Speciale

Diario (2) / Campi e canti: coltivare la terra e la poesia

2 Maggio 2021

Stiamo individuando una strada per verso Paradiso: ve la comunicherò la prossima settimana. Nel frattempo abbiamo convocato il Cantiere Dante, rigorosamente on line, per dare la notizia a tutti che il Paradiso non si farà: e a darci manforte nella decisione il sindaco De Pascale e il direttore artistico di Ravenna Festival Franco Masotti. Ci aspettavamo comprensione, sì, ma anche qualche mugugno e lamentela. Niente di tutto questo: i tanti cittadini che hanno partecipato – alcune centinaia – se l’aspettavano, e in diversi hanno pensato: stavolta le Albe faranno da sole. Ci sacrificheranno, ha detto Anna Finelli: “Da vecchia infernale volevo ringraziarvi. Odio questi incontri in video, ma sentire le vostre voci mi ha emozionato… e ammetto che temevo che avreste detto che facevate il Paradiso da soli, e sono molto felice che invece… che immagino che per voi sia un grande sacrificio non farlo e sono molto felice che vogliate aspettare e farlo insieme a noi e parlo da persona colpita sia nel lavoro che nelle sue passioni, perché io faccio la commerciante e ho la passione del teatro. Quindi questa pandemia mi sta massacrando un po’ a destra e un po’ a sinistra, insomma da tutte le parti. Scusatemi, ho le lacrime agli occhi nel dirvi grazie e nel sentire come anche un video con voi sia diverso…”. Cara Anna, le abbiamo risposto, il vero sacrificio, per noi, sarebbe stato farlo senza di voi.

Scrivevo a metà aprile, quando ancora non sapevo che a fine mese si sarebbero riaperti i teatri: 


“Certo che comincia a farsi lunga. È più di un anno che i teatri sono chiusi, fatta salva la breve estate scorsa, in cui qualche spettacolo (all’aperto soprattutto) l’abbiamo potuto fare. O in condizioni “inventate”, come sull’Ape car di Giacomo Poretti e dei suoi compagni di avventura, Luca Doninelli e Gabriele Allevi. Da drammaturgo e regista, la soffro anche meno degli attori: vedo Ermanna, il palco le manca come l’ossigeno. Poi penso alla tragedia dei tanti a cui l’ossigeno è mancato del tutto, e hanno finito la vita, soli, in una stanza di ospedale: e allora non posso che dirmi, non possiamo che dirci, forza, ancora pazienza. Pazienza. Pazienza. Pazienza. Per fare la regia di un film, diceva Ingmar Bergman, ci vuole una pazienza che non è di questo mondo. E per sopportare tutto questo, di che genere di pazienza stiamo parlando? Ma poi penso ad altre situazioni di sofferenza nel mondo… penso a chi combatte per la democrazia in Myanmar, chi scende in piazza a contestare i golpisti, a cantare con i fiori in mano e le chitarre chiedendo la liberazione di Aung San Suu Kyi, a sfidare i militari arroganti che sparano sulla folla, a morire in centinaia sotto lo sguardo complice delle Grandi Potenze che nulla fanno per evitare il massacro: se per noi è difficile l’arte della pazienza, guardiamo alla lezione che ci viene dai resistenti birmani.”  

 

E dunque i teatri li abbiamo riaperti: quasi non ci si crede. È una riapertura in punta di piedi, come è giusto che sia, guardandosi attorno, con gli spettatori alla dovuta distanza e in mascherina, con un po’ di timore, ma è una riapertura. Ieri, con il sostegno di Elsa Signorino, assessora alla cultura, abbiamo festeggiato il Primo Maggio al Teatro Rasi riaperto: al mattino le Storie di Ravenna, condotte da Giovanni Gardini e Alessandro Luparini (e tra le vicende raccontate quella del Teatro Socjale, segno commovente dell’“orgoglio proletario” di primo Novecento, edificato a Piangipane, villaggio a pochi km da Ravenna, voluto dalla Cooperativa Braccianti che per costruirlo fece una colletta tra i propri soci: i soldi raccolti non bastarono per tutto, e nel giorno dell’inaugurazione i braccianti si portarono le sedie da casa e con quelle gremirono la platea vuota…), al pomeriggio il film The Congo Tribunal di Milo Rau e la presentazione del libro di Francesca De Sanctis Una storia al contrario, e in serata il Tiresias “dolce e ribelle” che Giorgina Pi ha ricavato dal testo di Kate Tempest,  Hold your own. Nel teatro che solitamente contiene 500 persone ieri ce n’erano circa un centinaio. Come consentito.  

