Franco Toselli, gallerista re

17 Dicembre 2012

Franco Toselli dal 1967 organizza mostre d’arte nella sua galleria a Milano, attraverso la quale sono passati i nomi più importanti dell’intero panorama dell’arte contemporanea. Solo per aver lavorato con gli artisti più rappresentativi della storia dell’arte recente, aver organizzato mostre memorabili e prodotto libri d’artista leggendari, Franco Toselli già merita di sedersi tra le prima fila nell’olimpo dei galleristi. La sua avventura nell’arte dura da 45 anni. È iniziata con Gio Ponti passando per l’arte concettuale (Vincenzo Agnetti, Michael Asher, John Baldessari, Mel Bochner, Gino De Dominicis, Jan Dibbets, Joseph Kosuth, Sol LeWitt, On Kawara, Lawrence Weiner), l’arte povera (Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Piero Gilardi, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Emilio Prini, Gilberto Zorio), la “transavanguardia” (Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino), artisti come Daniel Buren, Giuseppe Chiari, Dan Graham, Joan Jonas, Jan Knap, Gordon Matta Clark, Luigi Ontani, Charlemagne Palestine, Gianni Piacentino, Salvo, Richard Serra, Richard Tuttle fino ad arrivare a Portofranco (Bonomo Faita, Riccardo Gusmaroli, Kazumasa Misokami, Paola Pezzi, Lisa Ponti, Antonio Serrapica, Paolo Truffa). Franco ha sempre duellato con l’arte con una seria leggerezza usando la poesia come arma. Lo si evince da come parla degli artisti e delle opere, da come ne scrive e da come le espone. Rubando le parole a Emilio Prini, uno dei protagonisti del suo Dream Team, a Franco dico: “Sei come un’atmosfera che dona un brivido blu!”.

 


La Galleria Toselli nel 2012


 

FRANCO TOSELLI: Ti premetto che ho un rapporto un po’ particolare con gli artisti. Non sono scientifico.

 

LUCA LO PINTO: Meglio. È più interessante. Immagino hai già fatto altre interviste.

 

FT: No. Non faccio quasi mai interviste. Ogni tanto vengono degli studenti a chiedermi cose specifiche per alcune ricerche. Io sono sempre preso dal giorno dopo…Ho sempre mille problemi da risolvere perché mi metto sempre nei guai.

 

LLP: Allora. La prima cosa che ti volevo chiedere…

 

FT: … Cos’è? Un registratore?

 

LLP: Sì.

 

FT: Riprende la voce?

 

LLP: Sì. La prima cosa ti volevo chiedere riguarda Agnetti. In Due Righe,la tua raccolta di scritti e pensieri, ho letto questa frase: “nel 1980 nella logica del disordine Vincenzo Agnetti inventa il monumento ai caduti di tutte le mostre”. Cosa intendevi?

 

FT: Fece la sua ultima mostra da me nel 1980. Espose quattro fotografie tra cui quella riprodotta nel libro. Questa immagine è diventata una scultura. C’era una seconda in cui lui è steso per terra coperto completamente da tutte buste. Anche di questa realizzò una scultura che consisteva in un palo di ferro a terra con sopra saldati elementi triangolari assemblati come fossero le buste cadute. L’immagine riprodotta nel libro è quella in fase di caduta. Nel terzo scatto l’equilibrio è sempre compromesso. Ha fatto una scultura mirabile. Io lo vedevo come un monumento ai caduti di tutte le mostre. Inoltre è venuto a mancare subito dopo questa mostra. È stata una mostra straordinaria in cui Agnetti ha visualizzato il suo disordine, la sua caduta. Sempre nel libro è riportata una sua frase bellissima: “girava in atomo per rimanere atomo".

 

LLP: Perché avevi deciso di intitolare l’opera Surplace?

 

FT: Perché era un istante prima della caduta. Anche quando lui è a terra con tutte le buste sparse.

 

LLP: Cosa avevi esposto in mostra?

 

FT: I quattro scatti insieme alle quattro sculture in ferro.         

 

LLP: Hai mai pubblicato un libro di Agnetti?

 

FT: No. Agnetti ha scritto Macchiavelli 30, ovvero l’indirizzo di dove abitava a Milano. Ma la meraviglia è il suo ultimo lavoro, I Suonatori di fiori. Per realizzare questa partecipazione dell’elemento vegetale, ha chiamato mio figlio Giacomo che all’epoca aveva 5 o 6 anni. Voleva che Giacomo facesse cadere dei petali sulla tela dove lo stesso Agnetti era immortalato come suonatore. Ad un certo punto sono uscito con Giacomo perché dovevo andare via. Vincenzo mi teneva alla porta. È morto poco dopo.

 

LLP: Di Agnetti avevi fatto un’altra mostra nel 1972…

 

FT: Sì. In quell’occasione aveva esposto delle tele emulsionate dove era rappresentata la crescita dell’albero. Ma non te lo so descrivere. Devi vedere le immagini.

 

LLP: Possiedi un archivio fotografico di tutte le mostre che hai fatto?

