Fondazione Trussardi / "A Friend" di Ibrahim Mahama

30 Aprile 2019

Camminando a inizio dello scorso mese lungo Corso Buenos Aires a Milano, una macchia scura, un coagulo materico, si sovrapponeva all’abituale profilo dei caselli neoclassici di Porta Venezia. Avvicinandosi, i contorni indistinti della macchia assumevano una fisionomia sempre più riconoscibile fino a materializzarsi in una superfice di tessuto grezzo e slabbrato che rivestiva le forme sottostanti. 

 

L’impressionante installazione A Friend dell’artista ghanese Ibrahim Mahama, che dal 2 al 14 aprile ha ridisegnato i caselli daziari di Porta Venezia, sorprendeva in prima battuta per l’imponenza e l’intensità cromatica. Promossa dalla Fondazione Nicola Trussardi e curata da Massimiliano Gioni, l’installazione è stata realizzata con 10.000 sacchi di juta cuciti tra loro e drappeggiati sulla forma degli edifici sottostanti, secondo un procedimento che Mahama ha proposto in altre occasioni, tra cui la Biennale di Venezia (2015) e Documenta 14 (2017). L’installazione era compresa nell’Art Week milanese, un programma di mostre, performance, esposizioni ed eventi che per una settimana ha coinvolto diversi luoghi della città e a cui la Fondazione Trussardi partecipa da diverse edizioni con una serie di incursioni urbane.

 

Inserita nel tessuto cittadino al di fuori dei luoghi espositivi istituzionali, A Friend colloca il passante a un palmo dai suoi materiali, liberi da corde o transenne che ne proteggano la superficie. Tra gli elementi che compongono l’installazione, i sacchi di juta, grezzi e sfibrati, rendono evidente la loro natura di prodotti di riciclo (i sacchi di Porta Venezia erano stati precedentemente utilizzati in altre installazioni e sono stati riadattati da Mahama per la nuova realizzazione milanese). L’impiego di materiali di uso comune – legno, frammenti architettonici, tessuti e sacchi di juta – è del resto una pratica consolidata per l’artista, che adatta, assembla e manipola i suoi oggetti lasciando in primo piano le tracce della loro funzione originale. Al di là della loro specificità e provenienza, i materiali diventano nella sua opera l’espediente per esplorare tematiche legate alla circolazione di persone e di merci e gettar luce luce sulla parte invisibile di questi processi. 

 

 

La materia grezza ma resistente dei sacchi di A Friend presenta diverse particolarità, tra cui marchiature, piombini, scritte e sigilli che rivelano indizi sulla sua origine. Da questi elementi scopriamo che nella maggior parte dei casi si tratta di sacchi destinati al trasporto di cacao prodotto in Ghana o in Guatemala ma, oltre alle indicazioni di origine, le fibre presentano iscrizioni con nomi propri e numeri di documenti. Queste ultime sono aggiunte legate al progetto espositivo e rappresentano, nell’idea dell’artista, le identità delle migliaia di persone che lavorano, maneggiano e trasportano le merci destinate all’Occidente e che nel processo dal produttore al destinatario perdono di definizione, venendo ignorate o dimenticate. Si tratta infatti di una forza lavoro che vive in condizioni di disagio e povertà, senza tutele e senza adeguato riconoscimento economico. Per realizzare l’installazione l’artista ha copiato su alcuni sacchi i numeri di documenti e i nomi delle persone con cui è entrato a contatto, imprimendo la loro traccia sulla tela con l’intento di rivelare al mondo la loro presenza. Esibendo queste identità l’installazione sottende così un allargamento dello sguardo alle storie di quanti vivono in un regime di invisibilità, dove la miseria diventa un fenomeno da nascondere con vergogna.