 

 

Nel frattempo i vaccini vanno avanti, ma, almeno da noi, nella regione un tempo “rossa” per ideali politici, negli ultimi mesi per cause epidemiche, vanno a rilento. Siamo arrivati solo ora alla fascia dei settantenni: il mese scorso abbiamo portato a vaccinare i genitori di Ermanna, Frido e la Pina, ovvero Sigfrido e Giuseppina, due antichi celti che si aggirano nella civiltà del XXI secolo. Frido soprattutto, anni novantaquattro, una vita nei campi, che parla esclusivamente in dialetto romagnolo, stretto, rude e incomprensibile. Sigfrido da giovane lo paragonavano a un attore di Hollywood, è ancora alto e slanciato, nonostante veleggi verso il suo primo centenario dalla nascita, ha un fisico da modello ed è completamente sordo: neanche l’apparecchio acustico riesce più a fargli sentire qualcosa del mondo, e poi ha sempre fatto fatica a portarlo.

 

Davanti all’infermiera che, per fargli l’iniezione, gli chiedeva di tirar su la manica della “maglia della salute” (così la chiama la Pina, ed è proprio quella “maglia della salute” tipo anni Cinquanta, che mi dicono sia ritornata di moda, ma non certo il modello arcaico che vedo indossato dal padre di Ermanna), Sigfrido si è rifiutato di “spogliarsi”, di far vedere il torace: e ha detto, nel suo dialetto arcano, che gliela facesse a metà del braccio l’iniezione, che lui più su la “majina d’làna” non la tirava. Più che dirlo, lo ha gridato con voce stentorea, come capita ai sordi, attirando l’attenzione di tutto il reparto. L’infermiera è sbiancata: ma che lingua parla, ha chiesto a Ermanna. Con molta pazienza (parola quanto mai chiave di questi tempi), sapendo che di lei poteva fidarsi, non certo di quella estranea che lo voleva sforacchiare, Ermanna ha persuaso Sigfrido, a gesti, che quella iniezione andava fatta nel punto giusto.   

  

Frido mi fa pensare a un altro vecchio romagnolo di cui mi ha parlato un cittadino del “Cantiere Dante”. Mi ha raccontato di un suo zio, Adelmo, che abita a Cotignola, anche lui sulla novantina. Pure Adelmo ha passato una vita nei campi, dall’alba al tramonto: ma, a differenza di Frido, Adelmo non si è mai spostato da Cotignola, dico mai. Almeno in gioventù Frido un viaggio – uno solo – lo ha fatto: a Parigi con la Pina e le bambine, “per fare un Natale a Parigi con i parenti di Parigi”: anche lì non sono mancate esperienze traumatiche, come quando, credendo di far cosa gradita, i parenti – esuli in Francia negli anni del fascismo – lo hanno portato una sera al Moulin Rouge. Davanti agli intrecci di quei corpi seminudi di uomini e donne la Pina non ha battuto ciglio, Sigfrido ha vomitato tutta la notte. Ma torniamo a Adelmo. Che oltre a lavorare i campi ha sempre avuto una grande passione per la Divina Commedia: la leggeva e rileggeva regolarmente, e alcuni canti li sapeva a memoria. Campi e canti: coltivare la terra e la poesia. Pochi anni fa il vecchio contadino ha smesso di parlare, ha interrotto i suoi rapporti col mondo: se ne sta in un angolo della casa, solo e in silenzio. Se qualcuno gli rivolge la parola, non risponde. Talvolta si alza, e va verso la credenza: lì sopra c’è il libro della sua vita, il “sacro poema”: lo apre a caso, legge una terzina, o forse solo osserva quella cattedrale di endecasillabi in cui tante volte è entrato, e poi lo richiude, e torna a sedersi sulla sua poltrona. Aspettando la notte.

 

Gli ultimi anni di Adelmo, contadino della bassa Romagna, mi ricordano quelli di Holderlin nella torre.  

 

Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

 

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