 

FT: No. Un po’ la mia memoria. Il mio lavoro è sempre stato sul filo del rasoio, soprattutto dell’economia. Ho avuto tanti spazi e ogni spazio ha coinciso con uno sfratto. Ho girato Milano da uno sfratto all’altro e ora penso di essere al capolinea. Tutto è sempre stato fatto con gli artisti. Non è mai stata realizzata una mostra con delle opere. Si è sempre trattato di creare uno spazio adeguato alle necessità dell’artista affinché realizzasse il suo progetto. Ora, con la grande amplificazione di gallerie, è diventato comune. Ma all’epoca le galleria erano poche. Erano considerate...

 

Lisa Ponti con Franco Toselli nel 1977

 

LLP: … un luogo di sperimentazione...

 

FT: si…erano un luogo di dialogo tra vari artisti di Milano, Roma, Torino etc. La mia prima galleria si chiamava De Nieubourg, che era il nome di mia madre. Poi dal 1969 si è chiamata Toselli, inaugurando con la mostra Sentenza 1, una collettiva dove era esposta soprattutto l’opera di Yves Klein. Come tanti, da giovane, avevo una grande passione per Yves Klein. Portavo i lavori di Lucio Fontana a Parigi e tornavo giù con i grandi lavori di Klein, al punto che Peppino Palazzoli mi chiamava “il re di Yves Klein”. E io naturalmente ero felice di questo! Poco tempo dopo il mio padrino, collaboratore, Michel Couturier - mercante di Klein - morì in un incidente aereo in Marocco.

 

LLP: Hai mai conosciuto invece un gallerista chiamato Anselmino?

 

FT: L’ho conosciuto poco. È apparso alla fine degli anni ‘70. Credo avesse avuto rapporto con Alexandre Iolas. Conoscevo meglio Iolas perché aveva organizzato la mostra di Pino Pascali a Milano. È stata una delle rare volte in cui ho visto Pino.

 

LLP: Hai mai lavorato con Pascali?

 

FT: No. Un artista con cui ho lavorato a Milano è stato Mario Nigro. Amavo moltissimo il suo “spazio totale” del 1956. La considero un’opera straordinaria. Con lui all’inizio degli anni ‘70 esponemmo il “tempo totale”.

 

LLP: Tu sei di Milano?

 

FT: Praticamente si. Avevo prima lavorato in Francia. Era venuta con me Sonia Delaunay. che frequentavo. Dopo la mostra inaugurale di Gio Ponti, la seconda mostra della Galleria De Nieubourg è di Sonia Delaunay. La terza fu Boetti. È in quell’occasione che mia madre se ne andò. Ricevette il primo sfratto perché scaricammo un camion di sassi nel cortile di via Borgonuovo.

 

LLP: Hai aperto la galleria giovanissimo...

 

FT: Sì. Venne da me il padrone di casa. Ero con Ettore Sottsass che lavorava lì. Il proprietario ci chiamò accusandoci di organizzare delle orge. Sottssas, più anziano di me, si alzò e gridò “siete voi che fate le orge!”. Alla fine mi mandarono in un sotterraneo che fu il mio secondo spazio. Lì ebbi la fortuna di avere al mio fianco Ettore Sottssas. Quando inaugurai il 2 luglio del 1971 la mostra di Sol LeWitt non avevo né luce né acqua né gas, così venne il curatore fallimentare ma non poté sequestrare nulla perché tutta la mostra era sui muri. Il miracolo fu che Sottssas mi passò la luce. Era luglio e facemmo un’inaugurazione da mille e una notte. Poi a Settembre trovai lo spazio di Via Melzo vicino Porta Venezia dove aprii con la mostra di Joseph Kosuth.

 

LLP: Come avviene il tuo primo contatto con gli artisti?

 

FT: Ho avuto una sorta di padrino, un artista, pittore, che si chiamava Arduino Nardella. Oggi dimenticato. Fu segretario dell’Associazione Artisti d’Italia negli anni ‘50 e molto amico di de Chirico e Sironi. Mia madre aveva un’agenzia di trasporti passeggeri a Milano e per questa ragione era in contatto con tutti quegli artisti che viaggiavano per mare come de Chirico o la Callas. Le prime infarinature le ho avute lì. Successivamente andai a Parigi. Lavoravo in una galleria dove mi pagavano su percentuale ma non si vendeva un tubo; così la sera facevo il guardiano notturno nelle periferie di Parigi. Un giorno mi mandarono in una lavanderia ma non ce la facevo più a camminare sulle lenzuola e allora decisi di tornare in Italia avendo comunque la possibilità di usare uno spazio. Andai direttamente a trovare Gio Ponti con il quale feci due mostre.

 

LLP: Un incontro fondamentale quello con Ponti...

 

FT: ... si. L’architetto-re.

 

LLP: Come l’hai conosciuto?

 

FT: Arduino Nardella o mia madre spedirono una lettera di raccomandazione e andai da lui.

 

LLP: Ma con la volontà di organizzare una mostra o solo per conoscerlo?

