Sparajurij. Viaggiatori nel freddo / Sopravvivere all’inverno russo con la letteratura

18 Aprile 2016

Chi per la prima volta arriva a Mosca partendo dall’Ovest, magari dopo aver visto la Vecchia Europa scorrergli sotto nel giro di qualche ora, s’incontra d’improvviso come parte di un paesaggio che all’apparenza ha il sapore della distopia, un paesaggio in cui le regole della convivenza urbana risultano ammantate d’un vago sentore straniante incastrato all’interno di un tempo che sulle prime sembra indecifrabile e sospeso. E non soltanto, come d’immediato si direbbe, per l’alfabeto delle insegne e dei menù, o per quelle usanze diverse che più o meno sorprendono sempre il viaggiatore avido d’esotismo. Sarà forse, invece, anche per la memoria gloriosa dell’epoca dei soviet, che è ancora pietra svettante e altissima, strade larghe e statue bolscevicomorfe che guardano lontano. Sarà forse per il passato ancor più remoto dell’impero degli zar, con i suoi incommensurabili crepacci messi a separare i palazzi bianchi e dorati dai campi di ghiaccio e fango, immensi gli uni come gli altri. Sarà forse proprio per il freddo, che alla vastità del territorio in superficie ha giustapposto un sottosuolo sterminato fatto di spazi raccolti in cui rinchiudersi e pensare, camminare, vivere e infine dare albergo alle cose che andavano e vanno taciute al cospetto del cielo e delle torri che scrutano.

 

Come si sarà capito, si tratta in prima battuta di una faccenda che riguarda la misura. L’impatto con un mondo sconfinato fatto di aree concentriche che, a partire dal midollo della Capitale, si dipanano attraverso i monti, le steppe e i fiumi fino ai remoti confini imposti dalla geopolitica e dal mare. All’interno di tali confini, quel sottosuolo che è giustapposizione della superficie viene spesso colmato dalla letteratura: rimedio e sollievo, rivolta, etica solitaria che unendo i suoi dispersi vettori in un unico flusso diventa idealmente costruzione di un movimento polifonico e collettivo, causa formale e insieme finale del consistere mondano.

Viaggiatori nel freddo. Come sopravvivere all’inverno russo con la letteratura, volume di recente pubblicato da Exorma edizioni, grazie all’impegno e alla firma del collettivo di scrittura torinese sparajurij (nell’occasione rappresentato dalla traduttrice letteraria Elisa Baglioni e dal poeta Francesco Ruggiero), è probabile che renda conto esattamente di quest’opera di riempimento sotterraneo, messa in atto da minuscoli soggetti alle prese con la sgomentevole vastità degli spazi e del potere, e di un visitatore che, provenendo da Occidente, vi si trova immerso diventandone parte attiva.

 

Viaggiatori nel freddo. 

 

A metà strada tra il diario di viaggio e il libero inventario di un critico letterario, Viaggiatori nel freddo racconta in prima persona la storia di un poeta che, atterrato in terra russa, attendendo di partecipare a un festival di letteratura se ne va in giro per tre settimane nei quartieri di Mosca e nei dintorni della Capitale, accompagnato da personaggi viventi e non, volontari e non, tutti più o meno presenti nel panorama attuale e trascorso delle lettere russe.

Ramingo nella vastità straniera, il nostro poeta diventa parte di quell’ideale sottosuolo fatto di spazi abbastanza riposti che sono treni e stazioni (luoghi d’eccellenza del mondo dei libri); ragnatele sommerse come quelle della metropolitana moscovita, il “Palazzo del popolo” come viene chiamata dai cittadini; dimore private di letterati più o meno facoltosi; case museo di glorie artistiche del passato presidiate da volenterose guide totalmente compiaciute d’essere la memoria parlante di chi fu illustre abitatore di quegli spazi; taxi clandestini guidati da malinconici migranti che per statuto ascoltano e riportano le storie minime del popolo come esuli di mondi ormai disfatti; scantinati-libreria destinati ad archiviare la poesia.

 

Si tratta, in ogni caso, di ambienti chiusi in cui sfuggire al freddo e bearsi dei riferimenti offerti dalla tradizione letteraria russa, cercando e trovando conforto nell’innumerevole sfilza di rimandi che, a partire da Fedor Dostoevskij e Anton Čechov, passando attraverso Marina Cvetaeva e Michail Bulgakov per arrivare fino ai contemporanei Vladimir Sorokin e Alexandra Petrova, popola un universo letterario immenso quanto e forse più della geografia fisica che gli ha dato i natali. Accanto a questo universo, come contrappunto riconoscibile e volgare, si stagliano gli enormi (anche’essi) centri commerciali in cui entrano di prepotenza l’Occidente con i suoi prodotti più o meno lussuosi e la ricchezza esterofila fondata sul valore degli idrocarburi. Simboli di una trasformazione che per taluni pare irreversibile, nemmeno queste risultanti dell’oggi sembrano in grado di appiattire il pensiero, in un luogo in cui le diverse sembianze del totalitarismo del potere hanno da tempo abituato l’uomo al nascondimento, alla lotta perpetua nella trincea del sottosuolo e degli spazi chiusi.

 

Perché nonostante il freddo, e nonostante la nuova etica capitalistica a obsolescenza programmata, sussiste ancora, invitto, un bisogno di morbida aggregazione in cui lasciar sopravvivere anche la necessità furente della solitudine: è proprio lì che vive la letteratura.

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