 

Presenti come cicatrici sulla pelle dei lavoratori, le cuciture e le lacerazioni dei sacchi di A Friend richiamano inequivocabilmente quelle impresse da Alberto Burri nelle sue opere: è con lui, infatti, che i sacchi di juta entrano per la prima volta nello spazio della tela, diventando la materia pittorica che porta in scena lo scorrere del tempo. Se dal punto di vista metaforico i sacchi di Burri sono stati più volte interpretati come le ferite aperte dalla seconda guerra mondiale, a livello oggettuale il richiamo ai contenitori utilizzati dagli americani per trasportare aiuti alimentari risulta altrettanto denso. Ed è proprio mantenendo in primo piano la loro funzione primigenia che l’opera di Mahama si colloca sulla scia di quella di Burri, riattualizzando i suoi contenuti alla luce delle lacerazioni del presente. 

 

Altrettanto stringente appare la relazione con gli impacchettamenti di Christo, dal momento che sul piano strutturale l’installazione di Mahama riveste il monumento alla stregua dei lavori dell’artista e di sua moglie Jeanne-Claude. Delle azioni di Christo Milano conserva una memoria diretta: nel novembre 1970, nell’abito delle iniziative promosse dagli artisti del Nouveau Réalisme, l’artista imballò la statua equestre di Re Vittorio Emanuele II e il monumento a Leonardo da Vinci in piazza della Scala, suscitando la violenta reazione di diversi gruppi di cittadini.

 

Se a distanza di decenni l’impatto provocato dal rivestimento di un monumento è ancora impetuoso – bastava ascoltare i commenti delle persone raccolte sotto all’installazione per rendersene conto – l’operazione di Mahama si fa tuttavia portatrice di una narrazione differente rispetto a quella di Christo: essa implica tematiche scottanti come la circolazione delle merci e delle persone, la migrazione nell’epoca della globalizzazione, i confini territoriali come limiti e opportunità. 

 

Ed è proprio l’idea di confine a emergere in maniera più decisa dal lavoro dell’artista ghanese, che attraverso questa “occupazione civile” – come lui stesso chiama le sue operazioni – riflette sul doppio statuto di merci e persone. Prodotti in Asia e giunti nel continente africano, i sacchi che contengono le merci attraversano i confini nazionali con estrema facilità rispetto alle persone, costrette a superare diversi gradi di controlli e burocrazia per ottenere il permesso di varcare le soglie del proprio territorio. Ponendo questa semplice premessa, l’artista mette in luce le ambiguità della società globale, che restituisce agli oggetti una rilevanza e una dignità maggiori rispetto a quelle destinate alle persone.

 

In questo senso, la scelta di realizzare A Friend a Porta Venezia risulta estremamente efficace, perché la porta è uno dei luoghi di confine simbolicamente più densi della città. Citata da Manzoni – è attraverso i suoi caselli che Renzo entra a Milano – e da molti altri scrittori e artisti, la porta ha rappresentato per secoli il primo passaggio verso Oriente, luogo di separazione tra la città e la campagna ma anche centro di connessione tra interno e esterno, tra amico e (presunto) nemico. 

 

L’installazione di Ibrahim Mahama induce dunque a riflettere su quale sia l’accezione di confine che rappresenta maggiormente la nostra idea di società contemporanea: barriera, linea e muro in cui trincerarsi o limite e varco oltre cui spingersi? La soluzione a questa domanda (se mai esiste) non è prevista dall’artista, nonostante il suo lavoro spinga a formulare un ragionamento che muove oltre la superficie delle cose. È proprio sulla superficie che si dipana tuttavia l’installazione, esibendo una nuova possibile pelle a sostituzione di quella antiquata e neoclassica dei caselli, assimilata e non più in grado di destare attenzione. Le stratificazioni di questa nuova pelle, le sue lacerazioni e grossolane cuciture, i suoi buchi possono allora diventare metafora dei fallimenti e delle rotture prodotti dalle vecchie consuetudini e pregiudizi, che l’ago può ancora riparare ma non salvare dall’usura del tempo. Usare categorie nuove, spingersi oltre l’immediata veste dei fenomeni, mostrare quello che viene abitualmente occultato: ecco forse le azioni suggerite da Mahama per evadere dal confine invisibile che circonda le nostre vite, ripagando il debito che ci lega ai mondi sommersi della produzione globale.

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