 

FT: Gli dissi che volevo aprire una galleria e inaugurare con lui. Allora si chiamava De Nieubourg Galleria di ricerca. Incontrai Gio Ponti all’inizio del 1966.

 

LLP: Quanti anni aveva?

 

FT: Credo una settantina. È morto nel 1979. Organizzai la sua seconda mostra nel 1978 in via De Castillia - un posto incredibile - dove espose i suoi disegni. Ricordo che mi disse: “Toselli sei sicuro che vuoi fare una mostra di questi disegni?”. Quando andai a trovarlo per proporgli la mostra e dissi che ero Toselli, pensò fossi il figlio perché all’epoca portavo i capelli lunghi.

 

LLP: Come avviene invece il contatto con l’Arte Povera?

 

FT: All’inizio frequentavo il mondo di Domus e quindi Pierre Restany, che però era fatto a modo suo. Non dico fosse una casa chiusa, ma quasi. La persona che mi ha aperto a quel mondo è stato Tommaso Trini.

 

Daniel Buren, Trasposizione, 1974. Galleria Toselli. Foto di Giorgio Colombo

 

LLP: Trini lo ritengo una delle figure più sottovalutate della scena artistica italiana degli anni ‘60 e ‘70. Pensa che mi hanno raccontato che originariamente Mazzotta aveva chiesto a Trini e non a Celant il compito di scrive il libro Arte Povera

 

FT: …quando conobbi Celant la prima volta era ancora un damerino. Tommaso, invece, era già dentro. Erano comunque temporanei. Quando vivevo a Parigi era un momento in cui la Francia era molto spenta. L’unico momento di vitalità fu rappresentata dalla mostra organizzata dal gruppo BMPT (Buren, Mosset, Parmentier e Toroni). Aldilà di questo c’era ben poco. Tornando in Italia invece assistetti a questa dinamite dei giovani artisti. Il virus mi fu iniettato da Tommaso Trini, perché io frequentavo più il gruppo intorno a Domus.

 

LLP: Ma Trini già scriveva per Domus quando l’hai conosciuto?

 

FT: Sì.

 

LLP: Quindi faceva da ponte...

 

FT: …io frequentavo lui e Ettorino Sottsass. Quando in galleria da me ci fu la presentazione del libro di Udo Kultermann, il grande artista che tutti aspettavano e che adesso viene trattato in modo non adeguato era Piero Gilardi. Era Gilardi l’artista del quale tutti parlavano allora. L’unico che era stato negli Stati Uniti.

 

LLP: Eh sì, l’unico che aveva viaggiato veramente… Aveva fatto anche un viaggio con Paolo Icaro…

 

FT: Parliamo del 1967. Poi, in occasione della presentazione del libro di Kultermann, ci fu una collettiva con l’impermeabile d Merz, la palla di Pistoletto insieme ad uno specchio, la sega di Gilardi...

 

Lisa Ponti, Viva Franco

 

LLP: … parliamo sempre dello spazio di via Borgonuovo quando la galleria si chiamava De Nieubourg?

 

FT: Sì.

 

LLP: Di Gilardi hai mai fatto una mostra?

 

FT: Si. Ho fatto la più bella mostra di Piero Gilardi. Era il 1989. La moglie di Michel Durand-Dessert dichiarò che era la più bella scultura del mondo: il Banano danzante con le musiche di Peter Gabriel. Straordinario. Con i caschi di banana che giravano vorticosamente. Lo posso paragonare al monumento ai caduti del nostro amico Vincenzo Agnetti.

 

LLP: Invece quando organizzi la mostra di Boetti nel 1968, lui aveva fatto la prima mostra da Christian Stein, quella con l’invito bellissimo composto da diversi materiali?

 

FT: Si. Mi sembra anche di ricordare che si misero le mani addosso.

 

LLP: Mi sono sempre chiesto se all’epoca ci fosse rivalità tra voi galleristi...

 

FT: Avevamo dei desideri che volevamo realizzare. In quell’occasione dovevo pubblicare anche un catalogo che non sono riuscito a fare. Producemmo un manifesto ora introvabile, Shaman Showman. L’avevamo tappezzato per le strade di Milano. Era quello in cui appare metà bianco metà nero come una carta da gioco.

 

LLP: Di Boetti avevi esposto anche il celebre manifesto con la lista degli artisti affiancati da simboli indecifrabili nella seconda personale del 1970…

 

Logo della Galleria Toselli

 

FT: …sì, quando la galleria si chiamava Toselli. La prima mostra invece era alla galleria De Nieubourg.

 

LLP: Nella programmazione della galleria De Nieubourg ho letto di una proiezione di un film-ambiente di Marilena Pinelli. Chi era?

 

FT: Era la compagna di Giovanni Pirelli, una figura fondamentale come Feltrinelli. Erano delle proiezioni che lei faceva all’epoca. Mi ricordo che interloquiva molto con Gino Marotta. L’ho seguita brevemente.

 

LLP: Sempre a via Borgonuovo realizzasti la mostra di Giulio Paolini..

