Douce France

21 Dicembre 2015

Le retoriche sulla sicurezza minacciata non hanno premiato elettoralmente chi se ne è fatto vessillifero ma, per il momento, si tratta solo di una battaglia perduta in una guerra che, invece, continuerà a mietere le sue vittime nei tempi a venire. Se ne può stare certi, trattandosi oramai di una questione di vera e propria egemonia culturale nel discorso pubblico, prima ancora che di un tema politico in senso stretto. Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, e dei suoi famigli, dopo un rilevante ma non sorprendente risultato nel primo turno delle elezioni regionali francesi, si è poi visto sottrarre il bottino di una vittoria troppo improbabile per essere creduta come immediatamente possibile dagli stessi protagonisti. La Le Pen, astuta e abile sdoganatrice di un partito faticosamente sottratto al padre, non poteva non mettere in conto l’irripetibilità di una tornata nella quale ha comunque inchiodato socialisti e repubblicani alla loro inconsistenza politica. Forse è questo il suo vero “successo”, sul quale può confidare per una rimonta, a partire dalle presidenziali del 2017. Insieme al fatto che una formazione politica nata nell’alveo del neofascismo europeo e della palude filonazista, due matrici alle quali per lungo tempo è rimasta consustanziale, quindi anche intrinsecamente maschilista e “etologicamente” machista, conta ora, come figure di riferimento, su due donne, la figlia e la nipote del senile dominus.

 

Si tratta di una frattura non solo generazionale ma di genere. Nel senso che le donne “si fanno uomini”, assumono le vesti ma anche la muscolatura che nella tradizione fascistica novecentesca era invece prerogativa esclusiva dei “maschi”. È in fondo una delle piegature che il neopopulismo offre nell’età delle società senza politica. Un illustre antecedente è quello di Evita Perón la quale, nella sua non lunga parabola politica, informata a un ossessivo patrimonialismo, aveva coniugato un’irrituale vocazione al matriarcato nazionalista con il clientelismo più sfrenato. Il diritto trasformato in favore, peraltro, è l'architrave della soggettivizzazione dei rapporti asimmetrici di potere. In esso – e il Fronte Nazionale di Marine Le Pen lo sa bene – si solidifica e si reifica il rimando ossessivo alla “gente”, intesa nel medesimo tempo come fonte inesauribile e indiscutibile di legittimazione, mucillagine di malumori e risentimenti, moltitudine priva di capacità auto-organizzativa, ma anche oracolarità coreografica. Il populismo europeo, e segnatamente quelle francese, è del tutto congruo con lo spirito del tempo vigente, che predica la soggettivizzazione narcisista (l’appello all'unicità dell’“individuo”, spogliato tuttavia di ogni relazione che non sia quella utilitaristica) all’indistinzione nella moltitudine, quest’ultima nella sua natura di fondamento della comunione tra identici.

 

Il calco fascistico sta proprio in questo dispositivo, dove all'appello individualista (“di te si parla, a te ci si riferisce”) si coniuga l'ossessione identitaria che diventa ricerca dell'identico a se stessi. Ciò che la Le Pen sa offrire a una parte dei francesi è l’effetto specchio, tipico delle società in crisi da declassamento sociale: “vediti riflesso nell’altro come te non in quanto entrambi derelitti ma come soggetti di una rivincita da condividere”. Il vero sodalizio è questo, in alternativa alla coesione che deriva dalla coalizione. L’intero percorso storico-politico del Fronte, dalla sua fondazione nel 1972 come Front national pour l'unité française, sulle ceneri di Ordre Nouveau, si basa peraltro non sulla prospettiva della costruzione di un futuro condiviso bensì sulla restaurazione di un qualcosa di perduto, quindi di trascorso ma da riportare a nuova gloria. La nostalgia di fascismo che ne attraversa i militanti di sempre fa oggi il paio con l’inconsolabile smarrimento di elettori, vecchi e nuovi, che ritengono di dovere reclamare uno status sociale (che diventa “Stato sociale”, nel senso vero e proprio di sistema di Welfare) del quale denunciano l’illegittima sottrazione: da parte dei politici “che rubano”; per opera della finanza “senza patria”; a causa degli immigrati che “invadono le nostre terre, ci rubano il lavoro, portano la criminalità, minacciano le nostre donne, non rispettano le nostre regole e i nostri valori ma ci vogliono imporre i loro”; in generale dalle cose (e dalle persone) che “non stanno più al loro posto”. Ancora una volta la visione naturalista della società, qui intesa come il luogo di una verginità originaria, fa connubio con l’auto-deresponsabilizzazione. Il vittimismo è oggi un formidabile carburante per alimentare la marcia frontista. Peraltro la mietitura elettorale di queste settimane è, per il Fronte, il prodotto di una lunga semina. Almeno decennale, ossia da quando la figlia prodigiosa (e prodiga) ha avviato il percorso di trasmigrazione del potere da un genitore incapacitante, l’autocratico Jean-Marie (padre-padrone sempre più imbolsito e incartapecorito di un partito ancora ghettizzato nel radicalismo nero), verso se stessa. Per più aspetti un parricidio, in un piccolo e un po’ rissoso gineceo di facciata, dietro al quale allignano ancora ranghi saldamente ancorati a un potere maschile. Anzi, alla concezione del potere in quanto esercizio eminentemente maschile.

