borgo avito o almeno antico. Nella dimensione pubblica i lavori vengono assegnati con aste al ribasso. Cosa ci si aspetta? Un rialzo della moralità e del ben operare?

Una questione storica.

 

È stata un'estate affollata. Tutti coloro che possiedono una casa l'hanno aperta. Scansate le mete esotiche si è tornati alla villeggiatura domestica. Il terremoto ha accompagnato le ultime sagre, le ultime feste, ammantando di tristezze il ritorno alla normalità: lo svuotarsi dei paesi. Terremoti, alluvioni, frane, sono la connotazione geografica dell'Appennino ma ne esaltano la connotazione storica: uno scrigno d'arti, di fede, di generazioni. Trama di una civiltà sempre più lontana, che va a scomparire nella semplicità di un abbandono in parte imposto e subito, in parte dovuto, in parte voluto. Ridotta a funzione museale, l'illusione dei Parchi, l'ambivalenza del turismo. Sui monti il presente parla poco e in modo confuso. Balbuziente, verrebbe da dire, e si chiuderebbe il cerchio essendo l'Appennino l'ossatura del romanico: l'Europa nascente, barbarica, sull'Impero morente. La civiltà dei borghi non dell'Urbe.

 

Le pievi non le basiliche. I monasteri prima delle cattedrali e delle università e delle 100 capitali, una più bella dell'altra. È nella sua connotazione residuale – in questo con meno forza e la stessa mancanza di prospettive che anima l'humus di una città come Napoli – che l'Appennino nella caparbietà di un legame viscerale con un paesaggio fisico e mentale rappresenta la maggior difficoltà forse l'impossibilità di fare del nostro Paese un paese normale. Per farlo normale bisognerebbe distruggerlo e cancellarne il ricordo. Non che non ci si provi.
E siamo nell'attualità.

C'è anche un terremoto politico sociale che sta scuotendo l'Europa intera: placca africana, placca asiatica, scosse di forte magnitudo e sciami sismici. Ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà.

 

Di questo ci interroga il terremoto. Si pensa di affidarsi a esperti? O sarà un algoritmo a salvarci?
Già, la salvezza. C'era la salvezza eterna determinata da credo e comportamenti ma pare assicurata a tutti tra il giubileo della misericordia e il Misericordioso che avanza nella sua monolitica ossessione: Akbar. C'era la salvezza terrena, composta tra patria e lingua materna, ma è stata devoluta all'ideale umanitarista. Le leggi e le normative si fan belle di nomi inglesi.


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