 

FT: Sì. Nel 1969. Espose Giovane che guarda Lorenzo Lotto insieme a Poussin, che indica gli antichi come esempio fondamentale, L’ultimo quadro di Diego Velázquez e altri lavori. Sempre nel 1969 lì Luciano Fabro presentò L’Italia Rovesciata. Realizzammo un manifesto da mettere per le strade ma c’era stata la strage di Piazza Fontana e mia madre aveva un po’ paura; così non lo abbiamo esposto.

 

LLP: Leggevo che Trini organizzò anche degli incontri in galleria...

 

FT: …già allora non si sopravviveva. Io stavo per chiudere la galleria. Con Tommaso Trini ci inventammo “Art-Terminal”. Ho organizzato una performance che pochi sanno. Si chiamava “Area Condizionata”. Il mio spazio sotterraneo di via Borgonuovo fu messo a disposizione per una settimana a Henry Martin, Tommaso Trini, Gianni Emilio Simonetti, Armando Marrocco, Thereza Bento, Renato Maestri, Carlo Bonfà, Livio Marzot e Paolo Lomazzi. Li chiusi dentro per 7 giorni, comprai 100 cuscini di gomma piuma e portavo i viveri. Fu prodotto anche un poster che spiegava l’operazione. Il risultato è che fecero delle grandi battaglie di cuscini. Esiste un filmino di 20 minuti girato da Gianni Emilio Simonetti che non ho mai visto. Fu un evento organizzato come “Art-Terminal” con l’obiettivo di cercare dei soci che mettessero dei soldini. Poi improvvisamente arrivò con un vagone letto da Bari un signore che si chiamava Angelo Baldassarre; aprì il mio garage e cominciò a portarmi via tutti i primi lavori di Arte Povera.

 

Area Condizionata, Galleria Toselli, 1969

 

LLP: Quindi all’epoca le mostre che facevi non si vendevano?

 

FT: Non vedevo l’ora di vendere. Tutti mi chiedono la ragione per cui non mi sono tenuto le opere. Prima di tutto vivevo di quello. In secondo luogo non si riusciva a vendere un tubo.

 

LLP: Solo te o tutti?

 

FT: Ogni tanto passava da me Carlo Cardazzo, ma aveva altri interessi. C’era Sperone che è un grandissimo mercante, lui trattava con gli americani e vendeva. C’era già Corrado Levi che comprava. Ero sopratutto io il pesce fuor d’acqua.

 

LLP: La prima mostra dell’Arte Povera a La Bertesca l’avevi vista?

 

FT: No, quella no. Andavo a La Bertesca, vedevo le opere ma ora non ricordo esattamente le mostre.

 

LLP: Il primo incontro con Emilio Prini è stato lì?

 

FT: No, credo fu quando venne da me per propormi un concerto con 100 tamburi anche se dice che non è vero. Parlò di una cosa stranissima. Era sempre legato agli eventi musicali. Invece Boetti venne da me e un giorno mi portò uno scugnizzo siciliano straordinario che era un certo Salvo Mangione. Su Salvo c’è un misunderstanding pazzesco perché Salvo bisogna conoscerlo. Vorrei che tu un giorno lo conoscessi. È una persona molto particolare. Allora realizzava questi quaderni in cui faceva Salvo il Marinaio invece di Sinbad il Marinaio. Poi faceva fotomontaggi di Nureyev con il suo volto.

 

Lisa Ponti e Emilio Prini alla Galleria Toselli nel 1980

 

LLP: Quindi Emilio (Prini, ndr) lo incontri a Milano?

 

FT: Sì, a via Borgonuovo. Non è che mi ricordo bene.

 

LLP: Mi interessava avere qualche informazione in più su queste sue improvvisate musicali. Mi ha raccontato di una volta alla Quadriennale che, invitato ad una tavola rotonda con i curatori, si mise a suonare.

 

FT: Sì, ero presente. Suonava il sassofono. Con Emilio ci vedevamo spesso, a Genova, a Milano. Anche con sua moglie Grazia, una persona straordinaria, che fa degli acquerelli meravigliosi.

 

LLP: Invece come avviene il contatto con Bochner, Kosuth e gli artisti americani ?

 

FT: Con i viaggi che ho fatto a New York. A volte andavo solo, altre volte con altri. Una volta ho fatto anche un viaggio con Sperone… Tra le altre cose ho contribuito anche all’apertura galleria di Salvatore Ala. Molte gallerie sono nate da me: Pasquale Leccese, Lia Rumma, Marilena Bonomo. Françoise Lambert era la mia segretaria. Un’altra mostra che feci nello spazio di via Borgonuovo è una personale di Lucio Fontana poco dopo che era mancato. L’avevo incontrato perché avremmo dovuto fare una mostra insieme. Come omaggio raccolsi le sue opere più belle dalle collezioni milanesi e chiesi a Nanda Vigo di curare l’allestimento. Fu una mostra pazzesca.

 

LLP: Sarei curioso di vedere le immagini.

 

FT: Ci sono. Le trovi in qualche catalogo.