 

Come ogni formazione politica di destra radicale che si rispetti, ora legata al vasto e contraddittorio agone del neopopulismo, il Fronte Nazionale non ha uno straccio di idea su come governare la complessità dei processi sociali ed economici che attraversano la Francia e l’Europa. Si tratta, in fondo, del suo vero punto di forza. Alle ipotesi, peraltro pallide e incerte, di una qualche risposta che intervenga nel merito delle questioni aperte dalle trasformazioni ingenerate e amplificate dalla nuova globalizzazione, quella che da anni sta colpendo come un colpo di frusta la struttura sociale del Continente e, in particolare, la composizione delle classi medie, il partito lepenista ha risposto ossessivamente e conativamente con una serie di slogan autistici. In sintonia, va detto, con lo smarrimento di una parte cospicua dell’elettorato francese, al quale i “frontisti” offrono i loro amorosi sensi, quelli di una fittizia comprensione, in assenza di azione. Il “lasciare fare” liberale e, soprattutto, liberista, se per le classi dirigenti repubblicane è un “lasciateci fare”, per l'opposizione frontista è un “vi facciamo credere che potreste fare”, rivolto indistintamente ai suoi aderenti. La tripletta sulla quale ha giocato la sua seduttività elettorale ha infatti coniugato i cascami del sovranismo, il rimando all’identitarismo e l’ossessione dell’invasione, quella degli immigrati. Una miscela, a ben vedere, efficace e premiante, che recupera il ben noto trittico basato su Dio-patria-famiglia. La premialità non è data in sé, poiché si tratta in tutti e tre i casi di simulacri di un qualche esercizio politico, bensì dal vuoto di controproposte in cui gli “ismi” frontisti cadono, come se fossero biglie sapientemente scagliate contro i vetri dello specchio di un certo liberalismo al potere. Quest’ultimo, peraltro, non è solo politico, comprendendo semmai quello esercitato da élite defezioniste e refrattarie in società sempre più molecolarizzate.

 

Ancora una volta, non è in una qualche ipotesi progettuale propria che si definisce la sostanza di una presenza politica e di un radicamento elettorale ma nell’assenza di governo dei processi sociali per parte altrui. L’anti-europeismo, un cavallo di battaglia che il Fronte cavalcherà sempre di più a briglie serrate, in ciò inseguito dalla Lega di Salvini, da Giorgia Meloni e da altri leader e piccoli capi della destra continentale (Ungheria e Polonia già si sono in qualche modo “allineate”), è l’anello di congiunzione tra le diverse suggestioni che il neopopulismo identitarista potrà esibire come riscontro della fondatezza dei suoi assiomi ideologici: dalla lotta di classe alla Sacra unione. Quest’ultima, a onor del vero, recuperata dopo gli attentati del 13 novembre e adottata dalla stessa Marine Le Pen, sufficientemente scaltra da cogliere l’occasione di disegnarsi un ruolo, sia pure appartato, evitando di scadere nella pura denuncia isterica della minaccia terroristica.