 

LLP: Nel 1970 fai la personale di Mel Bochner. Cosa aveva esposto?

 

FT: Aveva esposto i giornali con lo spray lavorando su un pavimento. Una bellissima mostra subito dopo quella di Gino de Dominicis quando aveva esposto la palla, l’asta, la pietra, il cilindro invisibile, Opera ubiqua.

 

Personale di Gino de Dominicis alla Galleria Toselli, 1970. Foto di Giorgio Colombo

 

LLP: Hai lavorato anche con Hanne Darboven?

 

FT: Sì, perché feci un viaggio in Germania con Franz Dahlem, all’epoca assistente del gallerista Heiner Friedrich che organizzò la prima mostra dove Walter De Maria fece la stanza piena di terra. Girai molti studi di giovani artisti tedeschi. Andai a trovare Gerhard Richter. Ma allora ero preso dal concettuale puro e Richter mi sembrava Andy Warhol, così non proseguii. Poi incontrai Franz Erhard Walther e Sigmar Polke. Polke mi regalò un quadro, Carl Andre in Delft, adesso esposto in un museo importantissimo. Lo vendetti per 4.000 marchi a Marlies Grüterich. Nessuno voleva quel quadro che oggi vale un milione. Lo stesso Carl Andre mi fece un disegno, quando andai a trovarlo, che era una mappa di New York. Sempre a New York conobbi On Kawara del quale nel 1971 esposi One Million Years. Ero in via Melzo e mi ricordo che mi scoppiò la stufa.

 

LLP: È interessante che tu abbia lavorato anche con artisti californiani, non solo i newyorkesi che avevano una grande visibilità in Europa in quegli anni.

 

FT: Sì, certo. Ad esempio i primi ambienti di Los Angeles Germano Celant li ha visti da me. Erano molti più complessi. Ero andato a Los Angeles perché il mio artista preferito era John Baldessari che esponeva solo da me.

 

Jonh Baldessari, Throwing three balls in the air to get a straight line, Prearo Editore, Galleria Toselli, 1973.John Baldessari, Choosing green beans, Edizioni Toselli, 1972.

 

LLP: Quando fu la prima volta che andasti a Los Angeles?

 

FT: All’inizio degli anni settanta.

 

LLP: Chi avevi conosciuto?

 

FT: Michael Asher. James Turrell. Una volta andai anche con Emilio [Prini, ndr]. Il primo viaggio lo feci da solo. Poi conobbi Maria Nordman. Larry Bell l’avevo incrociato a Milano ma non ebbi mai un rapporto. In California frequentavo soprattutto Baldessari. Ma l’esperienza con Turrell fu fantastica. Quando andai a trovarlo, lo studio era vuoto. Era tutto bianco, non c’era niente. A un certo punto aprì una persiana e lo spazio fu illuminato da tutte le luci della città. Io però avevo uno spazio in un cortile, mica un oceano davanti a me. Comunque andavo più a New York dove vedevo Sol LeWitt che mi faceva un po’ da suggeritore. Grazie a lui feci una mostra di Bob Mangold. Mi proponeva degli artisti impossibili ma Mangold mi piacque.

 

LLP: Quali sono stati gli artisti con cui non sei riuscito a lavorare per motivi di spazio o di soldi, a parte James Turrell?

 

FT: Carl Andre. In generale sono tante le mostre che ho fatto ma tante anche quelle che non ho fatto. Andai a trovare Bob Ryman a New York, con lui feci una collettiva ma mai una personale. Avevo esposto Brice Marden. Vendetti il suo lavoro per una cifra ridicola ad Angelo Baldassarre. In seguito venne venduto a un milione di dollari. Parlando degli americani ho fatto una personale di Barry Le Va, Joan Jonas, Trisha Brown, Richard Tuttle. Ho lavorato molto con Tuttle, che ha aperto la strada a questa “soft revolution” in cui mi ritrovo oggi. Alla fine degli anni ‘70 infatti ho cominciato a lavorare con Paladino, De Maria, Clemente. Di Paladino feci la prima mostra in assoluto, nel 1978. Ricordo che quando organizzai la prima mostra di Nicola De Maria mi vergognavo come una scimmia. Mi chiamava Emilio [Prini, ndr] chiedendomi se ero impazzito, mentre Gino [De Dominicis, ndr] mi diceva di andare avanti tranquillo.

 

LLP: Cosa aveva esposto Clemente nella sua prima mostra?

 

FT: C’erano fotografie di pizzerie, alcune foto a colori, qualche tentativo di disegno.

 

LLP: E la mostra di Mario Merz intitolata Tavole con le zampe diventano tavoli?

 

FT: Mario lavorava a ritmo continuo. Ci vedevamo sempre ma di mostre ne abbiamo fatto poche. In quell’occasione, era il 1974, avevo trovato una cascina nell’Oltrepò Pavese dove lui realizzò questa grande tela dei tavoli. Ho prodotto anche un libretto con lo stesso titolo.

 

LLP: Ero curioso di sapere di più anche sulla mostra di Paolini intitolata Idem II (Regesto delle opere come motivo a linee fosforescenti).

 

FT: Era un tipo di lavoro dove lui utilizzava la sua “geometria speciale”. Si trattava di un’installazione composta da tante tele che formavano delle geometrie.

 

LLP: Invece la prima mostra di Emilio Prini è a via Melzo?

 

FT: Sì, la vetrina. Nel 1975. Devi sapere che ho sempre lavorato con il cuore in gola. Così, mentre montavo la vetrina con lui, i creditori bussavano al vetro pensando volessi fossi nascondermi!

 

LLP: Non avevi fatto un’altra mostra di Prini nel 1972 con lo “Standard”?

 

FT: No, non ricordo. Forse mi aveva dato un lavoro, ma la prima mostra è nel 1975 Mostro. Una esposizione di oggetti non fatti non scelti non presentati da Emilio Prini

 

LLP: … dove aveva installato la vetrina al posto della porta?

 

FT: Lui ha chiuso la galleria. Ha sostituito la porta di legno che avevo con una a vetri dove dietro ha costruito il paesaggio della vetrina con la seggiolina, la scritta “sei come un’atmosfera che dona un brivido blu” e il bigliettino. Siamo andati in un albergo lì vicino, l’hotel Diana. Ho passato un mese in albergo con mio figlio Giacomo nella culla perché non si poteva accedere alla galleria.

 

LLP: Un altro grande artista con il quale hai avuto un rapporto importante è Charlemagne Palestine.

 

FT: Con Charlemegne abbiamo fatto il matrimonio di Carlo e Luisa Orsacchiotti. Producemmo un invito da mille e una notte con buste ricamate e fotografie originali di Giorgio Colombo dei due orsacchiotti. Mi costò sette milioni allora. L’invito più bello del mondo. Io ero uno dei testimoni del matrimonio. Mi ricordo che andai con Vincenzo Fidomanzo con un furgone agli orfanotrofi a prendere tutti i peluche che non tenevano più perché Charlemagne vuole solo peluche usati dai bambini. Poi li cucimmo creando delle famiglie che disponemmo sulle mensole. Tappezzammo tutta la galleria. Sembrava un negozio di giocattoli. In seguito si sono succeduti eventi che molte persone non considerano. A un certo momento ho fatto la mostra di Jan Knap. Sono arrivato agli angioletti. Lo dico sempre: sono contento di essere arrivato agli angioletti dopo Richard Serra!  Charlemagne è un po’ questa cosa qui. È stato un minimalista fortissimo. Ad un certo punto aveva deciso di fare il grande orso per Documenta a Kassel, ma non aveva un soldo e così andava a chiederli agli artisti già famosi. Andò da Claes Oldenburg che gli disse “non posso darti soldi, perché mia moglie non vuole però ti posso regalare un bellissimo cappotto di pelle”. Poi andò da Leo Castelli per chiedere aiuto e gli fece un assegno di 5.000 dollari. Molti anni dopo Castelli raccontò che i soldi li aveva dati non per aiutarlo ma per liberarsi di lui perché il cappotto di Oldenburg puzzava troppo. Charlemagne fece diversi concerti da Castelli.

 

Giuseppe Penone, Corrado Levi e Gilberto Zorio alla Galleria Toselli, 1974. Foto di Giorgio Colombo

 

LLP: E James Lee Byars ti piaceva?

 

FT: James Lee Byars per me era un oggetto misterioso. Non ho mai avuto accesso, nemmeno mentalmente. Lo vedevo sempre in Germania, ma io avevo già questa “idea soft”. Anche con Millo (Emilio Prini, ndr) in fondo c’è sempre stato “un agire con tenerezza”. Non te lo so spiegare. James Lee Byars non l’ho conosciuto a fondo, al contrario di altri come Mel Bochner o Dorothea Rockburne con la quale feci due mostre.

 

LLP: L’“idea soft” riguarda la persona o in senso generale?

 

FT: Ero molto preso dal concettuale nel senso stretto.

 

LLP: Ma ti interessava il concettuale come linguaggio o gli artisti?

 

FT: Mi piaceva quel tipo di linguaggio.

 

LLP: Te lo chiedo perché poi hai lavorato con artisti che utilizzavano un linguaggio molto diverso. Penso a Clemente, Paladino, De Maria…

 

FT: Mi interessava il loro linguaggio come mi interessava l’arte povera.

 

LLP: Chia non l’hai esposto?

 

FT: Chia e Cucchi non ce l’ho fatta. Con Paladino ho lavorato all’inizio. Con De Maria invece feci una mostra straordinaria nel 1978 che si chiamava Marisa Merz, Nicola De Maria, Mario Merz. Presentai Nicola, che all’epoca faceva il dottore, a Mario che lo ospitò per un periodo nel suo studio. C’era un bellissimo rapporto. In quella mostra poteva esserci una sorta di proposta su un certo tipo di arte italiana anche se fare una mostra dell’arte italiana è sempre stato impossibile.

 

LLP: Non avevi fatto una mostra sull’arte italiana con Celant intitolata “An exhibition of new italian art”?