 

Il patto repubblicano, poi rilanciato freddamente in prossimità dei ballottaggi, questa volta per escluderla dai giochi, è servito essenzialmente ad alimentare il vortice di paure dentro le quali il Fronte accresce le sue possibilità a venire. Il dire: “non votare a favore di qualcosa o qualcuno ma contro la minaccia costituita da un qualcosa o qualcuno”, è il terreno inclinato sul quale i lepenisti si muovono elettivamente, sapendolo comunque torcere a proprio favore. Certo, conta in ciò il fatto che l’intero asse della politica si sia orientato verso orizzonti che resettano qualsiasi rimando alle questioni sociali, spesso trasformate in “questione penale” o, più genericamente, in mere emergenze a ripetizione. Il conflitto sociale sembra obnubilato, non è più il terreno delle appartenenze. Alla critica del presente, si è sostituita l’angoscia per il futuro e la mitologizzazione del passato. Uno stile tipicamente reazionario, ereditato dai fuoriusciti e dagli esuli delle tante rivoluzioni, a partire da quelle democratiche di due secoli fa e più, sembra così essere ridiventata la cifra di un’intera epoca che si vuole ancora “postmoderna”.

 

E allora, all’interno di questa socialità declinante, il cui legame di fondo diventa – o torna ad essere – la paura, ciò che si manifesta come il vero nodo critico è la crisi culturale, teoretica e politica del socialismo. Non (solo) di quello francese ma continentale. Basti pensare che l’avvio del suo declino precede l’implosione stessa dei regimi dell’Est. L’essersi riciclati come variante della liberaldemocrazia non solo non ha fruttificato ma ha prodotto la desertificazione della rappresentanza sociale. A questo vuoto il Fronte Nazionale risponde in misura raziocinante. Con un’abile “mixité”, questa sì graditagli, dove alla lotta sociale contro il basso (“annulla chi sta al di sotto di te, altrimenti ti trascinerà ancora di più negli abissi della degradazione sociale”) si lega quella contro l’alto (“combatti le élite senza volto, senza terra e senza tempo”), riordinando e ricomponendo le coordinate spaziali e temporali della politica nell’indistinta paura dell’“altro”. Del quale, per inciso, non si teme l’alterità bensì l’alterazione, non la differenza ma la diffidenza, non la soggettività ma il suo essere molteplicità, ovvero il catalogo di attributi che gli si conferiscono nel suo costituirsi agli occhi propri come minaccia assoluta.

 

Scompare, in questo orizzonte, qualsiasi relazione che non sia quella tra servo e padrone. I complessi rapporti di potere, e quindi di dominio, evaporano, essendo sostituiti dal gioco, al contempo fantasmatico e fantasmagorico, dei simulacri etnici. Quel che resta della sinistra parla un linguaggio dei «diritti a costo zero» (Michele Ciliberto), che rafforza chi è già in posizione di privilegio, lasciando invece scoperte immense aree dove le subalternità si incontrano e si coniugano con vecchie e nuove diseguaglianze, con la decadenza degli spazi pubblici e delle prassi di condivisione, in una espressione con la marginalità crescente. La decadenza del conflitto sociale, e delle forme evolutive della sua negoziazione, quelle che le moderne Costituzioni avevano invece incorporato, quanto meno da Weimar, aprono quindi spazi altrimenti impensati alla vecchia/nuova destra à la Le Pen. Che non a caso si presenta non come attore costituito ma in quanto soggetto costituente. Quello che genererà una nuova comunità, basata sull’impotenza dei ceti medi, compensata dall’esclusione di chi verrà qualificato come apolide, sul patto corporativo che assesterà al ribasso le trasformazioni che stanno investendo le nostre società, sulle passioni tristi di una precarizzazione che da condizione professionale si fa definitivo abito ontologico. In questo quadro, non a caso, la negazione della questione sociale non può che spalancare porte e portoni a quegli imprenditori politici (ed economici) dell’angoscia che dirottano la rabbia da espropriazione e da abbandono sull’immaginario mitologico di una guerra di civiltà, nel nome di una qualche fittizia ribellione, ovvero di una falsa liberazione che ancora di più mistifica ogni residua speranza di emancipazione concreta.

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