 

FT: No, feci una mostra con Celant nel 1973 intitolata Arte come Arte al Centro Formentini a Brera con un catalogo importante, ma erano solo artisti americani come Novros, Reinhardt, Ryman.

 

LLP: Invece con i “transavanguardisti” che rapporti avevi?

 

FT: Prima di tutto “transvanguardia” è un termine inventato da Achille (Bonito Oliva, ndr). Nicola De Maria all’inizio non voleva partecipare alla prima mostra. Fui io a spingerlo. Secondo me c’è una relazione tra De Maria e alcuni artisti precedenti. In generale alla fine degli anni ‘70 ci fu effettivamente un affaticamento del concettuale che portò all’emergere di queste nuove risorse che sul momento sembravano portare una ventata di ossigeno, ma poi si sono rivelate probabilmente minori di quello che si pensava.

 

LLP: Hai mai avuto a che fare con Francesco Matarrese?

 

FT: Sì, gli ho fatto una mostra. Lui mi chiede sempre documentazione, ma non ho nulla. Era un comunista di quelli tosti.

 

LLP: Invece volevo tornare a Salvo. Mi ha colpito il fatto che lo consideri un artista che andrebbe rivalutato.

 

FT: Salvo per me è un grande perché ha fatto veramente “mission impossibile”. Rimpiango di non aver fatto con lui una mostra bellissima con solo quadri di fiori. Non siamo riusciti a farla perché mentre lui li faceva io li vendevo!  È un’artista che ha avuto una grande influenza in Germania, in particolare sugli artisti del gruppo Normal (Peter Angermann, Jan Knap e Mllan Kunc) che io ho esposto ma che non hanno avuto grande successo. Salvo lavorava con Paul Maenz, che pubblicò il suo libro di scritti. È una persona interessante nell’arte italiana. Una cosa del genere si poteva verificare solo in questo territorio. Vedo tutta la sua pittura come un teatrino. Però dato che l’Italia è una paese di mercanti, gli mettono una cornice e sembra un quadro da buttare nella spazzatura. Basta sbagliare la luce. È un lavoro sul filo del rasoio. Se faccio una mostra di Salvo, so come farla. Nel mio libro lo definisco “Alien è nel tramonto”.

 

LLP: Un aspetto che ritengo emergere in maniera evidente guardando te e gli artisti con cui hai lavorato rispetto alle nuove generazioni è l’importanza della poesia. Credo la poesia fosse veramente un mare in cui tutti nuotavano e si alimentavano, mentre oggi la sua centralità sembra essere venuta meno.

 

FT: Sì, soprattutto per Mario (Merz, ndr). Lui dice “quando la brina afferra la tenda allora vuol dire che la notte è consumata”. Per Mario Merz la poesia lavora nei campi. Dico sempre che la poesia è senza parole. Non puoi fare la poesia. Ci possono essere degli eventi particolari, delle fiammate. La poesia non è l’argomento ma la poesia c’entra. Come nel caso degli artisti di Portofranco.

 

LLP: Quando parli di Portofranco cosa intendi?

 

FT: È un titolo che hanno dato. Un po’ perché mi chiamo Franco, un po’ perché non sapevano come chiamarli. Antonio Serrapica, un artista straordinario che riesce a fare il meglio e il peggio contemporaneamente, ha fatto un piccolo dipinto di un motoscafo e l’ha messo in una bacinella. Questa è diventata l’immagine-manifesto di Portofranco. Ho molta ammirazione per questa persona che è praticamente inutile. Ho una passione particolare per le cose inutili. Quando ho scritto quelle due righe su Gino De Dominicis uscite su Flash Art ho detto che Gino era totalmente inutile. Inutile in senso positivo, nel senso di non voler essere dimostrativo, non fa vedere che ha un’idea. Penso che non bisogna avere nessuna idea nell’arte. Inoltre credo che l’arte non sia un argomento, ma che assomigli più ad un gatto. Queste sono le cose che a volte mi passano per le mente.

 

Una porzione degli artisti di Portofranco

 

LLP: Cosa vuoi dire con il termine “quasi arte”?

 

FT: “Quasi arte” perché leggeri. Gusmaroli agli inizi era un micro pittore meraviglioso. Bonomo è rimasto integro. Paolo Truffa, un artista che nessuno conosce, dipinge solo nuvole. O altri come Enzo Forese. Non è un sistema come succede in America. Gli americani vogliono avere un’identità, la carta di identità, mentre in questo gruppo sono tutti senza documenti, sono tutti clandestini. È come un evento poetico. All’inizio, dato che li trovavo abbastanza deboli come lavori, li esponevo in gruppo poi invece ho cominciato a esporli da soli e ognuno fa la sua parte.

 

LLP: Quando ti ho chiesto di fare questa intervista, mi hai premesso che avresti parlato di tutto, ma non di Prini perché di lui non riesci a parlare. Come mai?

 

FT: Perché penso che non bisogna raccontare più di tanto. Non ho voglia di dare informazioni, di dare notizie. Ho voglia di crescere. È l’unica cosa che desidero. Per cui non ho notizie da darti su Emilio, però Emilio è un bene prezioso che sfugge. In effetti è un accadimento che nell’arte italiana forse si può riconoscere solo in alcune figure come Marisa Merz, Millo (Emilio Prini ndr) e in modo più teatrale anche in Gino De Dominicis. Non si possono raccontare. È come la storia della poesia. Mi sono inventato che per Mario Merz la poesia lavora nei campi. Mario è contro il giardiniere. L’autorità della siepe è come l’autorità della forma: non è auspicabile. Se non fai il giardiniere, non costruisci questa siepe e non direzioni le foglie, la foresta ne guadagna. Io lascio libera la foresta di Millo (Emilio Prini, ndr), di Mario (Merz, ndr) e di Marisa (Merz, ndr). Sugli altri si può anche parlare.

 

LLP: Te lo chiedevo perché frequentando spesso Emilio provo la tua stessa sensazione quando qualcuno mi chiede di spiegarlo, proprio perché la poesia non si riesce a spiegare.

 

FT: Un altro artista immenso di cui non si può parlare più di tanto, non si può raccontare, è Luciano Fabro. Ma questa è una caratteristica dell’arte italiana in contrapposizione agli statements degli americani. Loro in fondo hanno sempre bisogno dei binari, mentre noi qui siamo sempre in esplorazione. È un peccato che il mondo anglosassone ha invaso questo nostro paese con Damien Hirst e artisti bravissimi. Portofranco in fondo è un po’ come una Little Italy per salvaguardarci dal mondo anglosassone, che, pur formidabile, non può occupare tutto il territorio! Questo è un paese che se un artista non muore non lo riconosce. Ad esempio Gino (De Dominicis ndr) è uno che non ha mai avuto un critico, non hai mai avuto un catalogo, però aveva un potere immenso come artista. E così Mario (Merz ndr). Mentre sappiamo che in America il potere è delle gallerie pur con artisti straordinari. C’è una sorta di capacità indipendente in artisti come Millo (Emilio Prini ndr) e altri, che non si adeguano mai completamente.

 

LLP: Ma a chi non ha avuto il privilegio di conoscere questi artisti, chi non ha avuto occasione di essere stato accanto alla sorgente, questa poesia arriva comunque? Si è in grado di capirla fino in fondo unicamente con quello che le loro opere comunicano?

 

FT: Se hai questa predisposizione, questa angolazione, ti arriva. Devi essere in una posizione giusta. Certo, ognuno di noi ha conosciuto alcuni artisti e altri no. Attraverso quelli che ho conosciuto, ho coltivato questo spirito. Non so cosa sarebbe accaduto se fosse successo il contrario. Non ho trovato nulla di equivalente.

 

LLP: Ti ho fatto questa domanda perché capita spesso che le mostre postume su questo tipo di artisti sono prive della poesia che li caratterizza. Penso a quella di De Dominicis al Maxxi.

 

FT: Sono mostre che se fosse vivo l’artista non si farebbero mai.

 

LLP: Però forse, come dicevi tu, se uno riesce a porsi nella giusta angolazione può sperare di ritrasmettere quella poesia...

 

FT: …tu cerchi veramente di sondare, capire, vedere e inglobare tutto. Io ho lavorato più sul frammento, su quell’attimo sufficiente a creare un progetto, una mostra. Se parli di Gino De Dominicis bisogna cercare di capire che lui era un’altra cosa, non quello che ti fanno vedere. Poi lui, un po’ come Luigi Ontani, ha lavorato talmente tanto in prima persona… Pensa se mancasse Luigi… Mancherebbe una parte fondamentale del suo lavoro. Sono artisti che agivano da vivi più che da morti.

 

LLP: Una curiosità. Tu hai fatto anche una delle prime mostre di Jake & Dinos Chapman?

 

FT: Sì nel 1994. Ero andato a Basilea e avevo visto questo lavoro meraviglioso dei disastri della guerra di Goya. Solamente che per la mostra loro mi avevano mandato questi lavori grandi con gli attaccapanni pieni di cazzi, fighe. Ho avuto un momento di smarrimento e non l’ho fatta. Poi ho saputo che per vendicarsi hanno fatto un multiplo intitolato Bring me the head of Franco Toselli (Vogliamo la testa di Franco Toselli). Mi piacerebbe averne uno!

 

Jake and Dinos Chapman, Bring Me the Head of Franco Toselli, 1995

 

LLP: Tra tutti gli artisti che ti hanno accompagnato in questa lunga avventura, chi è una figura che non è stata capita o che merita più luce? Hai nominato Salvo, Gilardi…

 

FT: …Gilardi è una figura interessante. Lui però ha più un pensiero sociale. Giuseppe Chiari, con il quale ho fatto una performance, diceva che l’arte è facile. Gilardi è una persona straordinaria, ma per lui l’arte è una possibilità per pensare ad altro. Lui sicuramente è una persona che merita…ma ora basta. Fermiamoci qui.

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